Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c10
In generale, comunque, se si
considera che lo studio ha preso in considerazione esclusivamente le richieste di
¶{p. 337}naturalizzazione effettuate fino al 1820, risulta tutt’altro
che marginale la percentuale di italiani giunti nei territori francesi dopo il 1810,
ossia di coloro i quali effettuarono la dichiarazione pur non avendo trascorso i dieci
anni di residenza necessari. Ed a tal riguardo va detto, a conferma di come il rispetto
dei vincoli legislativi fosse gestito in maniera molto elastica, che la risposta sarebbe
stata fondamentalmente positiva, perché per tali domande i rifiuti ammontano al 10%, a
fronte del citato 21% totale. Rispetto ai dati generali, tuttavia, vi era una
significativa differenza dovuta al fatto che la percentuale di ammissioni a domicilio
aumentava sensibilmente. Da ciò deriva una duplice conseguenza: da un lato, l’ammissione
al domicilio fu utilizzata, proprio come nel caso dei pescatori liguri, soprattutto per
regolare situazioni alle quali, invece, la naturalizzazione proprio non poteva essere
applicata; dall’altro, la politica dello Stato francese si dimostrò nel complesso
piuttosto aperta ad accogliere casi di emigrazione recente dovuti a ragioni
economico-produttive, mentre non di natura burocratica furono i principali motivi dei
rifiuti.
Da questo punto di vista, risulta
utile anche l’analisi delle caratteristiche anagrafiche dei naturalizzati, dalla quale
emerge come la fascia d’età più consistente fosse quella compresa fra i 35 e i 45 anni.
Ciò significa che si trattava per lo più di uomini nati negli anni Settanta e Ottanta,
con punte molto elevante nella fase centrale di quel ventennio. Simili dati permettono
di effettuare alcune riflessioni anche sul momento del loro primo contatto con la
Francia, in quanto la maggioranza dei naturalizzati era costituita da un personale che,
al momento della rottura rivoluzionaria del 1796, aveva per la maggior parte un’età
intorno alla ventina d’anni: circostanza che attesta come il nucleo consistente di tali
uomini si fosse in gran parte formato negli anni della presenza francese in Italia.
Seppur inferiore, era comunque consistente anche il numero di uomini nati negli anni
Sessanta e nella prima metà del decennio successivo, cioè coloro i quali, avendo avuto
un’età intorno alla trentina d’anni nel Triennio, avevano avuto modo di partecipare a
quelle vicende con incarichi di responsabilità. Delle altre fasce, se non desta
¶{p. 338}sorpresa l’esiguo numero di ultrasessantenni, colpisce invece
la presenza degli individui nati fra la fine degli anni Ottanta e la prima fase della
Rivoluzione. Una presenza, questa, che va segnalata non tanto per la sua (tutt’altro che
elevata) consistenza numerica, quanto per il fatto che gli individui in questione
avevano, all’avvio della Restaurazione, un’età compresa fra i 20 e i 30 anni, cioè erano
formalmente impossibilitati a ottenere la naturalizzazione, dato che la legge imponeva
che i dieci anni di residenza dovessero contarsi «depuis l’âge de 21 ans»: ciò attesta
ulteriormente come i precetti imposti per via legislativa fossero spesso trattati con
una certa elasticità e non mancassero, in alcuni casi, di essere addirittura elusi.
Per quanto riguarda le zone di
provenienza, risulta evidente la superiorità degli uomini nati negli ex dipartimenti, a
conferma di come proprio l’annessione avesse comportato una significativa migrazione
favorita dal nuovo status di francese. Da tali zone, infatti, proveniva circa l’85% del
totale, seppur con differenze importanti al proprio interno, in quanto se la parte del
leone spettava a liguri e soprattutto piemontesi (rispettivamente 27,3% e 47,1%),
decisamente inferiori erano le cifre riguardanti i naturalizzati provenienti dalle aree
della Toscana (4,5%), dello Stato pontificio (3%) e del Ducato di Parma e Piacenza
(2,7%). Tuttavia, tale disparità ci sembra addebitabile solo ¶{p. 339}in
parte a un dato geografico, ossia alla maggiore vicinanza dei primi alla Francia, perché
un’incidenza notevole l’ebbe soprattutto un fattore cronologico, cioè il fatto che le
aree del nord-ovest fossero state annesse prima (il Piemonte nel 1802 e la Liguria nel
1805), permettendo così l’avvio di un soggiorno che avrebbe raggiunto i dieci anni di
residenza già nel periodo preso in esame.
Più nello specifico, a primeggiare
era il dipartimento del Po (23,1%), seguito poi da quello di Genova (15,5%). Molto
simili fra loro erano le percentuali dei vicini Stura e Montenotte (rispettivamente 9,8%
e 9,6%), i quali andavano a comporre, con i due dipartimenti appena citati e con quello
di Marengo (6,6%), l’area che in assoluto fornì il ¶{p. 340}contributo
maggiore a questa emigrazione. Quanto alle percentuali dei naturalizzati provenienti
dagli stati formalmente indipendenti, esse furono sì piuttosto modeste (8,1% per i
territori del Regno d’Italia e 4% per quelli del Regno di Napoli), ma restano comunque
emblematiche, perché – come detto – stando alle disposizioni della legge simili domande
non si sarebbero dovute nemmeno registrare.
Ancor più interessanti sono le
informazioni sulla dislocazione spaziale nei territori del paese d’arrivo, anche se al
riguardo va precisato che, trattandosi di uno studio effettuato sulle dichiarazioni del
1814-1820, esso serve a fotografare la situazione al momento della Restaurazione, cioè
permette di avere elementi di riflessione non tanto sulle tratte originarie di quella
mobilità, quanto sulle zone in cui il soggiorno era andato stabilizzandosi. Negli anni
napoleonici, infatti, gli italiani in Francia avevano dato vita a una significativa
mobilità interna, di cui l’esempio più importante è costituito, ancora una volta, da
Parigi, perché se nei primi anni del secolo la capitale fu un grande luogo di
attrazione, in seguito erano andate aumentando le partenze per altri centri francesi di
quegli uomini che stavano progressivamente ottenendo lavoro oltralpe. Ciò nonostante, la
centralità di Parigi nell’emigrazione del tempo resta indiscutibile, dato che nel
quinquennio preso in esame vi risiedeva circa un quinto degli italiani stabilitisi
nell’Esagono, a conferma di come per tutta la stagione napoleonica la capitale avesse
continuato a offrire ampie prospettive professionali.
Per quanto riguarda il resto, a
fronte di una generale disperazione territoriale che faceva registrare in ben 35
dipartimenti metropolitani una presenza di italiani inferiore all’1% (per un totale di
circa il 21%)
[12]
, oltre a Parigi l’altro grande polo d’attrazione era costituito, come
prevedibile, ¶{p. 341}dalla zona del sud-est, quella geograficamente più
vicina alla penisola. Qui, tuttavia, più che i dipartimenti alpini, a primeggiare erano
quelli della Costa Azzurra, ossia le Bouches-du-Rhône (13,3%) e il Var (10,8%), seguiti
dal più interno Isère (7,3%). Anche in questa zona, la concentrazione urbana era
pressoché totale, in quanto i principali
¶{p. 342}centri di residenza
erano di gran lunga i capoluoghi dei dipartimenti, ossia Marsiglia per le
Bouches-du-Rhône, Tolone per il Var e Grenoble per l’Isère. Se non stupisce che nella
Costa Azzurra prevalesse la migrazione ligure e nel triangolo Lione-Grenoble-Chambéry
quella di provenienza piemontese, sorprende di più la cifra nel complesso modesta dei
dipartimenti alpini (Alpes-Maritimes, Basses-Alpes e Hautes-Alpes, che insieme
raggiungevano il 4%). Tale cifra si spiega in parte con la circostanza per cui fossero
soprattutto le mete costiere a rappresentare il luogo di soggiorno più duraturo, come
tra l’altro testimoniato dal buon dato dell’Hérault (3,2%) e della Corsica (4%), seppur
va detto, a proposito di quest’ultima, che tale percentuale, per quanto rilevante,
risulta in fondo non elevatissima se si tiene conto della storia e della posizione
dell’isola, a testimonianza di come quella emigrazione tendesse a indirizzarsi
principalmente nei centri dell’Esagono.
Note
[12] I dipartimenti in questione erano: Aisne, Ardèche, Ardennes, Aude, Aveyron, Basses-Pyrénées, Charente-Inférieure, Deux-Sévres, Drôme, Eure, Finistère, Gard, Gers, Gironde, Haute-Garonne, Haute-Vienne, Haut-Rhin, Ille-et-Vilaine, Indre, Loire, Loiret, Loir-et-Cher, Maine-et-Loire, Marne, Meurthe, Meuse, Morbihan, Pas-de-Calais, Pyrénéés-Orientales, Seine-et-Loire, Seine-Infèrieure, Tarn, Tarn-et-Garonne, Yonne, Vaucluse.