Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c2

II La polemica di Betti con Gadamer
Da «Quaderni fiorentini», VII (1978), pp. 125-142

1. Il legame di Betti con l’ermeneutica romantica.

«La nostra mèta è una teoria generale ermeneutica che, pur animata dalla fiducia nello spirito, vuol restare sul terreno fenomenologico della scienza (bei den Sachen selbst) senza ascriversi a nessun particolare sistema filosofico» [1]
. Questa professione di fedeltà al metodo fenomenologico non ha risparmiato a Betti, nella polemica intrecciata col maggiore rappresentante della filosofia ermeneutica contemporanea in Germania, il rimprovero di coltivare «un singolare risentimento contro la fenomenologia» [2]
. Evidentemente i due studiosi non hanno idee collimanti sulla fenomenologia, nella quale si propongono di fondare l’ermeneutica, e in ogni caso avevano origini troppo diverse per potersi intendere.
Sebbene ne faccia proprio il motto («alle cose stesse»), Betti rimane lontano dal programma della fenomenologia di Husserl e si accosta piuttosto al modello di N. Hartmann [3]
, la cui fenomenologia non è preceduta da un’«epoché» di tipo husserliano [4]
, in quanto afferma «la possibilità che esistano principi propri del reale, i quali {p. 60}non possono essere sostituiti con le essenze» [5]
. Alla stregua di questo filosofo, appartenente alla corrente neokantiana di Marburgo, la fenomenologia di Betti è orientata alla ricerca dei principi normativi della conoscenza, intesa come relazione tra un soggetto e un oggetto da lui indipendente. Gadamer invece, discepolo di Heidegger, intende la fenomenologia secondo il concetto definito nel § 7 di Sein und Zeit e assunto da Heidegger come metodo per la sua ontologia fondamentale. Da questo punto di vista la doglianza del filosofo tedesco non è senza ragione: nei confronti della filosofia esistenzialistica e dei suoi importi ermeneutici la chiusura di Betti è totale e talvolta si esprime con toni fortemente risentiti [6]
. Per definire la posizione del suo critico Gadamer adopera due volte la parola «sonderbar» [7]
, la quale può essere tradotta in modo più o meno benevolo, ma è associata ad espressioni di ammirazione per questo «compatriota di Croce e Gentile», che «è di casa nella grande filosofia germanica, così da parlare e scrivere un tedesco semplicemente perfetto», e che all’inizio della seconda metà del ventesimo secolo intraprende un’opera di rielaborazione sistematica della teoria ermeneutica classica, «fondata su una sorprendente ricchezza di conoscenze e vastità di prospettive» [8]
. L’opera non ha riscontro nella letteratura tedesca, nella quale l’ermeneutica romantica ha trovato un attento e minuzioso relatore [9]
, ma non un ricapitolatore sistematico; ma {p. 61}appare in forte ritardo rispetto allo sviluppo della cultura in Germania, dove già alla fine degli anni venti il clima speculativo era stato trasformato in maniera radicale dalle nuove correnti di pensiero derivate da Dilthey e soprattutto dalla filosofia antipsicologistica di Husserl [10]
.
Naturalmente Betti era troppo colto e dotato di sensibilità storica per non rendersene conto. Egli pensa di fornire alla sua «Teoria generale dell’interpretazione» una base filosofica più aggiornata radicandola nella filosofia dei valori [11]
, che è uno dei filoni della fenomenologia posthusserliana. Ma l’assunzione di un «nesso che lega l’oggettività dei valori col problema centrale dell’interpretazione» [12]
non apre una prospettiva feconda [13]
, come dimostra lo scarso contributo specifico delle dottrine di Scheler e di Hartmann al rinnovamento dell’ermeneutica, il quale si è prodotto nel solco dell’altro filone, sfociato nell’«analitica esistenziale» di Heidegger. Del resto l’inserimento nella filosofia dei valori mancava nel progetto originario dell’opera, delineato nel «manifesto ermeneutico» del 1948 [14]
, e in definitiva è rimasto una sovrapposizione priva di sviluppi sostanziali, quando addirittura non produce momenti di perplessità nel pensiero dell’autore. Così sulla «questione della verità», alla quale rimanda il problema del comprendere [15]
, la posizione ini{p. 62}zia le di Betti in sede filosofica e la posizione successiva in sede metodologica non combaciano perfettamente. Affermare che ciò «che l’interpretazione mira ad attingere nelle forme rappresentative costituenti il suo oggetto» sono i valori, intesi come entità oggettive ideali, implica il riconoscimento di un rapporto (che peraltro la filosofia dei valori non è in grado di chiarire) tra il problema della comprensione corretta del significato di un testo e il problema della verità del suo contenuto. Con tale posizione non si accorda il rigore con cui Betti [16]
conferma più avanti il canone ermeneutico dell’«astrazione metodica», che impartisce all’interprete una direttiva di indifferenza alla verità dei testi con cui ha da fare [17]
.

2. Il problema ermeneutico nella filosofia esistenzialistica.

Secondo la concezione romantica, alla quale Betti rimane profondamente legato, il problema ermeneutico è essenzialmente un problema epistemologico di analisi delle condizioni di validità dei processi conoscitivi propri delle scienze dello spirito, in quanto scienze basate sul «comprendere» in antitesi alle scienze della natura caratterizzate da procedimenti di spiegazione causale. Per riaffermare questa concezione nella disputa con Gadamer, egli ricorre a una celebre formulazione di Kant [18]
e definisce il problema ermeneutico come una quaestio iuris afferente alla legittimità dei procedimenti seguiti dall’interprete, e dunque «riguardante quid de jure agi debeat» [19]
.
La filosofia esistenzialistica mette in discussione il {p. 63}postulato di tale concezione, «che cioè le scienze dello spirito possano competere con le scienze della natura utilizzando una metodologica loro propria» [20]
. Essa ritiene che il movimento iniziato da Schleiermacher, tendente a congiungere le varie ermeneutiche speciali (o «regionali», secondo una terminologia derivata da Husserl) in una ermeneutica generale «non può essere condotto a termine senza che al tempo stesso le preoccupazioni propriamente epistemologiche dell’ermeneutica, vale a dire il suo sforzo per costituirsi in sapere di carattere scientifico, vengano subordinate a quelle ontologiche». Essa si spinge oltre la ricerca epistemologica per «scoprire le condizioni propriamente ontologiche del comprendere» [21]
: primaria non è più la domanda «come si conosce», quali sono le regole metodologiche del sapere ermeneutico, ma la domanda più radicale circa le condizioni a priori di possibilità della comprensione.
Heidegger risponde assumendo il fenomeno della comprensione «come modo fondamentale dell’essere dell’Esserci» [22]
: il «comprendere» non è semplicemente una forma della conoscenza, ma è un «carattere ontologico originario della vita umana stessa» [23]
. Questa comprensione originaria, che qualifica l’uomo come un essere che esiste solo comprendendo, è messa da Heidegger in relazione con la nozione di possibilità, di «essere in grado di far fronte ad una cosa», «essere capace di», «potere qualcosa». Definire la comprensione come modo fondamentale dell’esistenza umana (del Dasein) significa che l’esistenza umana «è primariamente un esser-possibile», una possibilità di essere: «nella comprensione è riposto essenzialmente il modo di essere dell’Esserci in quanto poter-essere». Pertanto «la comprensione ha in se stessa la struttura esistenziale che noi chiamiamo progetto».
{p. 64}
Note
[1] Betti, Teoria generale dell’interpretazione, Milano, 1955, vol. I, p. IX.
[2] Gadamer, Hermeneutik und Historismus, in «Phil. Rundschau», 1961, pp. 241 ss., ripubblicato, con integrazioni, in appendice alla 2a ediz. di Wahrheit und Methode, Tübingen, 1965, pp. 477 ss., a p. 484 (d’ora in poi citato con l’abbreviazione W.u.M.).
[3] Betti, loc. cit., dichiara di avere contratto un forte debito verso questo filosofo.
[4] Così Marini, Presentazione di N. Hartmann, Il problema dell’essere spirituale, Firenze, 1971, p. XXVII.
[5] Hartmann, Introduzione all’ontologia critica, Napoli, 1972, p. 167. Cfr. pure, del medesimo autore, Zur Grundlegung der Ontologie3, Maisenheim am Gian, 1948, p. 56, testo e nota.
[6] Cfr. Teoria generale, cit, vol. I, p. 243 (e v. pure p. 104).
[7] W.u.M., pp. 483 s.
[8] W.u.M., pp. 293, 482.
[9] Alludo all’opera di Wach, Das Verstehen. Grundzüge einer Geschichte der hermeneutischen Theorie im 19. Jahrhundert, 3 voll., Tübingen, 1926, 1929, 1933, che è un lungo Referat, articolato per autori, sulle dottrine ermeneutiche del diciannovesimo secolo fino a Dilthey (escluso). A quest’opera, certamente preziosa, è stata rimproverata l’assenza di valutazioni critiche, che avrebbero potuto illuminare meglio lo sviluppo storico (Bultmann, Das Problem der Hermeneutik, in Glauben und Verstehen, vol. II, Tübingen, 1952, p. 212, nota 4). Deve però essere apprezzato il contributo offerto nell’introduzione al secondo volume, anche se «rimane interamente nell’orizzonte di Dilthey» (così giudica Gadamer, W.u.M., p. 171, nota 2).
[10] Cfr. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Torino, 1971, p. 517.
[11] Betti, Teoria generale, cit., vol. I, pp. 1 ss.
[12] Ibidem.
[13] Cfr. anche De Gennaro, Crocianesimo e cultura giuridica italiana, Milano, 1974, pp. 425 s., in nota.
[14] Betti, Teoria generale, cit., vol. I, p. VII. Si tratta della prolusione romana, pronunziata il 15 maggio 1948. È pubblicata, col titolo Le categorie civilistiche dell’interpretazione, in «Riv. it. se. giur.», 1948, pp. 34 ss. (ora riprodotta in apertura della 2a ed., a cura di Crifò, del volume Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1971, pp. 3 ss.), e in lingua tedesca, col titolo Zur Grundlegung einer allgemeinen Auslegunslehre, nella Festschrift f. Rabel, vol. II, Tübingen, 1954, pp. 79 ss. La seconda edizione presenta notevoli integrazioni soprattutto nelle note.
[15] Cfr. Coreth, Grundfragen der Hermeneutik, Freiburg i.B., 1969, pp. 166 ss.
[16] Teoria generale, cit., vol. I, pp. 291 ss.; e, in polemica con Gadamer, L’ermeneutica storica e la storicità dell’intendere, in «Annali della Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bari», XVI (1962), pp. 19 s.
[17] Cfr. Gadamer, W.u.M, pp. 185, 227, 463 (trad. it., Milano, 1972, pp. 238, 285 s., 557). Cfr. Wach, Verstehen, cit., vol. II, p. 21.
[18] Kritik der reinen Vernunft, B 116-117.
[19] Betti, L’ermeneutica storica, cit., p. 27, testo e nota 16. Gadamer, W.u.M., pp. XV, 484, obietta che Kant, ponendo la quaestio iuris della scienza pura della natura, non intendeva prescrivere come essa propriamente dovrebbe essere, bensì giustificare la possibilità trascendentale di essa, così com’era.
[20] Ricoeur, Ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, Brescia, 1977, p. 33. Cfr. pure, del medesimo autore, Il conflitto delle interpretazioni, Milano, 1977, pp. 19, 22.
[21] Ricoeur, Ermeneutica filosofica, cit., pp. 14, 33.
[22] Sem und Zeit, § 31 (trad. it. di Chiodi, Milano, 1953, pp. 156 ss.).
[23] Gadamer, W.u.M., p. 246 (trad. it. cit., p. 307).