Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c6
Se la consapevolezza dell’impatto dei pregiudizi e delle «correlazioni mentali» [Miller 1990] nella relazione di aiuto rende la pratica professionale anti-oppressiva e «anti-discriminatoria» [Dominelli 2018], il managerialismo «burocratizzato» [Dominelli 1996; 2005] e la cogenza del mandato istituzionale appalesano e operativizzano dinamiche oppressive che sono subite in prima istanza dagli assistenti sociali e, in seconda istanza, a cascata, dai genitori. Le specificità di questi genitori mettono in crisi «modelli organizzativi precostituiti» [Giacalone 2012] e processi organizzativi incoerenti con i contenuti di un lavoro di tipo «non repressivo» [Olivetti Manoukian 1995]: gli assistenti sociali descrivono il mandato istituzionale come una «costrizione»,
¶{p. 185}un «percorso fatto di strettoie» che spinge paradossalmente verso pratiche oppressive consapevoli, e riconoscono che la relazione con la persona non è indipendente dal contesto, se una cultura oppressiva permea il sistema dei servizi e la relazione tra i servizi e la comunità, essi non riusciranno mai a lavorare in maniera pienamente anti-oppressiva.
Lavorare in modo anti-oppressivo con le persone, quindi, richiede che il contesto sia a sua volta anti-oppressivo [Dominelli 2009].
6. Diventare anti-oppressivi nel micro e nel meso. Sfide e strumenti
Quanto analizzato e discusso rende evidente che la pratica anti-oppressiva, nella quotidianità dell’azione professionale con i genitori in situazioni di incertezza, è un terreno scivoloso per gli assistenti sociali, nel senso che non è per loro un’abilità e uno strumento di lavoro acquisito una volta per tutte. Sembrerebbe che la sua praticabilità richieda, da un lato, un continuo lavor(ì)o a livello individuale per identificare e neutralizzare le possibili interferenze derivanti da «bias ed euristiche» [Kahneman 2012] e dagli assunti di un approccio più tradizionale di servizio sociale [Dominelli 2002] e, dall’altro, a livello organizzativo la decostruzione di quei paradigmi organizzativi tradizionali «omologanti, spersonalizzati e rigidi» [Gui 2008] con cui servizi e interventi per questi genitori sono pensati e offerti.
Definiamo «anti-oppressività al lavoro», quindi, nella sua duplice accezione di: a) processo individuale, inteso come lavoro riflessivo che il singolo professionista fa per raggiungere una piena consapevolezza dell’impatto sul proprio agire professionale delle proprie rappresentazioni di genitorialità e dei propri pregiudizi nonché dello squilibrio di potere in cui la relazione di aiuto esiste; b) processo organizzativo, inteso come cambiamento nella struttura e nella cultura organizzativa che legittimi, incoraggi e renda cultura e pratica organizzativa la pratica anti-oppressiva.
A livello individuale i risultati della ricerca avvalorano alcuni strumenti già identificati e discussi in letteratura [tra questi Healy 2014].
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(Auto)riflessione critica sul sé nella pratica. Porsi domande del tipo: «in che modo la mia posizione sociale crea posizioni di privilegio?» o «in che modo le divisioni sociali influiscono sulla mia capacità di soddisfare al meglio le esigenze della persona?» crea le basi per una riflessione su come le proprie biografie modellano e determinano gli squilibri di potere nella relazione d’aiuto. Aiuta anche a riconoscere a) le barriere personali, culturali e sociali che le persone affrontano; b) le proprie caratteristiche e il proprio posizionamento nella cultura e nella struttura; c) come tutto questo può impattare sulla persona.
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Valutazione critica delle esperienze di oppressione delle persone che si rivolgono al servizio. L’analisi critica dell’oppressione nell’intersezionalità (genere, ¶{p. 186}razza, classe e sessualità) consente di comprendere in che modo le politiche (macro) e i processi del servizio sociale (micro) incidono sulla vita delle persone e contribuiscono a sostenere le strutture e le culture di potere oppressive.
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Empowerment delle persone. Comprendere e rendere visibile alle persone che si rivolgono ai servizi l’oppressione che si manifesta a livello strutturale li aiuta a consapevolizzare la natura sistemica delle loro circostanze e come queste siano il risultato di forze esterne e indipendenti dalla loro volontà e azione. «Restituire potere» alle persone viene assicurato dall’affermarsi che la loro voce – quindi i modi e le forme con cui si definiscono i problemi e i bisogni dichiarati – è centrale nella valutazione del problema e dei bisogni e nelle opzioni per affrontarli e risolverli.
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Lavorare in partnership con le persone. Considerare la persona come esperta della propria circostanza significherà includerla nei processi decisionali che hanno un impatto sulla sua vita. Questo implica una condivisione del potere e un impegno alla trasparenza che permetterà alla persona la piena consapevolezza delle circostanze per prendere decisioni nel proprio interesse.
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Intervento minimo. Minimizzare le opportunità di controllo sociale intervenendo strategicamente e puntualmente nella vita delle persone in modo che l’azione professionale sia il meno invasiva possibile.
Nella figura 3 è rappresentato uno strumento che aiuta a considerare l’oppressione così come potrebbe essere percepita e vissuta dalle persone.¶{p. 187}
Uno dei modelli più diffusi e influenti nel servizio sociale per comprendere le discriminazioni e il focus della pratica anti-oppressiva è quello di Thompson [2005] che pone attenzione su tre specifici livelli: personale, culturale e sociale (PCS). Il modello connette l’esperienza personale, le attitudini e le credenze all’interno del più ampio gruppo sociale e le colloca nel contesto più vasto della società, riconoscendo esplicitamente che la discriminazione non è solo una questione personale, ma è presente nelle strutture e nelle reti sociali e culturali. Per comprendere e analizzare la discriminazione e l’oppressione, il modello invita a studiare le relazioni tra l’individuo e i diversi contesti sociali con particolare attenzione a:
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come questi tre livelli interagiscono;
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qual è l’impatto risultante da queste interazioni sia sugli individui che sui loro più prossimi sistemi sociali;
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come questi livelli possono essere affrontati per migliorare le esperienze e i risultati di coloro che ne subiscono l’influenza.
Il modello si presenta come nella figura 4.
Una modalità per operativizzare il modello PCS a sostegno della riflessività è porsi domande del tipo:
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quali sono gli elementi personali, culturali e strutturali che impattano sull’esperienza dei genitori su terreni incerti?
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come la comprensione di questi fattori influenza la valutazione del caso o il piano di intervento dell’assistente sociale che lavora con genitori che fanno esperienza di questi fattori?¶{p. 188}
Restando ancora sul livello individuale, un frame teorico-pratico informato da un approccio critico è quello che connette: a) la competenza culturale critica; b) l’intersezionalità; c) la pratica anti-oppressiva come un triangolo da tenere saldamento unito e all’interno del quale si declinano le fasi di un metodo di intervento anti-oppressivo.
Inizialmente definita come processo mediante il quale i professionisti riconoscono e affermano il valore delle persone di tutte le culture attraverso i) la consapevolezza dei propri valori, pregiudizi, limiti e presupposti; ii) la conoscenza della visione del mondo della persona; iii) le competenze culturalmente appropriate, rilevanti e sensibili [Sue e Sue 2003], la competenza culturale è stata recentemente rivista alla luce di un approccio più critico con l’argomento che
la consapevolezza, la conoscenza e le competenze da sole sono inadeguate per potenziare culturalmente la ricerca e la pratica del servizio sociale. La competenza culturale critica si riferisce alla capacità degli assistenti sociali si impegnarsi in analisi di alto livello orientate all’azione che inducono cambiamenti della cultura e dei fenomeni legati alla diversità [Danso 2015, 574].
Questo concetto implica un processo continuo di costruzione di consapevolezza, di conoscenza e competenze, e riconosce che ciò che è «culturalmente differente» non è solo la persona di colore e le minoranze etniche, ma anche altri gruppi come le minoranze sessuali e le persone con disabilità [Sue e Sue 2003]. La competenza culturale critica include, quindi, questioni come i differenziali di potere nella relazione professionista-persona, l’esame della propria posizione sociale o della posizione sociale detenuta nella società sulla base di caratteristiche sociali [Lusk, Terrazas e Salcido 2017] e l’intersezionalità, intesa come «un modo per comprendere e analizzare la complessità nel mondo, nelle persone e nell’esperienza umana» [Collins e Bilge 2016, 11]. L’intersezionalità, in particolare, considera «la disuguaglianza sociale, il potere, la relazionalità, il contesto sociale, la complessità e la giustizia sociale» [ibidem, 53].
Il modello presentato nella figura 5 descrive le fasi di un intervento informate dall’approccio anti-oppressivo e intersezionale.
La fase del lavorìo evidenzia l’importanza di fare delle pratiche riflessive riguardanti il proprio posizionamento (con particolare riferimento all’intersezionalità) e la valutazione della competenza culturale una specie di seconda natura dell’identità e pratica professionale. I principi della pratica anti-oppressiva richiedono agli assistenti sociali di impegnarsi, costantemente, nella riflessione e nella riflessività su: i) chi siamo come assistenti sociali; ii) cosa e come facciamo le cose [Baines 2017]. Al centro di questo processo c’è la questione delle identità sociali del professionista e di come queste identità possano strutturalmente produrre posizioni di privilegio o di ¶{p. 189}oppressione. Considerare questo «posizionamento» strutturale come parte integrale della propria identità e ruolo e «richiamarlo» prima di incontrare persone che potrebbero avere posizioni diverse è vitale per gli assistenti sociali. La riflessività, in questo senso, è la capacità di guardare dentro e fuori l’identità personale e professionale dell’assistente sociale (inclusi i valori e i principi) per riconoscere come la società e la cultura influenzano la pratica, al pari della storia e biografia del professionista stesso. L’assistente sociale riflessivo dovrà costantemente chiedersi «Come posso creare e influenzare la conoscenza e la consapevolezza sulla pratica professionale e sui metodi che utilizzo per prendere le decisioni nel mio lavoro?». Abbracciando la riflessività, gli assistenti sociali vanno oltre la semplice riflessione su come sta andando il lavoro, l’intervento e la relazione con le persone che sono in carico ai servizi.