Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c4
Nella valutazione del momento giurisprudenziale del diritto si riflette la struttura speculativa degli Essais, che sono espressione di un pensiero eminentemente problematico, «enquêtant plustost qu’instruisant» [45]
, orientato al «fermo esercizio di un giudizio indipendente» [46]
, anziché alle costruzioni logico-formali. Al metodo della Glossa, additata come modello del pensiero giuridico legato alle «cadances dogmatistes» [47]
della consequenzialità tipica di
{p. 113}un sistema, nei cui meandri l’intelligenza si oscura e si seppellisce «à la mercy de tant de clostures et barrières» [48]
, Montaigne contrappone il metodo della spregiudicata «disceptation et agitation des diverses et contraires ratiocinations que la matière du droit souffre», proprio di una giurisprudenza aperta alla comprensione della problematicità dei fatti. Da esso, egli dice – ancora con un fondo di nazionalismo giuridico, che lo spinge per un istante ad alzare il velo sulla sua passata attività di magistrato dell’ordine giudiziario –, traggono la loro bellezza le sentenze esemplari «que nos parlemens présentent au peuple» [49]
.
A parte, dal punto di vista storico, l’immagine artefatta del modo di argomentare della Glossa [50]
, il limite della lezione di Montaigne sta nell’identificazione del pensiero sistematico, al quale la scienza giuridica non può rinunciare senza perdere la sua identità, col pensiero assiomatico: donde l’idea, riaffermata in un libro recente [51]
, che il pensiero sistematico si opponga al modo di pensare problematico. Il metodo del pensare per problemi non può separarsi dallo strumento del pensiero sistematico, se vuole non solo percepire i problemi, ma conoscerli nei loro nessi universali, possederne una visione complessiva; se vuole, cioè, saperli impostare. Altro è ragionare su presupposti costruiti, «sur des fondemens {p. 114}avouez» [52]
, e altro ragionare in una prospettiva sistematica.
Lo stesso Montaigne ci concede l’occasione di sperimentare quel limite là dove propone il solo esempio, fra i tanti, antichi e moderni, raccolti negli Essais, che interessi specificamente lo studio del diritto privato: il caso della promessa contrattuale viziata da violenza [53]
, presentato come problema di filosofia morale, ma trattato con argomentazioni prettamente giuridiche, e quindi in realtà, per dirla con Grozio, come problema di diritto naturale, «seposita lege civili» [54]
. Montaigne conclude che la promessa, pur se estorta con violenza, è giuridicamente vincolante: «ce que la crainte m’a faict une fois vouloir, je suis tenu de le vouloir encore sans crainte». In via sistematica-deduttiva si giungerebbe a questa soluzione elevando ad assioma il principio «pacta sunt servanda» [55]
: avremmo allora una figura esemplare di pensiero sistematico che rifiuta il problema. Il nostro autore, naturalmente, non segue un simile metodo. Egli si accosta al caso con un atteggiamento problematico, e lo risolve con un’invenzione topica, la quale introduce l’argomento dell’interesse generale alla sicurezza dei contratti: «autrement, de degré en degré, nous viendrons à renverser tout le droit qu’un tiers prend de nos promesses». Messo sull’altro piatto della bilancia l’argomento dell’incompatibilità della violenza con la libertà del consenso (il topos registrato in D. 50, 17, 116 pr.), esso viene subito scartato come privo di peso sufficiente «pour faire prévaloir l’utilité privée à la foy donnée».
In realtà l’argomento topico di Montaigne fornisce soltanto un’ipotesi di soluzione dotata di senso, serve a impostare il problema chiamando a confronto l’interesse individuale a sciogliersi da una promessa non spontaneamente dichiarata e l’interesse collettivo al mantenimento {p. 115}delle promesse che appaiono formalmente regolari, indipendentemente dai motivi che possano avere determinato la dichiarazione (purché abbia per oggetto una prestazione lecita, precisa il nostro). Alla soluzione non si può pervenire senza un’indagine ulteriore, volta a scoprire un criterio sistematicamente valido di prevalenza dell’uno sull’altro interesse. L’interesse collettivo non racchiude in sé una regola assoluta di prevalenza sull’interesse individuale, come riconosce poco più avanti lo stesso saggista [56]
. Quell’ipotesi di soluzione deve essere valutata criticamente mediante un’analisi sistematica dell’autonomia privata e degli interessi che mette in gioco. Accettarla acriticamente, scambiarla per una soluzione già bell’e pronta significa o dare ingresso surrettiziamente a un’ideologia oppure rinunciare scetticamente a decidere secondo criteri di giustizia sostanziale, prendendo partito per la forma a scapito della sostanza. Il contesto del passo in esame, a seconda delle sottolineature preferite dal lettore, consente l’una o l’altra supposizione. Si può pensare che Montaigne si sia lasciato prendere inconsapevolmente la mano dall’ideologia della noblesse de robe, la quale avrebbe ridotto volentieri il diritto privato a due soli principi: la proprietà e la sicurezza dei contratti. Oppure si può usare una chiave interpretativa modellata su una massima di Paul Valéry: «le doute méne à la forme» [57]
. Lo scetticismo intellettuale di Montaigne, la sua sfiducia nelle possibilità della ragione teoretica [58]
, produce sul terreno del pensiero operativo l’inclinazione a soluzioni improntate a criteri formali, immediatamente percepibili dall’esperienza sensibile, e perciò meno soggette a discussione.{p. 116}

4. La lezione politica di Montaigne.

«Le doute mene à la forme»: con questa chiave è stato interpretato anche il conservatorismo politico di Montaigne [59]
, uno dei luoghi preferiti dai suoi esegeti, che in proposito hanno estratto dagli Essais un nutrito catalogo di passaggi. Ma, come sul piano filosofico egli non è unicamente e rigorosamente scettico, così sul piano della praxis non è unicamente e rigorosamente conservatore. Non lo è nel senso religioso (e quindi assoluto) di Pascal, che non spera niente dal mondo [60]
e considera l’obbedienza alle leggi esistenti, anche le più folli, un momento necessario dell’ascesi cristiana [61]
. Montaigne ama la vita su questa terra, «car en fin c’est nostre estre, c’est nostre tout» [62]
: la sottomissione alle leggi sotto le quali siamo nati, il rispetto dell’ordine costituito, è per lui una regola che dalla matrice scettica riceve una motivazione utilitaristica. Poiché l’esperienza insegna che «la giustizia in sé, naturale e universale» [63]
è inconoscibile, che nessuna «justice nationale», nessun ordinamento positivo può sussistere «sans quelque meslange d’injustice» [64]
, che infine «il mondo è incapace di guarirsi» [65]
, ciò che la nostra ragione consiglia di più verosimile a ciascuno di noi è di obbedire alle leggi del proprio paese [66]
. Lo spettacolo desolante della Francia del suo tempo, devastata dalle guerre civili [67]
, lo rende nemico dei dottrinari rivoluzionari (storicamente impersonati ai suoi occhi dagli ugonotti tipo Hotman), che pretendono di emendare i difetti particolari mediante il disordine universale «sans regarder à quel prix». Il prezzo è troppo {p. 117}alto, per noi e anche per loro: «coloro che sovvertono lo stato sono facilmente per primi trascinati nella sua rovina. Il frutto del disordine non rimane a chi l’ha mosso; egli batte e intorbida l’acqua per altri pescatori» [68]
. Ma egli condanna anche il cieco fanatismo di certi difensori dell’ordine stabilito [69]
, avversari intransigenti di qualsiasi riforma in senso liberale, schiavi essi pure di passioni che sono «au delà du devoir de la justice» [70]
. La moderazione, che è un tratto fondamentale del suo temperamento, lo tiene distante da tutti gli estremismi. Resta fedele al re, ma non appoggia l’idea della monarchia assoluta, del principe legibus solutus: ad essa oppone, consegnandola alle generazioni future, l’idea dello stato di diritto, condensata in una frase singolare: «Les Princes sont compaignons, si non maistres des loix» [71]
. In questa dimensione la legge acquista valore di garanzia della libertà.
Montaigne è un conservatore, ma è anche un liberale, e i due aspetti sono in lui strettamente complementari [72]
, soprattutto negli ultimi saggi. Se all’inizio lo scetticismo gli suggerisce il timore che il cambiamento anche di una sola legge, quale che sia, possa scuotere l’intero edificio [73]
, alla fine della sua meditazione si delinea un atteggiamento più fiducioso nella possibilità dell’intelligenza e della volontà umana di migliorare la società con interventi giuridico-istituzionali. Rimane «ennemy des remuemens et nouvelletez» [74]
, dei grandi mutamenti che «esbranlent
{p. 118}l’estât et le desordonnent», ma riconosce la necessità di opporsi ai processi di corruzione del sistema e di mutarne quelle parti dove si manifesta l’ingiuria delle leggi ingiuste [75]
. Che tale atteggiamento non sia rimasto confinato in un vago intellettualismo, è dimostrato dalla lettera-rimostranza da lui inviata, in veste di sindaco di Bordeaux, a Enrico III il 31 agosto 1583, e firmata anche dai «jurats gouverneurs» della città [76]
. Con le opportune cautele perché la lettera sia ricevuta «en bonne part», i rimostranti invocano l’abolizione dei privilegi di esenzione fiscale delle classi ricche e l’applicazione del principio, «conforme alla ragione», della distribuzione proporzionale fra tutti i cittadini del carico fiscale, giudicando che «toutes impositions doibvent estre faites esgalement sur toutes personnes, le fort portant le foible, et qu’il soit très raizonnable que ceulx qui ont les moiens plus grands, se ressentent de la charge plus que ceulx qui ne vivent qu’avec hazard et de la sueur de leur corps».
Note
[45] Cfr. II, 12/567.
[46] Brunschvicg, op. cit., p. 30; e v. III, 12/1186: «Nous autres naturalistes (in opposizione agli scolastici) estimons qu’il y aie grande et incomparable préférence de l’honneur de l’invention...». Tra i vari significati attribuiti da Montaigne alla parola «essais» vi è anche quello di «prove del suo giudizio» (cfr. I, 50/338).
[47] Per questa espressione v. ancora II, 12/567.
[48] III, 13/1198. Sotto il termine «Glossa» Montaigne (come, dopo di lui, Grazio e Vico) comprende non solo Accursio e i suoi seguaci, ma anche i postglossatori, cioè Bartolo e i bartolisti (commentatori e consigliatori), i quali in verità – secondo il giudizio del Vico, De nostri temporis studiorum ratione, XI, in Opere, vol. I, a cura di Gentile e Nicolini, Bari, 1914, p. 110 – furono «solertissimi aequitatis indagatores».
[49] II, 12/568.
[50] Impersonato dal giudice che segnava a margine dei suoi libri le quaestiones pro amico (II, 12/656; si ricordi che uno dei maggiori esponenti cinquecenteschi della dottrina del «punto dell’amico», Andrea Tiraqueau, giurista coutumier, ma ammiratore del diritto romano e di orientamento bartolista, fu magistrato al Parlamento di Bordeaux non molti anni prima della nomina di Montaigne); o, più ferocemente, da quel «conseillier de ma connaissance», di taglio rabelaisiano, descritto in III, 10/1148.
[51] Viehweg, Topica e giurisprudenza, Milano, 1962.
[52] II, 12/60.5
[53] III, 1/896 s.
[54] De jure belli ac pacis, lib. II, cap. XI, § 7, n. 2.
[55] Cfr. Engisch, Sinn und Tragweite juristischer Systematik, in «Studium generale», 1957, p. 176.
[56] III, 1/898: «... l’interest commun ne doit pas tout requérir de tous contre l’interest privé».
[57] Variété IV, Paris, 1938, p. 45 (in Oeuvres, vol. I, Pléiade, Paris, 1957, p. 740).
[58] Oltre al celebre passo in II, 12/679 s., cfr. ad es. III, 8/1033 («Nous autres, qui privons nostre jugement du droit de faire des arrests...») ; III, 8/1039 («Nous sommes nais à quester la vérité; il appartient de la posséder à une plus grande puissance»).
[59] Friedrich, op. cit., pp. 241 ss.; e v. Wolf, op. cit., pp. 649 s., 657 s.
[60] XVIIe Provinciale (in Oeuvres complètes, Pléiade, Paris, 1960, p. 868).
[61] Pensées, n. 313 dell’ed. Pléiade cit. (n. 338 dell’ed. Brunschvicg).
[62] II, 3/389.
[63] III, 1/890; II, 12/554.
[64] II, 21/760. V. pure III, 12/1202 («... il est forcé de faire tort en détail qui veut faire droict en gros»).
[65] III, 9/1072.
[66] II, 12/652.
[67] II, 19/753.
[68] I, 23/149.
[69] Leder, Histoire de la tolérance au siede de la réforme, vol. II, Paris, 1955, p. 152.
[70] III, 1/886.
[71] I, 3/35. Cfr. Wolf, op. cit., p. 659, e, da un punto di vista storico-politico, il rilievo di Battista, Alle origini del pensiero politico libertino. Montaigne e Charron, Milano, 1966, p. 30, nota 36.
[72] Cfr. Brown, Religious and political Conservatism in the Essais of Montaigne, Genève, 1963, p. 96.
[73] I, 23/148.
[74] I, 28/232. Nel linguaggio degli Essais la parola «nouvelletez» non indica qualsiasi innovazione nell’ordine esistente, ma si riferisce ai mutamenti radicali, che toccano le fondamenta dello stato, imposti da pressioni esterne (come ad es., nell’esperienza di Montaigne, la riforma protestante). Non si tratta nemmeno del concetto politico moderno di rivoluzione, che appare solo nel 1688 con la rivoluzione inglese. Cfr. Brown, op. cit., p. 16, nota 2.
[75] III, 9/1072.
[76] Riprodotta in appendice a Brown, op. cit., pp. 97 ss.