Aris Accornero
Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c2

Capitolo secondoIl lavoro come identità

1. La relazione cogente fra ruolo lavorativo e personalità sociale

Ma la crisi del lavoro come ideologia agisce ancora in superficie. Ne risentono più che altro le leadership abituate a farvi ricorso. Chi lavora non se ne accorge neppure di essere meno sensibile, o meno partecipe, a quel richiamo. Si accorge invece che sta scivolando dal piedistallo un presupposto cui tutti avevano creduto: quello secondo il quale è il ruolo lavorativo a determinare l’identità sociale. Risulta cioè pericolante proprio la relazione che nel nostro secolo pareva essersi fatta ormai salda man mano la professione prendeva il posto del censo, e dell’estrazione sociale stessa, nel determinare l’essere sociale: così salda che, a sentire i principi a cui si richiamano, tutte le Costituzioni dell’occidente sviluppato potrebbero affermare, sulla falsariga di quella sovietica, che «il lavoro socialmente utile e i suoi risultati determinano la posizione dell’uomo nella società» (art. 14) [1]
.
È pur vero che nei paesi capitalistici la divisione sociale del lavoro intacca poi nei fatti la veridicità di tale presupposto; ma la disillusione non viene da qui, poiché il suo vigore prescrittivo neppure adesso è preso troppo alla lettera dagli strati popolari, anche se siamo nell’èra della mobilità sociale. Una saggezza di fondo, che da giovani tendiamo a respingere, continua infatti a dirci che un destino non scritto rende tuttora arduo valicare quegli alti crinali che la nascita e il suo contesto tracciano: quelli veri, fra lavoro istruito e no, domestico e no. (In fondo, è per questo che tutto si scarica poi sulla scuola, fattasi nel frattempo garante di {p. 50}un ristabilimento delle opportunità). Naturalmente, via via che questa consapevolezza si fa meno passiva e sfiduciata, diventa più difficile accettare dal lavoro una identità così determinata.
Tuttavia non sono soltanto le diseguaglianze a monte, che deludono. E non sono neppure le scappatoie a valle. Altro che questo non sono i loisirs del «tempo libero», od il risarcimento nella seconda occupazione, che lusingano gli adulti; oppure la scuola frequentata come parcheggio in attesa di un lavoro confacente, e in presenza di prime attività remunerate, verso cui si trovano sospinti i giovani.
La ricerca di un’identità sociale attraverso le scorciatoie del non-lavoro [2]
e dell’altro lavoro — che sarebbe troppo sbrigativo definire consumistiche — dà certo meno delusioni ma ne dà anch’essa, sebbene quei percorsi vengano offerti dalla società capitalistica come integrativi, se non addirittura suggeriti come alternativi, alle modalità di formazione attraverso la strada del lavoro. Il fatto è che le gratificazioni sociali incontrate su tali percorsi alimentano aspettative di realizzazione impossibili a soddisfarsi per tutti coloro che ci si mettono, la qual cosa rende oltretutto instabile la collocazione via via raggiunta.
Ma al di là delle delusioni per come essa viene predeterminata oppure elusa, la relazione cogente fra lavoro e identità si sta proprio allentando. Essa pare descrivere una parabola su cui si dispongono anche quei processi che riducono la durata lavorativa della vita e dilatano la quota del lavoro dipendente: sempre più gente aspetta infatti il definirsi della propria posizione da un impiego che copre una parte sempre meno estesa dell’esistenza. Per i giovani, il prolungarsi del periodo scolastico, non solo differisce pari pari il conseguimento di una identità basata sul lavoro, ma altera nel frattempo la percezione di tale identità e i termini del suo conseguimento.
D’altra parte, estendendosi il lavoro salariato e non attingendo più al censo, la genesi sociale degli individui è venuta a modellarsi quasi esclusivamente sulla profes{p. 51}sione: ma nel frattempo non sono cresciuti in pari misura né lo stock di professionalità richiesta, né tanto meno la qualità riconosciuta del lavoro. Per tutto il primo periodo del taylor-fordismo ha anzi perso quota proprio il lavoro di quel proletariato che pareva il destinatario principale di una nuova valutazione sociale, da secolo XX. (Qualcosa del genere è anche accaduto al lavoro contadino). Non c’era così tanto lavoro professionalmente riconosciuto da fondare o da reggere la struttura delle nuove società di massa in formazione, e cominciava pertanto a manifestarsi uno scompenso fra gerarchia professionale e stratificazione sociale.
Negli anni fra le due guerre, affermatasi la rivoluzione sociale dei bolscevichi, il problema si è posto a molti paesi e soprattutto a quelli industrializzati. Bisognava scegliere se riequilibrare allargando le basi della piramide sociale o del riconoscimento professionale, e come. Assai diverse, com’è noto, sono le forme adottate a seconda della soluzione — democratica o totalitaria — che si impose. Esse possono venire ricondotte ai modelli di risposta statunitense e nazista, l’uno che attraverso l’ideologia della mobilità sociale ti promette uno status migliore dal prossimo mestiere; l’altro che riallinea il rango ed il posto di ognuno mediante la gerarchizzazione corporativa del lavoro [3]
.
Ma nella seconda metà del secolo gli sviluppi della divisione sociale del lavoro hanno reso più vistosa la dissimmetria fra professione e personalità: questa si definiva traendo ulteriore alimento fuor del lavoro, quella frantumandosi conferiva uno statuto sociale meno definito. L’incongruenza è scoppiata quanto si sono presentati in massa alla ribalta gli operai senza qualità della catena di montaggio affermando, con il conflitto e con il rifiuto, l’identità che il lavoro non gli poteva dare. E oggi i processi restano chiaramente divaricati.
Non è che siano diminuite le proprietà fondative del lavoro in fatto di identità, né che il lavoro dia luogo ad identità tutte inaccettabili. È che oggi il lavoro opera su basi più ristrette, e non conferisce più un’identità globale: questa risulta pertanto meno intrinseca a quello. La {p. 52}scala dei valori, si sconnette dalla scala dei lavori.
Viene pertanto sottoposto a critica il lavoro che si fa, separatamente e ancor prima dell’identità che esso conferisce. E comunque, riconoscersi nell’uno non equivale più a riconoscersi nell’altra, e viceversa. Queste cose avvengono ora in modo meno scontato, cosicché fra ruolo lavorativo e personalità sociale si incunea un atteggiamento che li pone in contraddizione. C’è il «colletto bianco» magari soddisfatto dei compiti che è chiamato a svolgere ma insoddisfatto del rango sociale che gliene deriva. E c’è il lavoratore manuale che, pur accentando la propria posizione nella società, contesta il lavoro nella fabbrica.
Risultato è una minore identificazione di sé nel lavoro, una minore legittimazione del lavoro a connotare il proprio essere. (Forse si potrebbe qui parlare di estraniazione del lavoro). La novità è che oggi, critica del lavoro e critica dell’identità si accoppiano e si cumulano proprio perché la connessione organica fra i due è stata intaccata, e possono quindi venire giudicati separatamente. Non riduciamo dunque tutto a una condanna della dequalificazione, oppure a una denuncia dell’anomia.

2. La condizione di sfruttamento come presupposto di egemonia

Il caso della classe operaia è illuminante, per lo meno qui da noi in Europa. È evidente che soltanto un forte senso di appartenenza socio-ideale — coscienza di classe, conscience ouvrière [4]
può far sopportare o anche apprezzare un ruolo così oneroso ed invero prosaico. Ma c’è quel che noi chiamiamo ancor sempre il movimento operaio, ci sono i partiti, i sindacati, e dunque la missione — per dirla in breve — può reggere la mansione [5]
. Questo, per lo meno, finché una linfa politica e un nerbo organizzativo possono far rivendicare e conquistare cose in vista di una società migliore, davvero «fondata sul lavoro», eccetera. Quand’è così, e in tutta l’Europa occidentale tranne la Svizzera è tuttora {p. 53}così, il lavoro salariato può davvero essere interiorizzato come «elemento ordinatore» della società, e ciascuna tuta blu sentirsi portatrice esemplare dell’imperativo sociale [6]
. Il lavoro diventa allora fonte di autorità sociale anziché principio del comando capitalistico, e ciò consente di ribaltare la subordinazione sociale in fierezza politica [7]
.
Questo non va assolutamente confuso con una introiezione politica del ruolo professionale [8]
, che può diventare la base per una formazione di ceto: «aristocrazie operaie», infatti, non erano solamente quelle bollate per egoismo trade-unionista ma anche quelle lodate per maturità egemonica, che avevano cioè creduto loro dovere di classe immedesimarsi in un lavoro qualificato.
Ma appunto, essere fieri dell’identità che matura nello sfruttamento è concesso soltanto agli operai; e non è tutto spontaneo né scontato: «dipende in ogni caso dalla coscienza che la classe operaia ha di sé e del proprio ruolo, e ciò dipende essenzialmente dalle sue tradizioni politiche e dalla loro funzione nella cultura operaia» [9]
. (Risulta pertanto difficile proporre ad altri di accettare per l’oggi quella condizione di sfruttamento, che la classe operaia «è portata a rifiutare e distruggere, per soppiantarla nel domani» [10]
. Questo è un discorso che richiede un minimo di fede. Soprattutto, è difficile offrire questa come prospettiva ai giovani, i quali se possono saltano direttamente il passaggio).
La querelle sulla distinzione marxiana tra forza-lavoro e classe operaia è sicuramente da evitare, e così pure l’interrogativo sul magico quid che tramuta l’una nell’altra: coscienza portata dall’esterno, soggettività maturata nell’esperienza [11]
? Ma almeno si può convenire che storicamente il lavoro operaio, collocato nel cuore del rapporto di produzione, risulta fondativo di una identità forte, espressa da un’aspirazione all’egemonia [12]
.
Col passare del tempo tuttavia, gli stimoli che vengono dalla società si fanno sentire non meno e a volte più di quelli che vengono dalla fabbrica, bilanciandoli [13]
. Il regno della distribuzione offre a chiunque, compresi
{p. 54}gli operai che ne sono sempre meno esclusi, suggestioni maggiori del regno della produzione.
Note
[1] La nuova Costituzione sovietica, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 35.
[2] La definizione è stata coniata credo nel 1956 da P. Naville, Dall’alienazione al godimento. Genesi della sociologia del lavoro in Marx ed Engels, Milano, Jaca Book, 1978, p. 490: «L’antitesi fondamentale del lavoro non è il lavoro migliorato o valorizzato ma il non-lavoro». Una variante spregiativa, di non-lavoro come tempo libero alienato è in A. Gorz, Il socialismo difficile, Bari, Laterza, 1968, p. 23.
[3] Cfr. il saggio di S. Bologna in AA.VV., Operai e stato, Milano, Feltrinelli, 1972, pp. 13 ss., e di AA.VV., Stato e capitalismo negli anni trenta, Roma, Editori Riuniti, 1979.
[4] La definizione classica di A. Touraine è appunto contenuta in La coscienza operaia, Milano, Franco Angeli, 1969, pp. 367-70 e 395-400. Cfr. Coscienza operaia oggi, a cura di G. Girardi, Bari, De Donato, 1980.
[5] Ma senza dimenticare Brecht: «Alcune persone che non hanno studiato bene i classici dicono che gli operai hanno una missione nei confronti dell’umanità. Queste sono chiacchiere dannose»: B. Brecht, Me-ti. Il libro delle svolte, Torino, Einaudi, 1970, p. 74.
[6] Si veda l’immagine del proprio ruolo nella classe operaia descritta da H. Popitz, e l’orgoglio operaio qual è verificato da P. Willmott e M. Young, e più in generale l’introduzione di M. Paci a questi e altri testi nella bella antologia Immagine della società e coscienza di classe, Padova, Marsilio, 1969, rispettivamente alle pp. 121, 27 e IX.
[7] «Datore di lavoro è veramente il capitalista. L’operaio è datore di capitale»: così M. Tronti, Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1966, p. 237. Cfr. anche p. 238 passim, dove si capovolge il rapporto canonico di subordinazione e si spiega «la necessità dello sfruttamento» per i capitalisti.
[8] Cfr. di A. Asor Rosa la nota su «Un “Ordine Nuovo”», in Intellettuali e classe operaia, Firenze, La Nuova Italia, 1973, pp. 575 ss.
[9] N. Birnbaum, La crisi della società industriale, Padova, Marsilio, 1971, p. 51.
[10] S. Garavini, Crisi economica e crisi di valori, in Sindacato e questione giovanile, Bari, De Donato, 1977, p. 18.
[11] Cfr. gli interventi di A. Tortorella e B. Beccalli in AA.VV., Operaismo e centralità operaia, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp. 211-24.
[12] Spero che non venga presa troppo di mira «l’opacità di categorie organiche e irrazionali» quali questa, come fa A. Negri nel suo saggio in Il caso Karl-Heinz Roth, Milano, Edizioni Aut-Aut, 1978, p. 52, anche se devo ammettere che è assai meno succosa della sua «coscienza dell’autovalorizzazione proletaria», ibidem, p. 80.
[13] P. Ceri, L’autonomia operaia tra organizzazione del lavoro e sistema politico, in «Quaderni di sociologia», n. 1, gennaio marzo 1977, pp. 28 ss.