Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c5
Afferma O. Negt: «Quando oggi parliamo di crisi, non
possiamo trascurare il fatto che […] l’erosione ha da tempo raggiunto i settori chiave della
società toccan
¶{p. 204}o i problemi della morale del lavoro nel suo
complesso, le questioni del senso o non-senso del lavoro»
[9]
. Presenterei la cosa in altri termini — come ho cercato di fare — ma condivido
tale giudizio, che è convalidato del resto dagli atteggiamenti dei giovani verso il lavoro:
atteggiamenti i cui tratti soggettivi ed esistenziali mostrano la tensione e la speranza
verso relazioni diverse tra vita e lavoro, verso modi nuovi di vivere il lavoro
[10]
. Questi atteggiamenti, oltre a essere inediti, sono anche
massificati: non siamo più alle élites goliardiche borghesi degli anni
’20 e ’30, né ai vitelloni o basilischi
piccolo-borghesi degli anni ’50, che in modi altezzosi oppure osceni irridevano
ai lavoratori e al lavoro
[11]
. Né potremmo insegnare daccapo ai giovani ciò che tanti di noi hanno bevuto col
latte materno o appreso alla «dura e temprante scuola»: o lo impareranno anche loro, alla
maniera nostra ma non senza rivoltarsi contro quelle condizioni che essi ritengono oggi
inaccettabili; oppure lo impareranno a modo loro ed avranno allora una stagionata saggezza
in meno da trasmettere e qualcosa in più da dire, o di diverso. Non vale dunque prospettare
ai giovani l’alternativa fra alienazione ed emarginazione, come tenacemente fa S. Garavini
scrivendo: «In alternativa all’assistenza e al rifiuto del lavoro, presenti in questa
società e in questa crisi del capitalismo, noi proponiamo la scelta del lavoro e della
produzione. Ma la nostra proposta è fatta in nome di una concezione del lavoro visto non
come condanna a un’alienazione indomabile; altrimenti, la scelta non sarebbe per il lavoro
ma per la fatica, in senso biblico, non socialista». E così prosegue: «La tensione per
liberare il lavoro — per il domani, ma partendo dall’oggi, muovendoci nel lavoro concreto in
cui si esplica lo sfruttamento capitalistico — dagli aspetti più opprimenti di fatica e di
dequalificazione, la lotta per la qualità e contro il peso del lavoro, sono parte
assolutamente decisiva della nostra proposta di lavoro produttivo in questa società, come
obiettivo centrale contro quell’emarginazione sociale che comincia proprio
dall’emarginazione dal lavoro»
[12]
.
Questo tipo di messaggio, cui non mancano né
no¶{p. 205}biltà né aporie, è senz’altro fra i più coerenti che il movimento
operaio possa indirizzare ai giovani. Ma non basta più. Bisogna capire che al movimento
operaio e a chiunque altro non è ormai possibile riproporre proficuamente il concetto di
lavoro, in tutto il suo spessore, senza sfrondarlo con la critica dagli allori che ne hanno
accompagnato l’epopea sotto le opposte insegne del capitalismo e del socialismo. Al
movimento operaio inoltre sarà difficile riprendere l’iniziativa e riaccostarsi ai giovani
(soprattutto a quelli che lavorano), senza ripristinare una ratio
politica in quella critica al lavoro salariato che il marxismo volgare ha ambiguamente
mescolato con l’elogio del Lavoro in generale
[13]
.
3. Per una lotta credibile sul lavoro
Portare avanti questa critica significa anche
sottoporre a una verifica di congruenza la proposta di un lavoro diverso, o di una fabbrica
alternativa che dir si voglia, sia rispetto ai modelli di trasformazione ereditati dalla
tradizione teorica del socialismo scientifico, sia rispetto all’esperienza pratica fatta
nelle recenti lotte per modificare l’organizzazione e la qualità del lavoro.
Queste lotte vengono in Italia da una linea puntata
assai più sul modo in cui si lavora che sulle ragioni per cui si lavora. Ciò è pienamente
comprensibile e in parte inevitabile. Comprensibile per varie ragioni: basti dire che,
mentre si discute sempre più spesso di «qualità della vita», si rischia tuttora la salute
nell’industria, dove c’è il lavoro forse più raccomandato ma meno desiderato, anche perché —
a parte gli infortuni — in 30 anni sono centuplicate le sostanze nocive in essa impiegate
[14]
. Inevitabile, se non altro per la genesi e la gestione sindacale delle lotte
stesse, dalle rivendicazioni ai risultati e dalle forme agli strumenti: non si dimentichi
l’origine storica concreta dei primi Consigli di fabbrica, nel fatidico 1968
[15]
.
Del resto quella linea ha pagato. Solo che ha
incon¶{p. 206}trato difficoltà proporzionali ai risultati conseguiti.
Sorgono pertanto questioni sostanziali, che ci si deve porre ancora prima di chiedersi se
non sia necessario intervenire anche sullo scopo del lavoro, oltre che sulla sua
organizzazione.
a) Si tratta anzitutto di
appurare quale sia oggi il grado di elasticità politica dei processi di trasformazione della
fabbrica e della società — in pratica, quanto
questo decida di quello, e viceversa — alla luce dell’antico dissidio politico-ideologico
esistente nel movimento operaio fra chi pensava che, una volta abolita la proprietà privata,
la fabbrica sarebbe stata comunque diversa; e chi riteneva invece che, essendo questa
società montata sulla fabbrica, da qui occorresse comunque partire per cambiare il resto.
Come si vede, discutendo sulla relazione di dipendenza tra processi di trasformazione, ci si
divideva piuttosto sulle strategie che sui traguardi. Questi accomunavano il profilo
dell’altro lavoro in una visione tutto sommato uniforme ed
appagante, consistendo all’incirca nel contrario di questo
lavoro.
Prospettiva escatologica e prospettiva titanica;
l’atto in cui credeva Bebel e il processo in cui confidava Korsch; la via «leninista» del
partito politico e la via «ordinovista» dei consigli operai; innanzitutto gli operai
prendano il potere, conquistino la cittadella dello Stato; no, senza autogoverno dei
produttori son castelli politici o mostri statuali: nessuna di queste prospettive politiche
di rivoluzione proletaria e di emancipazione del lavoro ha fatto centro. L’una è andata in
porto ma non ha trasformato il lavoro né tanto meno le fabbriche, l’altra non è neppure
riuscita a passare.
E tuttavia, su quell’irrisolta questione strategica
della fabbrica alternativa e del lavoro diverso — libero, creativo, che abbia un
senso, che valga la pena —, esse hanno
lasciato nel movimento operaio sopravvivenze che si possono tuttora discernere pur essendosi
fatte nel frattempo scolorite. Si ripropone ad esempio l’antico dissidio sul segno ancor
prima che sul grado della dipendenza fra i processi di trasformazione. Si parli o no di
socialismo, da un lato permane la tendenza a ricon¶{p. 207}durre gli
obiettivi di un cambiamento nell’organizzazione e nella qualità del lavoro entro quelli più
generali della trasformazione sociale; dall’altro resiste la propensione a sottolineare la
determinante peculiarità di quegli obiettivi, proprio agli effetti di queste trasformazioni.
Nella prima prospettiva, si considera che uno sviluppo dell’occupazione e una maggior
giustizia sociale concorrano potentemente a sdrammatizzare i problemi delle condizioni e
delle motivazioni al lavoro, anche perché si ritiene che l’attuale divisione sociale del
lavoro, e in parte anche quella tecnica, sia modificabile solamente in tempi piuttosto
lunghi. Quindi si pensa che una trasformazione della società e dello Stato possa migliorare
e rendere accettabile anche il lavoro di fabbrica. Nell’altra prospettiva si ritiene invece
fondamentale un mutamento di qualità del lavoro e una decisione dal basso su come e cosa
produrre, per determinare modificazioni nel modello di sviluppo e nella gerarchia sociale,
anche perché si giudica indispensabile aggredire la divisione sociale del lavoro a partire
da dove essa si manifesta come potere incorporato nelle tecnologie. Quindi si pensa che se
il lavoro industriale non cambia, la società resta com’è (allo Stato si dà in genere scarsa
importanza).
Queste due prospettive, che contrassegnano l’anima
realista e l’anima volontarista del movimento
operaio d’oggi (anche se realismo e volontarismo non mancano ad entrambe, a loro volta
ricche di sfaccettature), coincidono soltanto quando viene dichiarato l’intento di eliminare
i lavori più nocivi-gravosi-penosi, e quando vengono rivolte intemerate ai giovani per i
loro atteggiamenti verso il lavoro. Con queste due prospettive, dunque, il confronto va
ancora portato a fondo.
b) In secondo luogo, alla luce di
conquiste e novità, che confortano solo in parte le speranze degli anni ’70 (anche in un
paese come l’Italia dove molto si è lottato e molto si è ottenuto), si tratta di appurare
quali condizioni di fattibilità abbia l’obiettivo di trasformare a fondo l’organizzazione
del lavoro e di elevare nettamente la qualità del lavoro, onde renderlo più accettabile,
¶{p. 208} interessante e motivato di quanto sia oggi nelle fabbriche e negli uffici
[16]
.
Quest’altro terreno di confronto non è meno
impegnativo giacché riguarda le modalità pratiche e non solo i modelli teorici della
trasformazione. Di fatto, occorre cercare di capire fino a che punto e per quali strade sia
praticabile un cambiamento della fabbrica tale da costituire una violazione cosciente dei
parametri sui quali si regge il lavoro salariato — nell’economia politica come nella
politica economica, nella gestione aziendale come nel controllo sociale — senza che lo
stesso modello statuale debba venire consapevolmente attaccato e cambiato.
Questo problema, del grado di elasticità fra processi
di trasformazione con più epicentri, non si può affrontare dicendo che lo si è già risolto
(anche perché non si risolve mai del tutto), né si può risolvere dichiarandolo inesistente.
Anzi, andrebbe francamente esplicitato dal movimento operaio perché solleva ormai questioni
acute di credibilità. Gli economisti ad esempio lo pongono sotto la fattispecie delle
«compatibilità». Essi affermano che non è possibile conseguire nello stesso tempo un
miglioramento della qualità del lavoro, una riduzione della sua durata, un accrescimento
dell’occupazione e un incremento della produttività. Affermare il contrario
[17]
significa: o che si preferisce ignorare regole dure e
parametri consolidati del modo capitalistico, magari illudendosi di poterli aggirare; oppure
che si intende contestare e sfidare queste regole e questi parametri onde renderli
compatibili con quegli obiettivi, magari nella persuasione che i lavoratori possano venirne
a capo meglio dei padroni. A questo intento sembra corrispondere la strategia adottata dal
sindacato e dalla sinistra in Italia per migliorare, accorciare e redistribuire il lavoro, e
per sviluppare al tempo stesso l’occupazione nel paese senza pregiudizio per la
competitività con l’estero.
Ma se è così, bisogna sapere che andranno infranti
vincoli profondi di sistema: una modificazione delle convenienze d’impresa (quelle a cui gli
economisti fanno
¶{p. 209}riferimento nel parlare di compatibilità), per
radicale che sia, non riesce a invertirne il segno fino’ a far diventare conveniente quel
che non lo era…
Note
[9] O. Negt, Le condizioni per dirci marxisti, in «Rinascita», n. 39, 12 novembre 1979, p. 24.
[10] «Ciò non vuol dire che i valori scompaiono dalla vita dei giovani [...]. Ciò che scompare completamente è la stabilità dei valori»: così M. Bonolis, E. Reyneri, La questione giovanile: dalla crisi del mercato del lavoro a quella dei valori morali, in I giovani e il lavoro, Bari, De Donato, 1978, p. 209. «Anche la “morale” del lavoro li trova assai riservati: per essi il lavoro non è un dovere ma una necessità»: G. Girardi (a cura di), Coscienza operaia oggi, Bari, De Donato, 1980, p. 218.
[11] Per questo starei attento a parlare oggi di una vera e propria «destituzione di valore», a proposito del lavoro, come fanno P. Bassi, A. Pilati, 1 giovani e la crisi degli anni settanta, Roma, Editori Riuniti, 1978, p. 51. Faceva notare H. De Man mezzo secolo fa: «Il fatto che il pensiero si stacchi dal lavoro, forse è la prova che si pone il fine per il quale si vuole vivere, più in alto di quello per il quale si lavora», La gioia nel lavoro, cit., p. 322.
[12] S. Garavini, Non si torna indietro dal sindacato dei Consigli, in «Rinascita», n. 44, 16 novembre 1979. Mi pare che a questa prospettiva si possa applicare tranquillamente il giudizio critico che B. Trentin dà allo sforzo compiuto da Gramsci per far convivere la liberazione della classe e la gestione della fabbrica, attraverso «la capacità (libertà) di accettare come necessità quella che era ieri un’imposizione dell’avversario di classe»: cfr. L’autogoverno nella fabbrica e nella società, in «Mondoperaio», n. 9, settembre 1979, p. 111. Ma per l’appunto, questo è proprio quel che fa chi chiede ai giovani di accettare il lavoro per cambiare la fabbrica: ripropone cioè la medesima cultura del lavoro che viene rifiutata.
[13] T. Veblen osservava nel 1919, con una punta di dubbioso sarcasmo, che in un ordine sociale diverso, «dove il lavoro non sarebbe più il segno di particolare necessità economica [...], si può perfino concepire che esso arrivi ad assumere realmente quel carattere di nobiltà agli occhi del mondo, che talvolta assume nelle speculazioni dei benestanti, quando sono di buon umore»; possibilità che — soggiungeva — «è stata tenuta in gran conto da pensatori socialisti»: cfr. «Insoddisfazione e condizione sociale», in C. Wright Mills, Immagini dell’uomo, Milano, Comunità, 1971, p. 180.
[14] Si veda il giudizio comparato fornito da generazioni diverse di lavoratori sulle condizioni di salubrità del luogo di lavoro nella recente inchiesta ISTAT, Primi risultati di un’indagine campionaria su alcuni aspetti del lavoro, anno 1978, in «Notiziario Istat», serie 3, foglio 34, n. 2 bis, aprile 1979; e Ricerca di massa sulla condizione operaia alla Fiat, a cura di A. Accornero, A. Baldissera e S. Scamuzzi, «Congiuntura sociale», Bollettino Cespe, n. 2, febbraio 1980.
[15] I delegati di reparto, in «Quaderni di Rassegna sindacale», n. 24, dicembre 1969.
[16] «Per larga parte dei lavoratori, per la grande maggioranza della “fanteria proletaria”, di operai senza qualifica che sono stati la forza d’urto delle lotte degli anni passati, permangono quelle condizioni che essi sentono ancora oggi, malgrado le conquiste che abbiano realizzato, pesanti, nocive e oppressive nei termini più tradizionali»; così S. Garavini in Qualità del lavoro e dello sviluppo, Roma, Editrice sindacale italiana, 1979, p. 29. Cfr. anche la seconda parte del volume Coscienza operaia oggi, cit., pp. 127-57.
[17] «Domanda: Gli obiettivi di aumentare l’occupazione, migliorare la qualità del lavoro, non sono contraddittori con quello, egualmente perseguito, di aumentare la produttività?Risposta: Non mi sembra che il mutamento della qualità del lavoro rappresenti una scelta contraddittoria con un aumento della produttività [...] Chi sostiene una simile tesi tende a rinviare a una fase successiva, al mutamento radicale del sistema economico e sociale vigente, la soluzione dei problemi di produttività, di occupazione e di qualità del lavoro, che si pongono invece oggi e che non tollerano rinvìi»: intervista di P. Negro a B. Trentin, in «Rassegna sindacale», n. 41, 8 novembre 1979