Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c6
La fase di primo contatto è anche, allora, l’opportunità di apprendere dalla persona attraverso la sua esperienza di oppressione o di privilegio [Danso 2015]. In questa fase l’assistente sociale utilizzerà le conoscenze e consapevolezze acquisite durante la fase del lavorìo, riconoscendo, nell’incontro con la persona, contemporaneamente anche i potenziali limiti della propria conoscenza. Al centro della pratica anti-oppressiva c’è l’idea che gli assistenti sociali debbano vedere le persone come partner, il che significa alleati, sostenitori e attivisti che possono «insegnare» le loro culture e realtà [Baines 2017].
Nella fase di valutazione gli assistenti sociali attingono a quelle capacità critiche che sono parte della competenza culturale critica nonché alle capacità riflessive associate alla pratica anti-oppressiva. Questo processo include la necessità per gli assistenti sociali di creare spazio durante le riunioni di valutazione per negoziare con la persona i significati del problema o della situazione che richiedono la messa in atto di azioni risolutive e di cambiamento. In questa negoziazione il riconoscimento di qualsiasi intersezionalità e costruzione sociale delle identità è centrale. Questo processo di negoziazione aiuterà gli assistenti sociali a determinare un approccio culturalmente appropriato alla pratica mettendo al centro la narrazione della persona e l’identificazione dei suoi punti di forza e dei suoi bisogni [Almutairi, Dahinten e Rodney 2015].
Una volta che assistente sociale e persona hanno co-costruito scopi e obiettivi, è possibile quindi sviluppare un piano di intervento, da iniziare in collaborazione con la persona [Baines 2017]. L’intervento anti-oppressivo dell’assistente sociale dovrebbe concentrarsi non solo sulla persona ma dovrebbe anche affrontare i modi in cui le relazioni sociali, cioè la dimensione sociale micro, possono essere influenzate così che elementi di cambiamento sistemico possano essere introdotti [ibidem].
Nella fase conclusiva è fondamentale riconoscere le dinamiche e gli squilibri di potere, soprattutto in relazione a questioni strutturali di privilegio e oppressione, all’autorità del ruolo dell’assistente sociale e alla vulnerabilità ¶{p. 191}della persona [ibidem]. Ad esempio, a conclusione dell’intervento possono sorgere dinamiche di potere in merito a decisioni su quando e come terminare il programma e la relazione con il servizio. Rispettare la libertà della persona è una preoccupazione centrale per l’assistente sociale anti-oppressivo.
Nella fase di valutazione, l’assistente sociale e la persona richiamano quanto hanno co-costruito in termini di traguardi e obiettivi e identificano misure di progresso o successo. In questa fase, queste misure dovrebbero essere considerate attentamente mettendo al centro la narrazione dell’esperienza della persona durante il processo di intervento. Questa riflessione può comportare l’uso di tecniche di valutazione di natura qualitativa rispetto all’uso di strumenti di raccolta di dati quantitativi che potrebbero non essere culturalmente appropriati in una gamma di plurime identità sociali [Danso 2015]. Anche con l’indagine qualitativa, tuttavia, «i differenziali di potere potrebbero emergere; questa consapevolezza dovrebbe quindi essere inclusa per riequilibrare la costruzione, progettazione e strutturazione» dello stesso colloquio valutativo, anche se strutturato a mo’ di intervista [Rubin e Babbie 2013]. Danso [2015, 581] ricorda che:
le pratiche di intervista che si allineano con le norme culturali della comunità potrebbero ridurre i differenziali di potere nel processo di intervista. Le interviste dovrebbero essere condotte in modo da riconoscere e rispettare le idiosincrasie personali e culturali. Usare concetti ed espressioni culturali o invitare i partecipanti a suggerire modi per condurre interviste all’interno della comunità consentirebbe ai partecipanti di sentirsi convalidati riguardo alla loro cultura o autostima.
Dal punto di vista organizzativo, Barnoff [2011, 179] definisce un’organizzazione anti-oppressiva come un’organizzazione che
opera in conformità a un quadro teorico anti-oppressivo e in un modo che promuove i principi della pratica anti-oppressiva. Un’organizzazione anti-oppressiva ha una mission orientata alla giustizia sociale e lavora costantemente per: l’eliminazione di tutte le pratiche oppressive e discriminatorie; la riflessione continua sui, e la valutazione dei, propri processi organizzativi e risultati; una partecipazione e inclusione nell’organizzazione ampie; una capacità di risposta che rispecchi la comunità; la promozione di alleanze tra diversi gruppi; l’impegno in attività orientate alla giustizia sociale «oltre le mura» dell’organizzazione.
Naturalmente questo appare più come un «idealtipo» che come una forma reale. Sarebbe più appropriato pensare a un’organizzazione impegnata nel processo del divenire anti-oppressiva piuttosto che credere che ogni organizzazione sia completamente e perfettamente anti-oppressiva. Anche alla luce dei risultati della ricerca, in aggiunta a quanto identificato da Barnoff, proponiamo che un’organizzazione anti-oppressiva sia tale se promuove e adotta un approccio anti-oppressivo attraverso:¶{p. 192}
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un orientamento al cambiamento sociale che assuma, cioè, un più ampio scopo politico e non si veda soltanto come mero erogatore di servizi;
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l’esplorazione, la comprensione e l’eliminazione delle relazioni di potere e di pratiche oppressive e discriminatorie nelle sue politiche, nei suoi programmi, nei suoi processi e nelle relazioni organizzative;
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la riflessione e la valutazione condivisa dei suoi processi e i suoi risultati;
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l’impegno continuo in un processo sistematico di cambiamento e di sviluppo organizzativo per la pratica anti-oppressiva.
Organizzazioni e professionisti possono scegliere di ignorare l’oppressione e mantenerla, oppure di combatterla attraverso pratiche anti-oppressive. La matrice rappresentata nella figura 6 è un tentativo di identificazione della relazione tra pratiche oppressive e anti-oppressive individuali e organizzative.
In sintesi
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I temi delle diseguaglianze, del rispetto e della promozione dei diritti umani e del perseguimento della giustizia sociale sono i pilastri etici dell’azione degli assistenti sociali.
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L’oppressione si manifesta in relazioni di dominio che, nel dividere le persone in gruppi dominanti e gruppi dominati, producono negazione, discriminazione ed esclusione sociale. Le relazioni oppressive sono contrastate da iniziative anti-oppressive che hanno l’obiettivo di sradicare le ingiustizie e promuovere riconoscimento, partecipazione e uguaglianza.
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La pratica anti-oppressiva ha come obiettivi la liberazione personale e il cambiamento sociale. È basata sui diritti umani e guarda alle persone ¶{p. 193}come protagoniste della propria vita valorizzandone la loro unicità. Affronta le diseguaglianze strutturali e promuove forme di pratica capaci di «dare potere». È un approccio emancipatorio del servizio sociale che punta alla crescita individuale e allo sviluppo della comunità attraverso interventi olistici.
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Operare secondo i principi della pratica anti-oppressiva richiede al professionista un cambiamento: da esperto neutrale a facilitatore delle strategie di coping e di cambiamento a livello individuale, organizzativo e sociale. Questo shift di ruolo richiede processi di autoriflessione e autoanalisi necessari per lo sviluppo della consapevolezza critica. In questo modo il professionista può comprendere le differenze e riconoscere le ingiustizie.
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Il progetto CoPInG con il suo focus sui genitori in migrazione forzata evidenzia i fattori di oppressione consci e inconsci e le pratiche anti-oppressive consapevoli da parte degli assistenti sociali che lavorano con questi genitori.
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Per sostenere i professionisti in una pratica professionale che sia realmente anti-oppressiva possono essere utilizzati alcuni strumenti riflessivi, senza dimenticare che il singolo non può fare tutto da solo. È necessario che un cambiamento riguardi anche l’organizzazione.
Domande riflessive
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A partire da una riflessione sulla tua cultura, le tue credenze e i tuoi atteggiamenti potresti descrivere come questi influenzano e hanno un impatto sul tuo lavoro con i genitori che fanno esperienza della genitorialità su terreni incerti?
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Alla luce della risposta alla domanda precedente, considera gli eventuali tuoi pregiudizi e identifica gli eventuali stereotipi che potresti riconoscere come conseguenza. Rifletti su come questi potrebbero influenzare e avere un impatto sulle tue decisioni e sulle tue azioni.
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Pensando a una particolare etnia o cultura, usando Internet o altri materiali di ricerca, o chiedendo a colleghi o persone di tua conoscenza, identifica e rifletti su come quella cultura o etnia descrive e agisce i seguenti comportamenti genitoriali, inclusi il ruolo o le aspettative che in particolare anche i membri della famiglia o della comunità di riferimento hanno in relazione a:
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la disciplina verso i figli;
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l’abbigliamento di adulti e minori;
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le abitudini e i comportamenti alimentari;
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i ruoli e le relazioni di genere;
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la comunicazione genitori-figli, sia essa verbale e non verbale.
Dopo questo processo, confronta quello che hai identificato con le tue opinioni sulle stesse aree. Quali sono le differenze e le somiglianze tra la tua cultura e quella che hai esplorato? Come potresti fare in modo che ciò che ¶{p. 194}hai scoperto e hai imparato sulla cultura o etnia informi le tue valutazioni e sia applicato all’interno dei tuoi futuri interventi?