Lavinia Bifulco, Maria Dodaro (a cura di)
Quale welfare dopo la pandemia?
DOI: 10.1401/9788815412003/c3
{p. 59}La componente monetaria è senza dubbio una delle più importanti per spiegare il fenomeno delle dimissioni. In media, la retribuzione di chi si è dimessa tra il 2019 e il 2021 era di 895 euro mensili, mentre la media di chi si è ricollocata è di 1.073 euro mensili. La differenza riguarda tutta la distribuzione e non solo il valore medio. Chi guadagnava di meno ha lasciato un lavoro la cui retribuzione non raggiungeva più di 507 euro mensili, mentre chi guadagna di meno tra chi si è ricollocata raggiunge i 606 euro; parimenti, il valore mediano passa da 742 euro a 912 euro e così via.{p. 60}
Tab. 3.4. Professioni di uscita (2019-2021) e di ricollocamento (2019-2022 III trim.) di chi si è dimesso/a per la prima volta
Dirigenti e imprenditori
Specialisti in scienze mediche, psicologiche e sociali
Professioni tecniche sanitarie
Docenti, ispettori e orientamento
Ass. sociale nei serv. sociosanitari e di assistenza alle persone
Personale non qualificato nei serv. sociosanitari e alle famiglie
Dirigenti e imprenditori
13,9
10,9
1,2
2,6
0,2
0
Specialisti in scienze mediche, psicologiche e sociali
2,3
39,8
1,6
2,3
0,5
0
Professioni tecniche sanitarie
0,1
0,5
46,9
4,3
3,5
0,5
Docenti, ispettori e orientamento
0,1
0,6
2,1
49
2,8
0,9
Ass. sociale nei serv. sociosanitari e di assistenza alle persone
0
0,2
2
3,5
36,7
4,3
Personale non qualificato nei serv. sociosanitari e alle famiglie
0
0
0,4
0,9
7,7
20,5
Totale
0,3
2,6
11,5
8,7
15,6
6,7
 
 
 
 
 
 
 
Tab. 3.4. Continua Professioni di uscita (2019-2021) e di ricollocamento (2019-2022 III trim.) di chi si è dimesso/a per la prima volta
Altra
professione
Totale
ricollocato
Non
ricollocato
Dirigenti e imprenditori
10,5
39,4
60,6
Specialisti in scienze mediche, psicologiche e sociali
6,2
52,8
47,2
Professioni tecniche sanitarie
7,1
62,9
37,1
Docenti, ispettori e orientamento
11,1
66,6
33,4
Ass. sociale nei serv. sociosanitari e di assistenza alle persone
11,1
57,9
42,1
Personale non qualificato nei serv. sociosanitari e alle famiglie
23,7
53,2
46,8
Totale
13
58,5
41,5
 
 
 
 
{p. 61}Nel complesso, il ricollocamento è orientato a una maggiore stabilità, sia oraria che contrattuale. Chi lascia un lavoro part-time, infatti, passa al tempo pieno nel 33,7% dei casi, ma fa anche rilevare una percentuale di ricollocamento più bassa (il 57,7% a fronte del 59,3% del full-time). In secondo luogo, nonostante nel settore prevalgano le assunzioni a tempo determinato, tra chi lascia un lavoro a tempo determinato il 19,7% passa all’indeterminato, mentre il contratto a tempo determinato è l’approdo prevalente (tra il 25 e il 28%) di chi esce da altre forme di lavoro a termine.
Per quanto riguarda le professioni, i dati elaborati mostrano una differenziazione marcata tra gli approdi del personale in relazione alla qualifica. Tra le qualifiche dirigenziali il 60,6% non si ricolloca come dipendente, mentre lo stesso avviene per il 47,2% del personale medico e specializzato, per il 37,1% del personale tecnico sanitario, per il 33% tra le docenti della scuola, per il 42,1% del personale qualificato nell’assistenza sociale e per il 46,8% di quello dei servizi di assistenza sociale e non qualificato. Tra queste ultime è maggiore la quota di quante cambiano completamente professione (23,7%), cosa che avviene con minor frequenza tra il personale con le qualifiche più elevate. Le coordinate fornite dalle qualifiche lasciano intravedere una certa polarizzazione del fenomeno. Mentre per le qualifiche più elevate il basso tasso di riposizionamento nel lavoro dipendente e regolare fa pensare a una propensione al professionismo, per le qualifiche più basse il basso tasso di ricollocamento richiama dinamiche di esclusione dal mercato del lavoro regolare e retribuito.

4. La crisi del lavoro di cura: rappresentazioni emergenti nella pubblicistica di settore

L’analisi fino a ora proposta, per quanto non esaustiva, lascia intravedere un campo di tensioni originato dalla combinazione tra tendenze ed elementi macro-strutturali che paiono senza soluzione di continuità (nel medio periodo) da un lato; strategie individuali (principalmente connesse {p. 62}alla ricerca di migliori condizioni di lavoro), intraprese dalle singole lavoratrici, sulla base di condizioni situate e relative risorse, dall’altro. Un quadro dominato dalla frammentarietà e dalla difficoltà a individuare utili elementi per un «rilancio» del lavoro di cura, intorno al quale tentare di raccogliere condivisione e legittimazione a supporto dell’azione collettiva.
A questo proposito, desideriamo chiudere queste nostre riflessioni richiamando un’ulteriore espressione di questa complessità: l’eterogeneità dei registri discorsivi in cui ha preso forma, durante e dopo l’emergenza pandemica, la rappresentazione e l’autorappresentazione delle lavoratrici della cura. Questa eterogeneità di narrazioni delinea un campo frammentato, il cui potenziale conflittuale e trasformativo stenta a uscire dallo stato di latenza, a causa tanto dei differenziali di potere tra gli attori in gioco, quanto della presenza di veri e propri biases cognitivi che ostacolano la creazione di rappresentazioni e opportunità d’azione condivise.
Senza alcuna pretesa di esaustività, abbiamo quindi ritenuto interessante prendere in considerazione alcune «voci», che, pur rappresentando una porzione molto specifica del dibattito pubblico, godono di riconosciuta autorevolezza e diffusione tra gli operatori del welfare sociale; si tratta di spazi di dibattito e di elaborazione largamente partecipati da alcuni degli attori fondamentali del lavoro sociale: operatori coordinatori e dirigenti, formatori e consulenti.
L’analisi del dibattito sulle fonti analizzate fa emergere diverse declinazioni del tema del lavoro di cura durante e dopo la pandemia.
In primo luogo, si ritrova in modo molto insistente il richiamo alla questione del valore del lavoro di cura, il suo carattere essenziale e di conseguenza alla necessità di un suo maggiore riconoscimento a livello culturale e politico. Questo tema è il più ricorrente ed è espresso, con toni e registri diversi, dai ricercatori accademici come dagli operatori. Se i primi insistono sulla dimensione storica e politica del mancato riconoscimento oppure sulla rilevanza educativa, pedagogica, sociologica o economica del lavoro di {p. 63}cura, ai secondi viene data voce principalmente attraverso le testimonianze dell’importanza e della bellezza della loro relazione con i cittadini utenti o attraverso aneddoti riguardo alla ricorrente confusione che circonda l’immagine pubblica del loro lavoro: è diventato oramai un topos narrativo quello della cena di Natale in cui il parente lontano si stupisce che la nipote sia pagata per fare l’educatrice con i bambini.
In secondo luogo, in continuità con quanto appena richiamato, trova spazio la questione delle condizioni in cui il lavoro di cura si svolge: sotto-pagato, invisibilizzato, ridotto – attraverso il meccanismo delle esternalizzazioni al ribasso – a pura variabile della sostenibilità economica del bilancio dello Stato. Rispetto a questo tema, va segnalato il registro abbastanza generico, che rimanda agli insufficienti finanziamenti pubblici da un lato e alla necessità di un «rinnovamento» del Terzo settore, generalmente declinato nella necessità di un maggiore orientamento imprenditoriale e alla diversificazione delle fonti di finanziamento dall’altro. A questo proposito è importante specificare la platea dei soggetti che intervengono sul tema: oltre ad accademici e operatori, un ruolo di rilievo è giocato dai dirigenti delle cooperative, dei consorzi e delle centrali cooperative, rappresentanti di albi professionali, più raramente amministratori locali.
Un terzo elemento emerso dall’analisi è il collegamento tra questi processi e una duplice crisi: da un lato quella delle politiche di welfare, dall’altro quella del Terzo settore. La crisi del welfare è declinata, classicamente, sia in termini economico-finanziari (rispetto all’insufficienza della spesa pubblica) sia in termini di adeguatezza rispetto alle trasformazioni sociali in corso (dall’invecchiamento della popolazione alla crisi economica). Rispetto a questo scenario, sembrano emergere due orizzonti di possibilità, non necessariamente alternative. Da un lato, il rilancio dei principi del welfare sussidiario attraverso l’istituto della co-progettazione, con ampio spazio dato all’onda lunga del dibattito regolativo conseguente alla riforma del Terzo settore (in particolare la tensione e il conflitto tra co-progettazione e Codice degli appalti) e ad alcune esperienze pilota annunciate o in atto a livello locale. Dall’altro, lo sviluppo di maggiori capacità
{p. 64}imprenditoriali da parte delle cooperative e imprese sociali e la diversificazione delle loro fonti di finanziamento grazie a strategie di «ibridazione» con soggetti e logiche dell’impresa for profit, con la dimensione «mutualistica» della cooperazione come nuovo valore aggiunto nella competizione di mercato. La crisi del Terzo settore, che viene fatta risalire all’assunzione di un ruolo meramente esecutivo e gestionale all’interno dei servizi pubblici, viene vista secondo diverse angolazioni, ciascuna delle quali con il suo specifico ruolo rispetto alla crisi del lavoro sociale: la rigidità delle strutture organizzative e decisionali degli enti; la difficoltà a valorizzare il contributo delle «giovani generazioni di cooperatori» (resistenza al ricambio generazionale delle classi dirigenti).
Note