Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c5
Ma se è così, bisogna sapere che andranno infranti
vincoli profondi di sistema: una modificazione delle convenienze d’impresa (quelle a cui gli
economisti fanno
¶{p. 209}riferimento nel parlare di compatibilità), per
radicale che sia, non riesce a invertirne il segno fino’ a far diventare conveniente quel
che non lo era…
Si torna insomma all’altro ordine di questioni: quanto
si possa cambiare o promettere di cambiare la fabbrica,
l’organizzazione del lavoro, la qualità del lavoro, senza cambiare la
società, l’organizzazione sociale, i rapporti sociali stessi;
quanto si possa superare la divisione tecnica del lavoro senza intaccarne anche la divisione sociale
[18]
. Il che ripropone la domanda se non diventi indispensabile a
questo punto battersi per mutare non solo la qualità ma anche le ragioni del
lavoro.
Battersi, come? I pensatori e i capi del socialismo,
sebbene adottando prospettive politiche fra loro divergenti, scorgevano tutti una fabbrica
alternativa e credevano in un lavoro diverso, a condizione che venissero socializzati o
nazionalizzati o statizzati i mezzi di produzione; dall’alto o dal basso, questo adesso non
importa poi molto. Importa la circostanza che adesso siffatta condizione venga ritenuta non
solo politicamente obsoleta, per tutto quel che è successo ai rapporti di proprietà nei
quasi 50 anni che sono passati da quando Berle e Means hanno scritto il loro libro,
Roosevelt ha creato la NRA e il fascismo ha istituito l’IRI
[19]
; ma sia altresì giudicata insufficiente, dopo quel che non
si è verificato al seguito della prima rivoluzione nei rapporti di proprietà, avvenuta oltre
60 anni fa con Lenin.
In sostanza, pare che si possano ottenere gli stessi
risultati, se non qualcosa di meglio, senza tale passaggio. E non per causa di forza
maggiore, ma proprio per libera scelta. Su questo punto convergono largamente la prospettiva
realista e quella volontarista, che pure divergono tuttora — come s’è già detto — circa il
segno da dare alla dipendenza tra i processi di trasformazione fabbrica/società.
Si intravvede sempre la fabbrica alternativa e si
crede più che mai ad un lavoro diverso. Ma pare che, operando noi oramai nello Stato sociale
del capitalismo maturo e pubblicizzato, basti la diuturna, tenace e
conflittuale conquista di un lavoro ricomposto e riquali¶{p. 210}ficato in
una fabbrica democratizzata e partecipata, per mettere un giorno fine alla sua degradazione,
quand’anche dovesse rimanere salariato. Pare altresì che questa conquista possa svolgersi
per tappe successive, in una sequenza di piccoli traumi e incisivi successi, così incisivi
da produrre cambiamenti ma così calibrati da evitare patatrac, anche perché tratterebbesi
d’un cammino animato da rigore. Si agitano infatti proponimenti congiunti di rendere più
programmata e partecipata l’economia e l’impresa, più umana e scientifica l’organizzazione
del lavoro, cosicché la fabbrica a misura d’uomo si presenta alternativamente quale
negazione ed affermazione di una «razionalità organizzativa»
[20]
: un po’ come il dibattito sul «cosa produrre». Nella prospettiva volontarista
(ma solo in questa) si arriva persino a scagionare una certa disaffezione verso il lavoro,
con la scusante che essa riguarda questo lavoro, quello cioè da
superare giorno per giorno; mentre si professa la convinzione che
quell’altro, da costruirsi anch’esso giorno per giorno, sarà
certamente dotato di senso e metterà voglia di farlo. Nella prospettiva realista si è invece
più cauti sulla perfettibilità del lavoro salariato, mentre agli stessi fini si fa maggior
affidamento sulla riformabilità dell’impresa capitalistica.
Questo regime di certezze e di promesse avrebbe una
ragion d’essere, e risulterebbe comunque credibile, se le strategie non fossero così
inadeguate ai traguardi; ovvero, se i traguardi poggiassero su strategie capaci di
portarli.
Bisognerebbe almeno prevedere più rotture, oppure
promettere meno cambiamenti. Diventa infatti incredibile che il cambiamento della fabbrica e
del lavoro possa aversi, a produttività ed occupazione crescenti, solo cumulando una
sequenza di miglioramenti quotidiani apportati all’organizzazione e alla qualità del lavoro,
senza che il sistema sociale stesso ne sia scosso profondamente, e perfino il modello
politico. Proprio in Italia, dove questa lotta è stata ingaggiata con grande coerenza, si è
dovuto infatti constatare che dopo un po’ essa produce crepe le quali provocano «vendette»
economiche e rea¶{p. 211}zioni politiche imprevedibili, costringendo a
dosare il tiro, mentre lo scontro sociale diventa difficile da reggere se il sindacato resta
solo, e mentre fra i lavoratori le attese generate e l’impegno profuso possono determinare
insoddisfazione rispetto ai risultati raggiunti. Se si ritiene impossibile o inopportuno
forzare i rapporti sociali, gli assetti politici, le forme statuali oltre un certo limite,
niente male; ma allora è meglio chiedere e promettere in proporzione. Cambiare per davvero
il lavoro non è uno scherzo, tanto più se esso dovesse rimanere salariato.
Il movimento operaio ha ancora bisogno di utopia
nonostante si ispiri a razionalità e sia erede del socialismo scientifico. Ma questa non è
quella che serve per chiamare alla lotta, sostituire il presente e inventare il nuovo,
sopportando le verifiche del tempo e le lezioni dell’esperienza. Questa utopia, blanda nella
prospettiva realista e beata in quella volontarista, è la rivoluzione dei garofani, e la sua
credibilità non durerà lo spazio di una generazione. E c’è perfino da chiedersi perché mai
il lavoro rivalorizzato conflittualmente giorno per giorno fin quasi a farsi libero, debba
risultare più credibile dell’incredibile post-lavoro — naturalmente «ricco e gioioso» come
utopia vuole — che Boggs in chiave tecnologica e Negri in forma canonica piazzano al centro
di un comunismo ugualmente improbabile
[21]
.
Il lavoro va cambiato. La divisione del lavoro va
combattuta. Appunto per questo, non si possono puntare lì tutte le carte, tutte le forze. La
qualità del lavoro è importante, ma anche la considerazione del lavoro, anche lo scopo del
lavoro. Questi, stando in fabbrica a rivendicare professionalità, non si cambiano.
D’altra parte, il lavoro in sé non è più un valore
bastevole e mobilitante per l’uomo d’oggi: quando lo si capirà avremo superato l’ideologia
del Lavoro, che ha fatto il suo tempo e la sua parte anche nel movimento operaio. Il lavoro
non è mera attività dell’animale-uomo, ma neppure vocazione assoluta dell’uomo-artefice: è
un ruolo sociale. Non è un’intrapresa individuale, un mestiere
personale, bensì un’impresa collettiva: è un ¶{p. 212}
rapporto sociale storicamente determinato. E pertanto la trasformazione
dei suoi contenuti — qualità e senso del lavoro — è tutt’uno con il cambiamento sociale. È
questo, poi, che decide degli scopi. E questo più generale cambiamento, di cui la
trasformazione del lavoro può essere simbolo e leva, non può aversi che dietro un progetto
politico. Qui l’utopia può servire: ma solo se il lavoro resta un mezzo, non se ne diventa
il fine.
Note
[18] B. Trentin, in L’autogoverno nella fabbrica e nella società, cit. p. 110, parla di «superamento della divisione tecnica del lavoro, quale condizione necessaria per un superamento della divisione sociale del lavoro».
[19] A. A. Berle jr., G. C. Means, Società per azioni e proprietà privata, Torino, Einaudi, 1966. Sul processo d’intervento dello Stato e di socializzazione dell’economia, cfr. due recenti convegni pubblicati in Crisi e piano, Bari, De Donato, 1979; Stato e capitalismo negli anni trenta, Roma, Editori Riuniti, 1979.
[20] F. Butera, La divisione del lavoro in fabbrica, Padova, Marsilio, 1977, p. 80.
[21] Secondo J. Boggs, La rivoluzione americana, Milano, Jaca Book, 1968, p. 47, siamo «in un’epoca in cui tecnicamente per l’uomo è possibile semplicemente camminare per la strada e prendere il pane e il latte di cui ha bisogno». La citazione è di A. Negri e viene da Marx oltre Marx, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 174.