Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c4

IV I pensieri di Montaigne sul diritto
Da Studi in memoria di D. Pettiti, vol. II, Milano, 1973, pp. 901-919

1. Modernità di Montaigne.

Il nome di Michel de Montaigne «non ha ancora trovato considerazione presso gli storici del pensiero politico e sociale. Invano si cerca una menzione e tanto meno un’interpretazione dei suoi Essais in manuali o monografie di storia della filosofia del diritto e dello Stato, dove pur spetterebbe un posto a questo autore francese chiaroveggente e lungimirante, dopo Erasmo, Moro e Machiavelli, i primi umanisti, e accanto ai fondatori della filosofia politica del secolo decimosesto, La Boétie e Bodin». Queste parole in apertura del saggio di Erik Wolf Realtà del diritto e critica della giustizia in Montaigne [1]
non devono destare meraviglia. Uno studioso del suo livello, benché non li citi, non ignora l’esistenza di scritti precedenti sulla filosofia giuridica e politica di Montaigne. Ma essi non sono riusciti a legare l’individualità di Montaigne alla storia generale delle idee e del divenire della coscienza europea [2]
; non hanno stimolato né storici, né filosofi, né sociologi, né psicologi a confrontare la loro problematica col pensiero di Montaigne. Quello di Wolf può considerarsi il primo studio scientificamente organizzato, cioè ordinato per problemi, dedicato agli Essais dalla letteratura filoso{p. 104}fico-giuridica, quasi quattro secoli dopo l’apparizione di questo libro singolare.
Montaigne ha vissuto una lunga esperienza giudiziaria e politico-amministrativa. Nominato nel 1554, a ventun anni, consigliere della «Cour des Aides» istituita a Périgeux da Enrico II, fu poi consigliere al Parlamento di Bordeaux dal 1557 al 1570, dove sedette insieme col suo amico Étienne de la Boétie. Nel 1581 e nel 1583 fu eletto due volte consecutive sindaco di Bordeaux, «ce qui advient très rarement», come ricorda egli stesso con una punta d’orgoglio [3]
, mentre non ama ricordare la sua «giudicatura», durata sedici anni, forse perché lo costringeva a prendere decisioni, cosa altamente contraria alla sua indole pirroniana [4]
. Ma alla vita politica partecipò moderatamente e controvoglia; non aveva vocazione per le cariche pubbliche [5]
. A certi suoi concittadini, che (non con piena ragione) giudicavano la sua «vacation s’estre passée sans marque et sans trace», ricorda che aveva accettato di occuparsi degli affari pubblici promettendo «de les prendre en main, non pas au poulmon et au foye»; e che, dopo tutto, egli «non accusa un magistrato che dorme, se pure i suoi sottoposti dormono con lui; e parimenti dormono le leggi stesse». In breve, «le Maire et Montaigne ont tousjours esté deux, dune séparation bien {p. 105}claire» [6]
.
Non da quell’esperienza, ma piuttosto dall’esperienza privata di uomo qualunque, da lui assunta nella sua totalità come punto di partenza di «tutta la filosofia morale» [7]
, trae gli esempi di cui si serve quando svolge la sua antropologia sociale [8]
in funzione critica della «forme de cette justice qui nous régit» [9]
, «souvent très inepte et très inique» [10]
. Egli rifiuta di incorporare in se stesso, cioè nell’oggetto del suo studio, la professione di giurista e di politico o qualunque altra: ai suoi lettori vuole comunicarsi nell’universalità del suo essere, «come Michele di Montaigne, non come grammatico o poeta o giureconsulto». Agli albori del pensiero scientifico moderno, di cui in parte anticipa gli orientamenti metodologici [11]
, Montaigne, ancora immerso nello spirito dell’umanesimo, avverte i pericoli della specializzazione professionale. Essa ostacola l’apprendimento della «forme entière de l’humaine condition», che può essere percepita solo nel contatto immediato e costante con la realtà quotidiana. L’approfondimento scientifico perde senso e valore se questo contatto viene interrotto.
Il mondo ideale di Montaigne è dunque precluso allo specialista come tale? Dovrà egli, per esservi ammesso, spogliarsi del «segno particolare ed esteriore» della sua professione e confondersi, «si non instruit, au moins instruisable» [12]
, nel pubblico più vasto delle persone colte, {p. 106}alle quali il libro, a guisa di breviario, è destinato? In verità, l’autore consiglia a chi è «in cerca di scienza» di cercarla altrove: «il n’est rien dequoy je face moins de profession» [13]
. Ai filosofi dichiara di non essere dei loro [14]
, o tutt’al più di essere una strana figura di filosofo «imprémédité et fortuite» [15]
. Ai giuristi notifica di essere informato dell’esistenza di una scienza giuridica e di conoscere grossolanamente di che cosa si occupa [16]
. Ma di una scienza «si infinie», fonte di confusione estrema di giudizi [17]
, non vuol saperne di più. Tutto sommato, considera i giureconsulti (non meno dei medici) un «pessimo approvvigionamento del paese» [18]
. Eppure, al di là della polemica umanistica contro la giurisprudenza, storicamente conchiusa, Montaigne ci comunica, «à pièces décousues» [19]
, una serie di pensieri sul diritto e sulla giurisprudenza, sullo Stato, la società e i loro rapporti, sorprendentemente in anticipo rispetto alla sua epoca [20]
. Talvolta essi cadono nel vivo del dibattito che oggi impegna filosofi del diritto e giuristi, i quali si vanno inquietamente interrogando sulla struttura del pensiero giuridico e sul modo della loro scienza di porsi «au Service de notre vie» [21]
. Conviene leggere allora un altro passo: «Un lettore avveduto scopre spesso negli scritti altrui perfezioni diverse da quelle che l’autore vi ha messo e percepito, e attribuisce ad essi significati e aspetti più {p. 107}ricchi» [22]
. Purché, «suffisant lecteur», sappia sfruttare il vantaggio che gli deriva dallo sviluppo storico che intercorre fra lui e Montaigne, il giurista può trovare negli Essais una lezione capace di arricchire la sua professione.

2. Il positivismo giuridico di Montaigne.

Certo la rilettura dei «Saggi» con l’occhio dello specialista, proposta da Wolf, non è immune da pericoli. Montaigne non può essere smembrato, e una rilettura parziale, intrapresa con gli strumenti di classificazione propri del pensiero scientifico, al fine di incasellare nella filosofia o nella scienza del diritto le riflessioni sul fenomeno giuridico sparse in un libro che è «tousjours un» [23]
, rischia di reciderne il legame vitale con l’«étre universel» dell’autore, nel quale il momento giuridico si riflette come puro fatto esistenziale, come testimonianza dell’umana condizione. Senza questo legame, i pensieri di Montaigne sul diritto perdono la loro originalità. In gran parte, soprattutto là dove sferrano un attacco frontale contro il diritto naturale, essi sono stati tramandati alla nostra cultura con la mediazione di Pascal e nello splendore dello stile di Pascal. Ma nel grande apologista della religione cristiana quelle riflessioni assumono significato e finalità affatto diversi, perché diverso è il piano di ricerca in cui si inseriscono. Come direbbe lo stesso autore degli Essais, non sono più pensieri di Montaigne, sono pensieri, appunto, di Pascal [24]
. La constatazione empirica dell’incapacità della ragione umana di riconoscere principi immutabili di diritto naturale, nemmeno «ces trois ou quatte loix choisies» [25]
, che per Montaigne, profondamente im
{p. 108}manentista, è punto di arrivo, per Pascal è punto di partenza di una ricerca protesa verso il trascendente; «ciò che in Montaigne è riflessione scettica, in Pascal diventa costruzione dottrinale» [26]
.
Note
[1] Rechtswirklichkeit und Justizkritik bei Montaigne, in Festschrift f. Hippel, Tübingen, 1967, pp. 631-663.
[2] È pure accaduto che l’autore degli Essais (1533-1592) sia stato confuso col giurista Jean Montaigne († 1538), allievo di Alciato, col quale intrattenne una corrispondenza Bonifacio Amerbach. Cfr. l’indice dei nomi in calce al libro, del resto pregevole, di Gilmore, Humanists and Jurists, Cambridge, Mass., 1963.
[3] Essais, liv. III, chap. 10, ed. Pleiade, Paris, 1961, p. 1126. Da qui in avanti le citazioni dei «Saggi» avranno la seguente forma abbreviata, esemplificata sul passo ora citato: III, 10/1126.
[4] Cons, Montaigne et Videe de Justice, in Mélanges offerts à P. Laumonier, Paris, 1935, p. 350; cfr. pure Hubrecht, Montaigne, juriste, nel volume di conferenze per il IVe Centenaire de la naissance de Montaigne, Bordeaux, 1933, pp. 239-297. Eccettuato un passo (citato infra, nota 32), in genere Montaigne «ha l’aria di non ricordarsi di quel mestiere se non per distinguersene» (Cons, op. cit., p. 348). Cfr. spec. I, 23/147, dove deplora il potere crescente del «quarto stato», formato da «gens manians les procés» (la noblesse de robe, dalla quale egli stesso proveniva). Della tendenza del nostro uomo ad atteggiarsi come se appartenesse alla nobiltà di sangue i suoi nemici di Port-Royal si sono fatti beffe in modo fin eccessivo. V. i chiarimenti storici di Friedrich, Montaigne, Bern, 1949, pp. 19 ss.
[5] Cfr. Auerbach, Mimesis, Torino, 1956, vol. II, p. 43; e v. III, 1/889: «Aussi ne sont aucunement de mon gibier les occupations publiques».
[6] III, 10/1125, 1134, 1146. Cfr. pure III, 9/1065.
[7] III, 2/900.
[8] Cfr. Wolf, op. cit., p. 633.
[9] III, 13/1201.
[10] II, 37/857.
[11] Egli stesso si definisce un «naturista» (III, 12/1186), ma il suo metodo sperimentale si esaurisce nella constatazione dell’esperienza (Wolf, op. cit., p. 644) e dell’individualità del concreto. Il metodo delle scienze moderne tende a superare il concreto, a esprimere i dati dell’esperienza in forme o schemi ideali, razionalmente elaborati in via induttiva come strumenti di conoscenza forniti di validità universale. Per Montaigne, invece, «la conséquence que nous voulons tirer de la rassemblance des événemens est mal seure (III, 13/1195) [...] Leur plus universelle qualité, c’est la diversité» (II, 37/881).
[12] II, 17/736.
[13] II, 10/447.
[14] III, 9/1063 («Je ne suis pas philosophe»).
[15] II, 12/612.
[16] I, 26/177. Il suo amore per il fattuale si raffredda decisamente quando si tratta di leggere un contratto: «que ne feroy je plustost que de lire un contract» (III, 9/1067). Sul linguaggio «oscuro e inintelligibile» dei contratti e dei testamenti, elaborato dai «princes de cet art, s’applicans d’une péculière attention à trier des mots solemnes et former des dauses artistes», cfr. III, 13/1196 s. Sui testamenti v. pure I, 7/51 e spec. II, 8/437 s.
[17] II, 12/656.
[18] III, 13/1196.
[19] Cfr. II, 10/454.
[20] Wolf, op. cit., p. 632. L’«opposizione capitale di Montaigne e della sua epoca» (Brunschwicg, Descartes et Pascal lecteurs de Montaigne, New York-Paris, 1944, p. 47) è un carattere centrale degli Essais.
[21] Cfr. I, 26/177.
[22] I, 24/157.
[23] III, 9/1079.
[24] I, 26/184: «... s’il embrasse les opinions de Xenophon et de Platon par son propre discours, ce ne seront plus les leurs, ce seront les siennes». In un piano di ricerca autonomo «les paroles redictes ont, corame autre son, autre sens» (III, 12/1193).
[25] II, 12/653, con allusione ai «prima principia legis naturae» dell’insegnamento tomistico.
[26] Brimo, Pascal et le droit, Paris, 1942, p. 99.