Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c11
Insomma, con l’avvio della
Restaurazione, e dunque ancor prima del 1821, la tutt’altro che inesistente mobilità
politica in direzione francese si rivelava non poco ispirata – sia per quanto riguarda i
concreti nomi dei suoi protagonisti, sia a proposito delle motivazioni politiche alla
base – da esperienze e legami maturati nel quindicennio precedente. D’altronde, non
appare certo marginale che, seppur con maggiori difficoltà, al tempo continuassero a
soggiornare in Francia anche quei rifugiati giunti oltralpe sin dagli albori del secolo.
Se si è detto di Ennio Quirino Visconti, che grazie al prestigio conseguito come
conservatore al Musée Central in quegli anni ottenne la naturalizzazione e pubblicò la
seconda parte (quella romana) dell’Iconographie ancienne, altri
esempi sono quelli del piemontese Carlo Botta e del napoletano Carlo Lauberg: il primo,
de
¶{p. 370}putato al Corpo legislativo e storico di questioni
rivoluzionarie durante l’Impero, agli albori della Restaurazione veniva nominato rettore
all’Università di Rouen; mentre il secondo, in passato farmacista militare e dal 1813
Ispettore generale di sanità in sostituzione del celebre Antoine Parmentier, dopo il
1815 continuava, nonostante una lunga attesa per l’ottenimento della naturalizzazione,
le altolocate frequentazioni parigine. Figura meno prestigiosa, ma dal percorso simile,
era quella di Annibale Giordano, che proprio con Lauberg aveva avviato alla politica
un’intera generazione di studenti attraverso la scuola di chimica fondata a Napoli nei
primi anni Novanta e che in Francia era poi stato sfiorato dalle indagini per la
congiura di Moliterno del 1802 salvo poi stabilirsi a Troyes ed essere naturalizzato sin
dai primi mesi della Restaurazione.
Pertanto, ci sembra possibile
sostenere che, anche in conseguenza della politica adottata dalla monarchia borbonica,
nel primo quinquennio della Restaurazione l’emigrazione politica della stagione
precedente finiva con lo stabilizzarsi definitivamente. Se in quegli anni un numero
importante (seppur non eccessivo) di nuovi rifugiati varcava nuovamente le frontiere
lasciandosi alle spalle la penisola, nessun flusso in direzione contraria veniva fatto
registrare da parte degli italiani ormai da tempo in Francia, i quali, anzi, vedevano in
quel nuovo scenario un ulteriore motivo per scongiurare un ritorno in patria reputato
sempre meno conveniente.
D’altronde, un simile discorso vale
anche per chi, come il napoletano Luigi Pio, a Parigi era giunto non come esule nel
1799, ma come diplomatico della Corte di Napoli nei lontani anni Ottanta. Tuttavia, come
visto, dopo la presa della Bastiglia egli si era dimesso per orbitare nei circoli di
matrice robespierrista durante il fatidico anno II e quindi ritrovarsi in estrema
povertà nella stagione napoleonica, durante la quale non bastarono ad alleviare le sue
ristrettezze né la vecchia amicizia con l’ex collega Thomas Jefferson, né le iniziative
culturali realizzate con l’editore Louis Fayolle. Per questo, forte proprio
dell’emarginazione subita durante l’Impero e speranzoso nella possibilità che sulla sua
lontana militanza rivoluzionaria fosse calato il velo dell’oblio, sempre
¶{p. 371}da Parigi, dove a seguito della svolta del 1814 era divenuto
informatore della polizia
[13]
, tornava alla carica con il restaurato governo napoletano. A quest’ultimo,
nel ricordare di aver «servi pendant longtemps la Maison de Bourbon régnante à Naples» e
di essere poi stato costretto a dimettersi a causa delle «circonstances fatales de la
révolution», dalla sua abitazione di rue Saint-Honoré chiedeva a più riprese nuovi
incarichi diplomatici, precisando tuttavia che essi dovessero svolgersi appunto sulle
rive della Senna
[14]
. Dunque, nemmeno nel caso di Pio, che pur in Francia era giunto ancor prima
del fatidico 1789 e che pur nel venticinquennio dischiusosi da quella data aveva dovuto
affrontare non poche amarezze, la scelta fu quella del ritorno.
Eppure, contrariamente a quanto
aveva in un primo momento sperato, quelle sue accese posizioni risalenti a circa un
quarto di secolo prima non erano state affatto dimenticate, dato che se negli anni
napoleonici la polizia di Fouché lo aveva schedato come «révolutionnaire exalté»
[15]
, ancora nel 1816 il duca di Narbonne-Pelet, ai tempi ambasciatore francese a
Napoli, gli comunicava di essersi attivato in suo sostegno, ma di aver dovuto constatare
l’esistenza di un «préjugé trop fort» nei suoi confronti. Del resto, finanche nel 1822,
a fronte delle reiterate sollecitazioni con cui egli si descriveva come «accablé
d’infirmités et dénue de toute pension»
[16]
, da Napoli il ministro degli esteri Alvaro Ruffo informava il suo omologo
parigino Mathieu de Montmorency che a ostare a un esito positivo della vicenda fossero,
oltre all’avversione nei suoi confronti del marchese di Circello, più generali «graves
reproches à faire à M. Pio dans les temps de la révolution»
[17]
. Ciò nonostante, in quello stesso anno, il governo napoletano si vide
costretto a prendere atto della difficile situazione in cui l’ultra-ottantenne Pio
continuava ¶{p. 372}a versare, ossia del fatto che – come scriveva il
ministro delle finanze Jean-Baptiste de Villèle – «ce malheureux vieillard, en ce moment
malade, est dans un dénouement absolu»
[18]
. Per questo, in autunno il ministro Ruffo comunicava all’ambasciatore
francese a Napoli Hercule de Serre che, «benché la M.S. non fosse dimentica e
dell’ingratitudine con la quale il Cavalier Pio ha corrisposto alle sue sovrane
beneficenze e degl’inonesti principi adottati dal medesimo», si era deciso, in
considerazione delle raccomandazioni di parte francese, di accordargli un «soccorso
caritativo di 50 franchi al mese»
[19]
.
Meno drammatica, ma comunque
difficile, fu in quegli anni la permanenza a Parigi di quel Niccolò Giosafatte Biagioli
che nella stagione napoleonica si era contraddistinto per il rigoroso insegnamento della
grammatica italiana e delle opere di Dante, ma che dopo il 1815 aveva dovuto far fronte
alle difficoltà economiche causate dal calo degli iscritti alle sue lezioni e dalle
tensioni con lo storico libraio Fayolle, tanto da comunicare all’amico Foscolo di esser
stato costretto a vendere gran parte della propria libreria «all’ingresso in Parigi
degli alleati, e per fame»
[20]
. Tuttavia, nonostante le ristrettezze (o forse proprio per questo), quegli
anni segnarono, anche sulla spinta della polemica romantica lanciata da Milano contro il
neoclassicismo, l’intensificazione della sua produzione culturale, tanto che se già nel
1816 pubblicava una commedia intitolata Tesoretto della lingua toscana, ossia
la Trinuzia, in seguito dava alle stampe nuove edizioni dei testi del
periodo napoleonico quali la Grammaire italienne e le
Lettere del Cardinal Bentivoglio. In tale fase, inoltre,
realizzava anche i suoi più importanti lavori sui classici italiani, prima portando a
termine, come detto, l’ultradecennale lavoro dell’edizione commentata della
Divina Commedia uscita fra 1818 e 1819, poi avviando fatiche
simili ¶{p. 373}anche per le poesie di Petrarca e Buonarroti, pubblicate
a proprie spese nel 1821
[21]
.
Ma il suo lavoro per la
valorizzazione dei classici della penisola continuò comunque ad articolarsi attraverso
il concreto insegnamento dell’italiano, sempre espletato proprio per mezzo dell’analisi
degli autori del XIV secolo: un insegnamento, questo, che fece della sua abitazione,
presso la quale teneva le lezioni, non solo un luogo di formazione per gli studenti, ma
anche un punto di riferimento per i nuovi emigranti della penisola. Cosicché, in quella
che era ormai diventata una vera e propria scuola in grado di erogare doppie lezioni
quotidiane organizzate per classi di 25 allievi divisi per sesso
[22]
, nel 1819 si recava, grazie alla mediazione di un altro italiano quale
Giambattista Gnerri, un giovane pavese, Angelo Cerutti, di recente giunto sulle rive
della Senna dopo esser stato espulso da Milano dall’amministrazione austriaca. A causa
di una serie di delusioni militari, questi si rivolgeva appunto a Biagioli, il quale
progressivamente lo inseriva nel mondo dell’insegnamento dell’italiano a Parigi
[23]
: da quel momento, infatti, per Cerutti cominciava un intenso studio dei
classici che, se nel 1823 lo avrebbe portato a dare alle stampe un’edizione in cinque
volumi del Decameron di Boccaccio introdotta da una prefazione a
firma proprio ¶{p. 374}del maestro, in seguito gli avrebbe aperto le
porte per una prestigiosa carriera da filologo
[24]
.
Una carriera, la sua, dunque
cominciata nell’abitazione parigina di Biagioli, come egli stesso avrebbe riconosciuto
diversi anni più tardi, quando, nel 1846, pubblicando la sua autobiografia, prima
ammetteva che «il corso che teneva il Biagioli di lingua e letteratura italiana in casa
sua era pure per me una continua scuola» e poi riconosceva il profondo debito contratto
con «quel metodo che il Biagioli instituì e mi mostrò, cioè con l’analisi delle parole»:
a suo avviso, infatti, proprio «all’essermi accontato col Biagioli io veramente debbo la
buona ventura d’essermi ravveduto dello errore nel quale io e tutti gli altri giovani
eravamo rispetto alla nostra bella letteratura»
[25]
. Le parole di Cerutti, pertanto, meritano qui di essere riportate, perché le
sue considerazioni circa l’insegnamento classicista impartitogli da Biagioli nella
Parigi della Restaurazione si rivelano, più in generale, una straordinaria testimonianza
di quanto importante fosse stato il lavoro culturale svolto in Francia dalla generazione
rivoluzionario-napoleonica, ossia del fatto che il duraturo soggiorno parigino degli
esuli del 1799 avesse a lungo costituito, anche dopo il 1815, una vera e propria scuola
di cultura nazionale:
Tu avevi dunque, o Italia, generato Dante, tu il Petrarca, tu il Boccaccio, un Cavalca, un Macchiavello, un Ariosto, un Davanzati, un Nardi, e cento altri; e con aureo stile gli facesti fiorire, perché fossero poi per generale ignoranza quasi dimenticati nel seno tuo, e fosse necessario ch’io uscissi del tuo grembo per udirgli ricordare e commendare! E quella città la quale, per la copia dei piaceri e de passatempi ch’ella fornisce, parrebbe avesse dovuto fare in me quel medesimo effetto che fatto aveva Milano, operò in me tutto il contrario. In quella mia età delli anni 24 ben si può vedere da quante parti il rettore del mio destino mandasse in mio aiuto ausiliari che mi spingessero e aiutassero a fare il gran mutamento. Grande dico essere stato qui il cambiamento in me, se poco prima io aveva venduto Dante! [...] Qual differenza tra i¶{p. 375}miei amici di Milano e quei di Parigi! Era mai possibile che la mia pianta si fosse potuta piegare e dirizzarsi in alcun luogo d’Italia? Ove mai trovare in essa tanti stimoli allo studio, quanti trovai là in ogni parte ch’io mi volgessi? Egli era dunque necessario, siami lecito il ridirlo, ch’io commettessi quel fallo in Milano che mi cacciasse d’Italia; era necessario che rimanessi in Parigi senza commerciale occupazione e senza danari [26] .
Note
[13] Carbone, I rifugiati italiani in Francia, cit., p. 2.
[14] AMAE, Adp, Naples, cart. 2, Lettre de Pio (Paris, 13/09/1816).
[15] ANF, F/7, cart. 2255.
[16] AMAE, Adp, Naples, cart. 2, Pétition de Pio à Luis XVIII (Paris, 18/04/1822).
[17] AMAE, Adp, Naples, cart. 2, Lettre de Ruffo à Montmorency (Naples, 4/07/1822).
[18] AMAE, Adp, Naples, cart. 2, Lettre de Villèle à Serre (Paris, 2/09/1822).
[19] AMAE, Adp, Naples, cart. 2, Lettera di Ruffo a Serre (Napoli, 11/10/1822).
[20] Vedi infra, pp. 240-241.
[21] Tesoretto della lingua toscana, ossia la Trinuzia, Parigi, Appresso l’autore, 1816; La Divina Commedia di Dante Alighieri, Parigi, Dondey-Dupré, 1818-1819; Rime di Francesco Petrarca, Parigi, Presso l’editore, 1821; Rime di Michelagnolo Buonarroti, Parigi, Presso l’editore, 1821.
[22] Alla sezione maschile erano ammessi soltanto allievi in età scolare, mentre a quella femminile potevano accedere anche donne adulte; erano poi previsti compiti a casa e l’obbligo della frequenza. Queste notizie sono attinte da A. Cerutti, Vita di Angelo Cerutti: con ragionamenti e digressioni morali e filosofiche, Firenze, Cecchi, 1846, vol. 1, pp. 139-184.
[23] Cerutti riferiva di un episodio alquanto emblematico dei metodi e degli strumenti utilizzati da Biagioli: «Avendo udito dal suo libraio signor Fayolle che io gli aveva venduto la copia di Dante da lui donatami e datami a studiare, mi disse che continuassi a leggere e a studiar Dante; per la qual cosa mi fu forza confessare ch’io l’aveva venduto. Di che egli fattomi alcun rimprovero, e ammonitomi che non dovessi più vendere i ferri dell’arte, me ne diede un altro, il quale poi non partii mai da me». Ibidem, p. 167.
[24] Il Decameron di M. Gio. Boccaccio, Parigi, Malepeyre, 1823.
[25] Cerutti, Vita di Angelo Cerutti, cit., pp. 169, 176, 181.
[26] Ibidem, pp. 170-172.