Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c2
Col passare del tempo tuttavia, gli stimoli che
vengono dalla società si fanno sentire non meno e a volte più di quelli che vengono dalla
fabbrica, bilanciandoli
[13]
. Il regno della distribuzione offre a chiunque, compresi
¶{p. 54}gli operai che ne sono sempre meno esclusi, suggestioni maggiori del
regno della produzione.
D’altra parte, mondo industriale e cultura della
produzione trovano difficoltà a esprimere valori accettabili essendo deficitari per la
qualità del lavoro, oltre che obsoleti nella formazione delle élites.
All’operaio, la produzione ha meno da dire. E questo riguarda l’identità sociale non
diversamente dalle motivazioni lavorative. Il movimento operaio, da parte sua, trova più
difficile far giungere i propri messaggi, poiché altre categorie e linguaggi, diversi e a
volte nuovi, entrano oggi nella testa dell’operaio, provenendo dalla società come dalla
famiglia: scuola e TV, moglie e figli. La cultura operaia dell’organizzazione sindacale e
politica tien testa a fatica, come si vede anche in Italia quando si affronta il tema del
lavoro. I conti con le scienze sociali, quella cultura non li ha fatti sino in fondo, e
quanto più è stata fedele al proprio bagaglio tanto più si ritrova con strumenti inadatti e
certezze intaccate
[14]
.
Questi influssi che vengono dalla società sono meno
controllati dunque dal movimento operaio, e trovano più indifesi gli operai. Cosicché al
singolo lavoratore, organizzato o militante, risulta difficile filtrare e ancor più mediare
i vari «saperi», e non ha più nella misura d’un tempo la carica che gli consentiva di
sussumerli, oppure di respingerli. Ecco dunque che le proprietà fondative stesse del lavoro
operaio sembrerebbero indebolirsi, ed uscirne tratti d’identità più sfumati.
Ma all’offuscamento di identità c’è una
controtendenza, che si manifesta appunto col presupposto dell’egemonia. Se il formarsi di
una identità operaia reca con sé un’aspirazione all’egemonia, ciò si deve al fatto che è
tutt’uno col formarsi di una coscienza antagonistica
[15]
.
Ritengo altamente sintomatico il caso dei molti
giovani che mostrano di desiderare un lavoro stabile alle dipendenze, anche perché consente
il formarsi di una identità sociale attraverso la controparte: «A volte
sono portata a desiderare un rapporto di lavoro con un padrone ben identificabile»
[16]
. Questa relazione è molto ¶{p. 55}caratteristica e molto
classica. Come ha scritto M. Tronti: «L’operaio non può essere lavoro
senza che ci sia contro di lui il capitalista». E viceversa
[17]
. Il rapporto di classe non va infatti scambiato con il processo lavorativo,
entro il quale non si esaurisce né si dissolve. L’organizzazione del lavoro determina sì la
condizione operaia, ed influenza l’organizzazione stessa degli operai; da sola, darebbe
forse di più d’una spinta solidaristica; ma senz’altro meno di un’identità ottenuta per
contrapposizione. Un’identità antagonistica, appunto.
Una controprova si ha fra i lavoratori della
«fabbrica diffusa», che è tale non solamente in Italia. Qui, una sorta di
mediazione sociale intercorre fra gli operai ed il loro lavoro,
così come fra gli operai ed il loro padrone. La società locale conferisce infatti di suo,
agli operai, un minimo di identità nel lavoro, che si appoggia da un lato a una
professionalità cresciuta dal basso e dall’altro a un antagonismo meno sedimentato. Il
contesto ambientale concorre da un lato a quella intrinseca e precoce dimestichezza col
lavoro, a quella partecipazione produttiva familiar-parentale
[18]
che, scongiurando l’isolamento, allena alla prestazione e riproduce dal basso
una professionalità meno anonima seppur ugualmente frammentata di quella prevalente nella
grande azienda. Dall’altro lato, concorre con quella commissione tra figure di imprenditori
e strati di lavoratori, che ancor più di una mobilità mostrano una ubiquità
sociale, dove pertanto il padroncino non sempre presenta le sembianze e la
tipologia della controparte, dell’avversario
[19]
.
Naturalmente, anche nelle periferie industriali il
lavoro è segnato dalla massificazione professionale che contraddistingue le cittadelle
operaie; ed anche nelle società locali l’organizzazione dei lavoratori sostiene
l’antagonismo di classe o per lo meno la conflittualità sociale. Ma è chiaro che il
mantenimento di un rapporto con il proprio lavoro e l’assenza di una cesura netta con la
controparte influenzano l’identità operaia nella fabbrica disseminata: i due fenomeni sono
tra loro connessi come lo sono professionalità ed antagonismo, nel dare
¶{p. 56}uno scambievole concorso alla personalità sociale degli operai
d’oggi.
3. La promozione proletaria invece della mobilità sociale
Abbiamo rilevato che gli operai possono anche essere
fieri dell’identità che matura nello sfruttamento. Possono esserlo, perché questo
ribaltamento della subordinazione è reso possibile da una consapevolezza antagonistica, da
una aspirazione all’egemonia, che storicizza e delimita quella medesima accettazione. Dunque
attenzione. Il lavoro salariato che si pone come fonte dell’autorità sociale può rivelarsi
una minacciosa ipoteca politica: beninteso, se non diventa un pretesto d’immedesimazione
professionale o una petizione gestionale del
producteur. Salvo che in questi casi,
l’identificazione con il lavoro è la promessa di farne un modello che sovverta la società,
non già una prova d’amore verso l’elemento che la disciplina.
Ecco perché non bisogna misconoscere il valore
politico di questa fierezza (che tra l’altro non è imperitura) confondendolo con la nobiltà
sociale del lavoro più umile.
a) Prima di tutto, «il movimento
operaio e i giovani non hanno niente da guadagnare dalla nobiltà del lavoro più
umile»
[20]
maneggiata a lungo dalla Chiesa con disinvolta ipocrisia, e vòlta in pedagogia
dal Rousseau dell’Emilio
[21]
. (Residui espiatorii di questo passato
[22]
si possono rinvenire nel fervore un po’ moralista col quale cattolici come E.
Corrieri e F. Alberoni
[23]
esaltano il ruolo del lavoro manuale, la cui rivalutazione sociale, se vuol
essere definitiva, costa peraltro più cara di quanto essi mostrino di ritenere).
b) Poi bisogna riconoscere che il
semplice ribaltamento umile/nobile non funziona, sia perché richiede un eccesso di
retorica, sia perché difetta di esiti persuasivi: dà luogo tutt’al più a un gonfiamento
temporaneo d’identità.¶{p. 57}
c) Infine, e soprattutto, un
lavoro umile può dare fierezza soltanto se il riconoscimento sociale è testimoniato in modo
tangibile. Se mancano apprezzamento e ricompensa, rimangono soltanto la risposta della
rassegnazione — il premio in cielo a chi ci crede — oppure l’ideale della rivoluzione — il
socialismo in terra per chi lo vuole.
Una circostanza non si può trascurare, ed è che
l’effetto di emancipazione conseguito attraverso il lavoro operaio viene in generale
diminuendo; deve quindi aumentare quello di promozione vera e propria. Quell’effetto
«naturale» viene diminuendo perché sta cambiando sia l’estensione sia la configurazione
degli strati sociali i cui componenti, nel diventare operai, acquistano un’identità che li
libera da una posizione sociale degradata o indefinibile. Di questi si parla qui, non di
quelli che sentono negativamente la proletarizzazione, anche se magari
ne trarranno una fierezza di ruolo.
Notiamo intanto che entrano oggi in fabbrica meno
persone provenienti dal proletariato agricolo, e ne entrano di più dagli strati emarginati.
In Italia si può constatare ad esempio che fra le nuove forze di lavoro industriali scendono
gli ex contadini e salgono le ex casalinghe. E si possono citare come esempio quei nuovi
operai della fabbrica diffusa, reclutati da una condizione non professionale, i quali
entrano nella classe operaia per la porta di servizio. In sostanza, dopo le grandi ondate
migratorie che si sono esaurite alle soglie degli anni ’70, si è drasticamente
ridimensionato quello che era stato il nostro esercito industriale di riserva, nel senso più
storicamente tradizionale; quello cioè a cui il dare-avere, tra sradicamento forzoso dalla
ruralità e penoso inserimento nell’industrialismo, poteva risultare nonostante tutto
positivo data l’insopportabilità di ciò che veniva perdendo.
In altri paesi, dove il peso delle campagne è già
basso e dove l’occupazione industriale non cresce più, il ricambio di mano d’opera viene
assicurato, oltre che dalle famiglie operaie stesse, dall’immigrazione straniera. Per questi
immigrati non v’è dubbio che siffatto lavoro, ¶{p. 58}benché duro sporco
nocivo, è una liberazione dal passato — non necessariamente la scelta dell’avvenire — in
quanto connesso all’acquisizione dello status di salariato fisso, se
non proprio di una identità sociale operaia. (Nel quadro entra anche il restringersi della
base sociale «elettiva» della classe operaia, giacché le famiglie operaie tendono a fornire
un gettito decrescente di futuri operai).
Diversi sono poi i connotati dell’esercito di riserva
formato dagli strati emarginati urbani, di cui non spicca tanto il carattere, sicuramente
post-industriale, quanto la natura stessa di esercito e di
riserva, mobilitabile ed emancipata. Gli studiosi che sulla base di
uno schema neo-pauperistico moltiplicano gli emarginati col pallottoliere — «giovani» e
«donne» entrano in questi strati per diritto anagrafico, e qualche volta anche gli
«anziani» — magari sottolineano la gravità del problema, ma sicuramente ne sottovalutano la
peculiarità. Se la nuova emarginazione è innanzi tutto soggettiva giacché l’esclusione
sociale pesa più dell’indigenza economica, allora l’impatto lavoro-identità cambia
parecchio, e gli operai «garantiti» non possono venire incolpati di questa esclusione più di
quanto questi strati siano incolpabili se per loro entrare in fabbrica non equivale ad
emanciparsi.
Dunque, a prescindere dalla scarsità dei posti,
l’effetto di emancipazione che l’industria offre va diminuendo, principalmente per il
restringersi del ventaglio di figure sociali che sentirebbero l’esperienza e l’identità
operaia come una liberazione. Il fenomeno non ha la stessa portata in tutti i paesi
capitalistici, la cui stratificazione sociale è del resto diversa. Due grandi tendenze si
scontrano. Da una parte ci sono le conquiste contrattuali e legislative della classe
operaia, leva e parametro dei progressi compiuti nella valutazione sociale del lavoro.
Dall’altra parte ci sono le provvidenze economiche e sociali dei governi per gli strati
sociali meno fortunati o più bisognosi della popolazione, anch’esse leva e parametro, in
questo caso del soccorso pubblico al non-lavoro.
Benché la politica assistenziale sia sovente
influenza
¶{p. 59}ta dalla rivendicazione operaia, le rispettive
conseguenze sono divaricate. Ogni avanzamento nelle condizioni accordate agli operai, così
come ogni peggioramento nella situazione degli strati semiproletari, eleva la soglia di
emancipazione che si ottiene raggiungendo quelle condizioni; ogni progresso nel grado di
sussidiamento della popolazione oppure nella situazione degli
strati semiproletari, diminuisce la distanza rispetto a tale soglia e quindi l’incentivo a
raggiungerla. Si potrebbe addirittura sostenere che la consistenza degli strati la cui
identità verrebbe a «emanciparsi» attraverso il lavoro operaio, cala quando la dinamica
reale dei trasferimenti alle famiglie tende a superare quella delle retribuzioni
nell’industria, e viceversa. Naturalmente non è solo per l’alta paga che uno farebbe
l’operaio, né per la bassa paga che lo rifiuterebbe: si voleva semplificare con un’immagine
il senso dei valori relativi che entrano nella comparazione di chi sceglie, se può. E del
resto comincia già a essere una constatazione documentabile che la politica del sussidio non
incoraggia a presentarsi sul mercato del lavoro regolare, o quanto meno a offrirsi come
operaio
[24]
. Bisogna vedere quanto e cosa di questi effetti è risultato inatteso oppure
voluto. Ma non c’è dubbio che in generale questa politica da Stato assistenziale — versione
deforme ma cosmopolita dello Stato sociale — viene anch’essa riducendo il serbatoio cui
l’industria attinge.
Note
[13] P. Ceri, L’autonomia operaia tra organizzazione del lavoro e sistema politico, in «Quaderni di sociologia», n. 1, gennaio marzo 1977, pp. 28 ss.
[14] Il movimentò operaio rischia di essere «una forza che conosce male la società che dice di saper dirigere»: così C. Donolo, Alla ricerca di un lavoro e di un’identità, in Quaderni de «I Consigli», suppl. al n. 36, aprile 1977, p. 9. Cfr. anche G. E. Rusconi, «Soggettività operaia e scienza sociale», introduzione a O. Negt, Coscienza operaia nella società tecnologica, Bari, Laterza, 1973, in particolare le pp. XXVIII-XXXI.
[15] Si può anche parlare, come ha fatto recentemente R. Alquati, Università di ceto medio, Torino, Stampatori, 1978, pp. 75-95, di «intenzionalità antagonistica». Forse evita qualche scoglio. Come li evita dire egemonia invece che potere. Ma i problemi che riguardano la costituzione del soggetto — forza lavoro e/o classe operaia — quelli rimangono.
[16] Testimonianza di Susi, I giovani dentro e fuori, Quaderni de «I Consigli», cit., p. 45.
[17] M. Tronti, op. cit., p. 238.
[18] P. Calza Bini, Economia periferica e classi sociali, Liguori, Napoli, 1976, pp. 85 ss., ha parlato di «socializzazione manifatturiera».
[19] Ho sviluppato questi temi in «Fabbrica diffusa» e nuova classe operaia, in «Inchiesta», n. 34, luglio-agosto 1978.
[20] C. Perrotta, La questione giovanile tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, in «La Città futura», n. 10, 13 luglio 1977.
[21] Vedila in un seguace a noi contemporaneo: C. Freynet, L’educazione del lavoro, Roma, Editori Riuniti, 1977, in particolare il cap. omonimo, p. 328.
[22] Neppur troppo lontano: si veda quanto disse Paolo VI su quel che «attraverso il peccato è divenuto lavoro austero e pena difficoltosa da portarsi, rude combattimento quotidiano umilmente accettato», che a sua volta «diviene redentore nell’imitazione del lavoro di Gesù di Nazareth», nel messaggio alla 51a settimana sociale dei cattolici di Francia, dedicata al tema «Il lavoro e i lavoratori nella società con temporanea», Lione 9-14 luglio 1964, in «Quaderni di Azione sociale», n. 3, luglio-settembre 1964, p. 565.
[23] E. Corrieri, Il trattamento del lavoro manuale in Italia e le sue conseguenze, Fondazione Agnelli, quad. 14, 1977; F. Alberoni, Alleanze di classe e transizione al socialismo, in «Mondoperaio», n. 4, agosto-settembre 1975.
[24] A. Zevi, Trasferimenti alle famiglie e offerta di lavoro, Quaderni de «La Rivista trimestrale», n. 55-56, luglio-ottobre 1978, pp. 128 ss.; ed anche Differenziali salariali e atteggiamento dei giovani verso il lavoro in «Politica ed economia» n. 4, luglio-agosto 1978, pp. 57 ss.