La valutazione dell'esperienza duale nell'istruzione e formazione professionale
DOI: 10.1401/9788815371225/c3
Capitolo terzo La via italiana al sistema dualedi Luigi Bobba
Notizie Autori
Luigi Bobba è presidente di Terzjus, Osservatorio di diritto del Terzo
Settore, della filantropia e dell’impresa sociale.
Abstract
Il capitolo prende le mosse da un’analisi relativa alla storia
dell’introduzione del sistema duale in ambito italiano, che tiene conto dei
principali obbiettivi, degli ostacoli nell’inserimento di tale modalità educativa nel
quadro delle politiche formative e lavorative a causa delle resistenze poste dalle
aziende, del divario tra regioni del nord e del sud e dei rapporti con le
istituzioni, il tutto con il fine di valutare l’effettiva realizzazione delle sfide
educative in questione e quindi dell’efficacia stessa della sperimentazione. Si
considerano successivamente le varie tipologie di formazione duale in Italia, in
particolar modo gli IFTS e gli ITS, delineandone la storia, le principali
caratteristiche e gli obbiettivi, per poi porre particolare attenzione agli
interventi necessari per implementare la formazione professionale nel sud Italia,
all’importanza del Piano nazionale di ripresa e resilienza nel contesto degli
investimenti statali e alle misure finalizzate al rafforzamento del sistema
duale.
1. Alle origini
Quando a fine febbraio 2014 sono
stato nominato sottosegretario al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ho
proposto al ministro Giuliano Poletti di assegnarmi, tra le altre, anche le deleghe per
la formazione professionale e le politiche attive del lavoro.
Una scelta non casuale, in quanto
nella mia storia sociale e professionale ho coltivato quei temi in modo assiduo, prima
avviando (1987) il Movimento Primo Lavoro, un’esperienza di orientamento e sostegno per
l’inserimento al lavoro dei giovani; poi, ancora, verso la fine degli anni Novanta con
diverse pubblicazioni
[1]
, con la presidenza dell’Enaip (Ente nazionale Acli istruzione
professionale); infine, tra il 2008 e il 2013, con la vicepresidenza della Commissione
Lavoro della Camera dei deputati. Con l’affidamento da parte dell’allora presidente del
Consiglio Matteo Renzi di un incarico di governo avevo dunque l’occasione per provare a
realizzare quanto avevo studiato e verificato sul campo.
In quegli anni, nel nostro paese,
erano evidenti tre criticità: la scuola secondaria perdeva per strada troppi ragazzi
(intorno al 16%) che abbandonavano prematuramente gli studi; l’offerta di formazione
professionale, competenza costituzionale attribuita alle regioni, si presentava in modo
alquanto disomogeneo, con aree territoriali quasi del tutto sguarnite e con una bassa
considerazione sociale, quasi un ¶{p. 114}segmento di serie B
dell’istruzione; infine, in modo ricorrente, l’indagine Excelsior di Unioncamere e
Ministero del Lavoro ci proponeva l’evidente mismatch tra domanda e
offerta di lavoro specialmente nell’area tecnico-professionale, in quanto circa il
25/30% delle posizioni richieste restavano scoperte, o per mancanza di candidati, o per
carenza di adeguate competenze degli stessi.
Poiché gli abbandoni scolastici erano
concentrati proprio tra i giovani meno favoriti, eravamo dunque in presenza di un
mancato rispetto del diritto costituzionale all’istruzione su tutto il territorio
nazionale, di una vera e propria selezione di classe rispetto alla possibilità di
conseguire un titolo secondario; si trattava inoltre di un indebolimento della capacità
competitiva delle imprese che, per carenza di personale professionalmente preparato,
perdevano occasioni di crescita e sviluppo.
L’occasione per mettere a fuoco il
tema della formazione duale si verificò in occasione dell’incontro italo-tedesco
[2]
tra i ministri del Lavoro Giuliano Poletti e Andrea Nahles, incontro che si
concluse con un accordo tra i due paesi per un partenariato sull’apprendistato. È ben
noto, infatti, che l’apprendistato costituisce in Germania un cardine dell’istruzione
secondaria e terziaria, con circa un terzo dei giovani tedeschi che consegue un titolo
secondario mediante l’apprendistato duale, ovvero formandosi sia a scuola che sul
lavoro.
L’incontro non rimase infecondo,
perché nel frattempo il Parlamento – dicembre 2014 – aveva approvato la riforma del
lavoro, meglio nota come Jobs Act. Il successivo d.lgs. n. 81 del
15 giugno 2015, nel contesto della nuova disciplina organica dei contratti di lavoro,
introduceva poi, per prima volta in Italia, il sistema della formazione duale con una
profonda revisione dell’apprendistato di primo e di terzo livello. Si voleva così
perseguire due obiettivi: dare da un lato una nuova veste all’apprendistato formativo,
che era quasi estinto nella sua precedente configurazione; introdurre dall’altro in modo
organico l’impresa come soggetto ¶{p. 115}rilevante nella formazione dei
giovani. Il clima per questo cambiamento culturale appariva favorevole, tanto che un
mese dopo il Parlamento approvava, all’interno della legge n. 107 meglio nota come
«Buona Scuola», l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro in tutta la scuola
secondaria superiore, prevedendo un numero differenziato di ore di formazione in azienda
negli ultimi anni del ciclo scolastico. Sempre la stessa legge affidava al governo una
delega finalizzata a rivedere il raccordo tra istruzione professionale statale e
formazione professionale regionale, in modo da rafforzare il sistema di Istruzione e
Formazione Professionale (IeFP) come parte integrante del ciclo secondario.
Con il mese di settembre 2015
maturano gli atti normativi conclusivi dell’introduzione nel nostro ordinamento del
sistema duale. Con il d.lgs. n. 150/2015 viene infatti disciplinata la sperimentazione
del nuovo sistema duale; vengono assegnate le risorse per il biennio 2016-2017, sia alle
regioni per l’organizzazione dell’offerta formativa duale, sia alle imprese che possono
contare sull’abbattimento dei contributi all’atto dell’assunzione del giovane in
apprendistato di primo livello; viene affiancata alla sperimentazione una misura di
abbattimento delle aliquote Inail per tutti gli studenti iscritti alla IeFP regionale.
Nello stesso mese la Conferenza Stato-Regioni approva l’accordo sulla sperimentazione
duale, definendo altresì le azioni di accompagnamento, rafforzamento e sviluppo del
sistema duale nell’ambito della IeFP. L’ultimo atto, che completa il percorso normativo
in capo al Parlamento e al Governo, è datato dicembre 2015: si tratta del decreto
interministeriale – Lavoro e Istruzione – che definisce gli standard formativi
dell’apprendistato di primo e terzo livello. Ora la sperimentazione poteva così
decollare.
2. Sul campo: la sperimentazione 2016-2018
Il principale ostacolo incontrato,
nel condurre in porto i diversi atti normativi prima ricordati, risiedeva innanzitutto
nella difficoltà a dare un nome a qualcosa che in Italia ancora non esisteva. In ogni
caso, inserire il sistema duale nella più ¶{p. 116}generale riforma
delle politiche del lavoro, è stata impresa più ardua di quanto inizialmente pensassi.
Ciò che avveniva in molti paesi
europei, in particolare in Germania, era sotto gli occhi di tutti. Eppure, come tutte le
novità, anche la formazione duale ha conosciuto la fatica di essere nominata e
identificata. Giunti a questo punto del tragitto, ci si poteva illudere che il più fosse
già realizzato. E invece ci si doveva scontrare ancora con non poche resistenze e
inerzie. Innanzitutto, c’era un involucro culturale da cui era difficile fuoriuscire. Mi
riferisco al fatto che la formazione di un giovane dovesse compiersi necessariamente in
un percorso di istruzione, in aula, tra i banchi di un magari vetusto edificio
scolastico. Fino all’introduzione nel nostro ordinamento della formazione duale e
dell’estensione dell’alternanza scuola-lavoro era come se l’esperienza e i luoghi del
lavoro non avessero alcuna funzione educativa. Espunti dai percorsi di istruzione,
potevano al più rappresentare un’occasione o uno strumento di addestramento o
abilitazione all’uso di tecnologie e procedure tecniche. Ma la loro funzione nella
formazione, anche in quelle che recentemente J.J. Heckman e T. Kautz hanno identificato
come character skills, era del tutto misconosciuta. Era come se la
rilevanza educativa del lavoro fosse stata negata o rimossa. C’era poi un secondo
ostacolo. In Italia esistevano ed esistono tre diversi «apprendistati». Due soli di
questi, quello di primo e terzo livello, corrispondono alla definizione europea di VET:
Vocational Education Training. Ovvero percorsi formativi
intrecciati con un contratto di lavoro – l’apprendistato appunto – che mirano a far
conseguire al giovane un titolo scolastico secondario o terziario. Insomma, una
formazione in aula e on the job. Ebbene, le due tipologie di
contratto di apprendistato formativo erano ormai quasi scomparse; si contavano infatti,
all’inizio del 2016, poco più di un migliaio di contratti di apprendistato di primo
livello, di cui più della metà siglati nella Provincia Autonoma di Bolzano dove era in
vigore un sistema analogo a quello tedesco. L’unico contratto di apprendistato che
documentava numeri importanti – tra i 350 e i 400.000 – era quello
«professionalizzante». Contratto che non possiede ¶{p. 117}però le
caratteristiche tipiche della VET, in quanto prevede un numero massimo di 120 ore
formative sul triennio, che per di più non sempre vengono svolte, giacché in non pochi
casi le regioni non predispongono un’offerta formativa appropriata. Il problema era
dunque: come tirare fuori dalla ridotta altoatesina l’apprendistato formativo?
Un terzo ostacolo risiedeva nel
fatto che, nella pratica delle imprese, il contratto di apprendistato formativo era
ormai inesistente o si presentava come un ingombro, un maggior costo da sostenere e
comunque una fattispecie desueta. Neppure la contrattazione sindacale aveva mai
affrontato tale problematica, finendo per adeguarsi alla realtà esistente e tutelando
unicamente il contratto di apprendistato professionalizzante.
Infine, la principale difficoltà per
incardinare i nuovi percorsi duali andava rintracciata nella difforme qualità e quantità
dell’offerta di IeFP da parte delle regioni. È ben noto che tale competenza
costituzionale – la formazione professionale – affidata alle regioni, ha trovato
applicazioni alquanto difformi con situazioni di eccellenza – nel Nord del paese – e
carenze macroscopiche, quando non vera e propria assenza, nelle regioni del Sud. Come
superare questa balcanizzazione della formazione professionale?
Certo non si poteva chiedere a un
modesto strumento, come quello delineato nel d.lgs. n. 150/2015, di superare in un sol
colpo tutte queste barriere. C’era però un’opportunità, forse residuale, che non andava
gettata alle ortiche: ovvero che, innestandosi in quel clima culturale di cambiamento,
anche un limitato arnese potesse servire ad avviare una trasformazione. Così si
avviarono una serie di incontri con le parti sociali, con i principali enti di
formazione riconosciuti e con le regioni. Senza il consenso e il protagonismo di questi
tre soggetti, difficilmente il sistema duale avrebbe trovato cittadinanza nel nostro
paese. Nel gennaio del 2016 vennero così sottoscritti venti protocolli d’intesa tra il
Ministero del Lavoro e le singole regioni. Ogni protocollo conteneva elementi distintivi
e specifici, ma tutti avevano tre linee di indirizzo comuni nell’utilizzo delle risorse
stanziate per la sperimentazione: l’avvio di percorsi triennali di qualifica con
¶{p. 118}il sistema duale; il potenziamento delle attività formative del
quarto anno con il conseguimento del diploma professionale; la messa in opera di
percorsi modulari per i Neet finalizzati alla qualificazione e riqualificazione di
giovani disoccupati o comunque non frequentanti alcun percorso formativo. Con mia
sorpresa, tutte le regioni aderirono alla proposta e venne costituito un Comitato di
indirizzo della sperimentazione per una verifica periodica dell’andamento delle
attività.