Elena dell'Agnese, Daniel Delatin Rodrigues (a cura di)
Re(l)-azioni
DOI: 10.1401/9788815410795/c7
La seconda esperienza presso cui ho svolto osservazione partecipante – anche qui per la durata di circa due mesi complessivi, a cavallo tra giugno e agosto 2018 – è «Lou Bià» («La segale» in occitano), un’azienda agricola di coltivazione di segale e orticole con annessa locanda-agriturismo, sita in borgata Torello di Marmora, di proprietà di Cristina e Daniele, 55 anni lei e 60 lui; Cristina è nata in Valle, l’ha lasciata dopo l’adolescenza e ci è tornata stabilmente dopo
{p. 173}una ventina d’anni di vita e lavoro nell’area di Cuneo; Daniele, dopo aver lavorato a Cuneo come falegname ed essersi spostato per anni in Trentino e Valle d’Aosta lavorando sugli impianti sciistici e come guida alpina nell’«industria dello sci», sceglie di venire a vivere in Valle Maira oramai trent’anni fa. Per i primi dodici, mi racconta, ha vissuto in una borgata isolata in modo completamente autosufficiente, dall’energia per scaldarsi, al fuoco per cucinare, all’approvvigionamento di cibo ecc., per poi conoscere Cristina e spostarsi ad aiutarla nell’azienda familiare che lei aveva deciso, una volta tornata stabilmente in valle, di rilevare.
Altro elemento interessante è che presso il Lou Bià è data la possibilità a giovani volontari che hanno intenzione di conoscere e apprendere la vita neo-rurale neo-contadina di essere ospitati in azienda per periodi anche lunghi fornendo in cambio il proprio apporto in termini di manodopera [7]
. In queste vesti (sebbene non come ufficiale «WWOOFer») è rientrato anche il mio ruolo, dandomi la possibilità di conoscere i miei informatori accompagnandoli nelle mansioni quotidiane di conduzione dell’orto e dei campi di segale, dell’accudimento degli animali (una ventina di galline e sei capre), nella gestione della locanda e nella preparazione della ristorazione.
Qui è il «regno» di Cristina, che è nata su questi terreni e tra le case abbarbicate l’una sull’altra di borgata Torello di Marmora, a 1.400 metri di altitudine. Qui la sua famiglia ha sempre posseduto terreni a pascolo per le mandrie di vacche dell’azienda lattiera. L’attività cessò e Cristina, dopo aver finito le scuole, lavorò con svariate occupazioni nelle {p. 174}cittadine della pianura di Cuneo e in città, prima di decidere che il richiamo delle radici familiari e dell’ambiente della montagna sovrastava nettamente la vita che stava conducendo nella piana perché, come mi dice, «ovunque sono andata non ho mai trovato un posto dove io mi sia sentita a casa».
Decide così di «tornare su» e avviare l’azienda agricola sui terreni ancora di proprietà, dapprima scegliendo di dedicarsi esclusivamente alla produzione di orticole e frutta per il commercio locale. Un’organizzazione aziendale che presto evolverà: infatti mi spiega che Lou Bià è nato come alternativa al fatto che non si riesce a vivere di sola agricoltura qui a 1.400 metri: «Visto che solo di verdura non si vive, ho messo su due camere, gli ho affiancato la cucina. È nato così».
Dalla vecchia abitazione di famiglia Cristina ha infatti ricavato una piccola locanda, che offre ristorazione e ospitalità tutto l’anno, servendo anche come posto-tappa e Locanda Occitana inquadrata nel progetto PO; Cristina si alterna così tra campi, cucina e camere, senza dimenticare di badare agli animali, che forniscono prodotti per la locanda (oltre che per l’autoconsumo) e servizi ecosistemici per un buon mantenimento dello stato di salute dei campi e dei terreni. Oltre a essere impiegati in locanda, i prodotti dell’azienda agricola vengono commerciati ad alcuni ristoranti della valle e anche venduti direttamente al cliente che passa in borgata. Nei campi di Cristina e Daniele, infatti, vige l’assoluta naturalità dei metodi di coltivazione: pomodori, zucchine bianche e tonde, finocchi, carote, melanzane lunghe, cavolo cappuccio, cavolo viola, cavolfiore, erbe aromatiche, insalate, patate, barbabietole, rape, rapanelli, cetrioli, zucche, peperoncini, cipolle, porri, aglio, fragole selvatiche, mele, ribes, lamponi, prugne, segale, mais, grano. Le diverse varietà vanno qui a formare una policoltura che inneggia e arricchisce la biodiversità, mi conferma Daniele. Molte sono le varietà locali, anche antiche e recuperate dopo anni di scarso utilizzo da parte dei coltivatori che seguendo le logiche di mercato della grande distribuzione organizzata ne avevano cessato la coltivazione. Tutti prodotti di qualità che vengono poi utilizzati in cucina da Cristina per offrire agli {p. 175}avventori una ristorazione che sia espressione del territorio, oltre a costituire un fondamentale apporto per il consumo alimentare domestico suo, di Daniele, e dei volontari ospitati.
La locanda del Lou Bià, come già anticipato, è stata ricavata ristrutturando la vecchia abitazione della famiglia di Cristina: una tipica casa rurale di montagna con la caratteristica struttura su tre piani [8]
. Partendo dalle vecchie mura in pietra, anche qui, i materiali utilizzati per la costruzione e l’arredamento, di provenienza locale, sono legno e ardesia. Il locale adibito alla ristorazione è più piccolo che al Puy, donando all’ambiente una dimensione fortemente familiare. Entrando, si attraversa prima una stanza adibita al riposo e al comfort, dove sono presenti delle vecchie sedie che Daniele ha ristrutturato e ha reso più confortevoli con l’aggiunta di ampi cuscini per la seduta e per lo schienale.
Qui fanno bella mostra alcune sue realizzazioni artigianali, cestini, quadretti, archi e una grande macina di pietra autocostruita. Proseguendo, si giunge alla sala da pranzo arredata da altre opere di Daniele e arricchita dai mobili di famiglia di Cristina, tra cui la credenza e due grandi tavoli in legno di ciliegio, che quando si riempiono fanno sedere in totale non più di venti persone. Poiché fungono da tavoli comuni, come mi spiega Cristina, oltre ad aver trovato una buona soluzione per organizzare le sedute in uno spazio contenuto, si favorisce anche la convivialità tra i commensali.
Anche al Lou Bià tramite la ristorazione come pluriattività si comunica un’espressione territoriale che contribuisce a supportare lo sviluppo economico della valle. Come mi spiega Cristina:
Io cerco di comprare tutto quello che non produco sul territorio, per cui il burro e il formaggio lo prendo qui a Marmora, da un {p. 176}signore che ha qualche anno in più di me, ha una moglie e tre figli. Secondo me, è giusto collaborare in questo senso; ci sono i clienti, gli faccio assaggiare il burro, gli faccio assaggiare il formaggio e poi, se posso, gli dico «prima di andar via passate da lui, magari ha il formaggio». Perché anche lui ha bisogno, deve vivere qui, ha una famiglia, deve vendere. E così con altri. La carne la prendo dal macellaio di Prazzo, il succo di mela se posso lo vado a prendere in valle, il miele se posso lo prendo in valle. Questo, secondo me, è vivere in valle: comprare in valle, aiutare l’economia della valle.

3.3.3. «Da Bruno»

La terza esperienza neo-contadina da me conosciuta è l’azienda agricola di coltivazione di orticole di Bruno, 60 anni, caso questo di un’azienda individuale; i suoi campi, per un’estensione di circa mezzo ettaro, sono ubicati principalmente presso la borgata Camoglieres di Macra. Bruno, dopo aver lavorato per anni nel settore della ristorazione e nel commercio tra Cuneo e Saluzzo, prima come co-proprietario di un ristorante e poi come proprietario di un negozio di rivendita di articoli agroalimentari e cosmetici biologici, e dopo aver già praticato l’attività contadina per un intermezzo della sua vita negli anni Novanta, è tornato a occuparsi a tempo pieno di coltivazione appena 3 anni fa.
Bruno è di Saluzzo, un centro di media dimensione nella pianura cuneese; qui ha vissuto gli anni della gioventù e della prima età adulta, lavorando nella ristorazione in co-proprietà con un amico. Ma «la voglia di coltivare la terra», come dice lui, era un richiamo oltremodo potente. Ora ha dei terreni presi in affitto da privati e concessi dall’associazione fondiaria a Macra, in borgata Camoglieres appunto, a circa 1.000 metri di altitudine. Bruno adotta il metodo di coltivazione biodinamico, un insieme di pratiche sedimentatesi a partire dalla visione spirituale antroposofica del mondo elaborata dal teosofo austriaco Rudolf Steiner che credeva nelle «energie vitali» presenti nella materia. Sebbene si ponga nel solco dei metodi biologici, a differenza di quelli, non tiene conto solamente degli equilibri ecosistemici della Terra e del {p. 177}terreno, bensì utilizza pratiche (che si potrebbero definire «esoteriche»), tra cui l’utilizzo di alcuni «preparati» come il corno-letame (preparato composto da corna di mucca e letame), oltre all’attenzione verso le fasi lunari e le posizioni dei pianeti nelle costellazioni dello zodiaco.
Sebbene non sia un «fondamentalista», ho sentito più volte dire a Bruno che – secondo il calendario biodinamico – la semina di una tal varietà vegetale, finocchi, zucchine o peperoni, andava fatta in quel preciso giorno senza possibilità di rimandare l’operazione perché quelle erano le ore in cui si formava la necessaria congiunzione astrale. Non intendo qui soffermarmi sulla presunta o meno scientificità del metodo, bensì sottolineare come a partire da questa particolare impostazione etico-agricola, nelle pratiche di lavoro contadino di Bruno si osservi ovunque un’attenzione e una cura spasmodica indirizzata al benessere di tutti gli esseri viventi, animati e inanimati, e delle risorse naturali: i fili utilizzati per legare le piante di pomodoro ai fusti che le sostengono sono in materiale biodegradabile, così se si dovessero perdere nel terreno verranno naturalmente inglobati nello stesso degradandosi nel tempo. Stesso discorso per i teli con cui copre i filari dove coltiva, al fine di non permettere un’eccesiva crescita delle erbe spontanee (durante i lavori sul campo io le definii «piante infestanti» e Bruno mi fece notare che, al contrario, «sono spontanee semmai, sono le piante giuste al posto giusto»): li sceglie di un materiale ugualmente biodegradabile di modo che se anche si dovessero rompere delle porzioni di essi finendo nel terreno, non lo inquineranno. Anch’egli applica l’irrigazione a goccia, pescando l’acqua dal troppopieno [9]
del serbatoio posizionato sul torrente che scorre a 300 metri dai campi, utilizzando dunque solamente quella in eccesso.
È coproduzione tra attività neo-contadina e territorio venire a sapere da Bruno che ha appena piantato dei fiori ai confini del campo, tra cui la calendula, per un fine estetico di valorizzazione paesaggistica ed etico-ecologico in termini
{p. 178}di mantenimento della biodiversità, nonché per consentire alle api di trovare nutrimento. Dell’estrema importanza ecologica consentita dall’impollinazione delle api mi sembra ridondante parlare, ma sicuramente è evidente l’importanza effettiva e simbolica di questa pratica «coproduttiva» tra essere umano e ambiente. Noto la coproduzione anche mentre lo aiuto a seminare: Bruno si ferma spesso per controllare piccoli vermi e insetti che trova nel terreno per riconoscere se siano nocivi o meno: quelli che considera nocivi per il terreno o per le radici delle future piante vengono liberati ai margini del campo (non gli ho mai visto uccidere un solo insetto, anzi mi risponde che gli dispiace doverli allontanare, «loro abitano qui, io non c’entro niente»), invece altri come i lombrichi, che hanno unicamente un apporto positivo, vengono riconosciuti e con cura riposti nella terra.
Note
[7] Tale esperienza di volontariato rurale rientra interamente nell’esperienza permessa dalla piattaforma internazionale WWOOF (World Wide Opportunities in Organic Farms): «Il movimento WWOOF è nato nel Regno Unito negli anni Settanta dall’idea di Sue Coppard che ha dato il via ai primi soggiorni nelle fattorie biologiche in cambio di aiuto. Ancor oggi lo scopo principale del WWOOF è sostenere, divulgare e condividere la quotidianità in campagna secondo i principi dell’agricoltura biologica. Mette in primo piano i rapporti di armonia tra le persone e l’ambiente, per un’agricoltura a misura d’uomo che sia rispettosa della natura» (https://www.wwoof.it).
[8] Il patrimonio edilizio alpino piemontese, seppur modulato su diverse varianti, segue un efficace schema su tre piani che consentiva una semplice soluzione alle rigide condizioni invernali, prevedendo il ricovero per gli animali e le granaglie nella sezione inferiore allo scopo di scaldare l’ambiente, la stanza centrale dove si svolgevano tutte le quotidiane azioni familiari e il fienile al piano superiore, per sfruttarne l’effetto coibentante.
[9] In serbatoi e vasche di grande capienza, apertura che impedisce al liquido di superare un livello limite.