Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/p3
Si potrebbe obiettare, in verità, che l’insieme di questioni evocate solo forzatamente potrebbe essere inteso «come un metro significativo di misura del più generale tema dei rapporti tra legge e contrattazione» [8]
, se non altro perché la dottrina che, più argomentatamente, ha sostenuto la legittimità di un’ampia delega all’autonomia collettiva quanto alla definizione della nozione di retribuzione, non nega che «il contratto collettivo, come ogni altro atto di autonomia privata, è assoggettato alla disciplina della
{p. 12}legge e non può a questa derogare se non a favore del lavoratore» e neppure che esistano in materia «criteri o principi generali dettati dalla legge» [9]
. L’affermazione di principio, peraltro, finisce con l’essere svuotata di contenuto allorché risulta completata dal rilievo che quei criteri possono, al più, «assolvere esclusivamente ad una funzione sussidiaria o, se si vuole, di integrazione o di interpretazione del contratto collettivo...» ma «... non possono certo incidere sulle determinazioni dell’autonomia collettiva...» e che «ritenere il contrario significherebbe snaturare il complesso equilibrio che, di volta in volta e caso per caso, è realizzato dalla contrattazione collettiva» [10]
. Come dire, appunto, che, a fronte di determinazioni delle parti collettive di significato inequivocabile, seppure contrastanti con criteri di origine legale, questi ultimi possono essere vanificati.
La medesima conclusione si può intravedere, all’interno di uno schema di ragionamento più generale, anche nell’opinione che, ancora una volta senza mettere in discussione il tradizionale rapporto tra le fonti, muove dall’assunto secondo il quale «la lettera della legge di solito concede spazio a più ipotesi di soluzione del caso da decidere...», per «... auspicare un maggiore controllo critico della precomprensione dell’interprete, che favorisca una maggiore apertura alle valutazioni dell’autonomia collettiva e all’esigenza di preservare gli equilibri contrattuali su di esse fondati» [11]
.
L’affinità tra gli orientamenti menzionati ed altri che, in termini più aperti e con esplicita ambizione di inquadramento sistematico, hanno teorizzato l’esistenza di un nesso di reciproca fun{p. 13}gibilità fra norma legale e norma collettiva [12]
, sembra innegabile. Non a caso si è constatato come l’effetto pratico di maggiore rilievo dell’asserita fungibilità fra le fonti parrebbe consistere proprio nell’affermazione del «carattere normalmente dispositivo di tutte le previsioni in materia retributiva sancite dal codice civile o dalla legislazione ordinaria» [13]
.
Il tentativo di attribuire alla norma di legge carattere semi imperativo, inderogabile se non in melius dall’autonomia privata individuale, derogabile anche in pejus da quella collettiva, non è nuovo: anzi, esso è di vecchissima data e periodicamente ricorrente nella storia del diritto del lavoro. Opportunamente, infatti, è stato ricordato che istanze in tal senso possono incontrarsi già in scrittori dei primi anni del secolo, oltre tutto di diversa estrazione ideologica [14]
, aggiungendosi che «sia pure con diversi significati sostanziali, in termini concettuali l’operazione potrà ripetersi in epoca successiva... ogni volta, sia pure con argomenti mutevoli, svolgendosi il medesimo passaggio logico-interpretativo: l’obsolescenza delle “antiche leggi” e delle garanzie inderogabili da esse disposte... in ragione dei caratteri di flessibilità e adeguatezza sociali propri della contrattazione collettiva» [15]
.
Con diversi significati sostanziali: lo sforzo di delineare un modello di «coordinamento orizzontale tra legge e contratto collettivo» [16]
può infatti rispondere, almeno nel contesto attuale, all’obbiettivo pratico di realizzare un’ampia deregolamentazione delle relazioni industriali, da sottoporre soltanto all’azione delle forze di mercato e agli equilibri da esse contingentemente definiti; ma anche all’intento di accentuare la valorizzazione della norma collettiva come strumento di disciplina dei rapporti di lavoro. Tuttavia, anche intesa in questo secondo senso, la costruzione non pare condivisibile.{p. 14}
Sul piano strettamente dogmatico si può obiettare che, quantunque sia innegabile che «è in atto una tendenza a consentire, in relazione ad alcune materie, all’autonomia collettiva di scendere al di sotto dei limiti imposti dalla legge o di precisare il contenuto delle garanzie legislative, è anche vero che non è intervenuto nessun elemento che possa far teorizzare un mutato rapporto di gerarchia fra legge e contratto collettivo (c.m.)» [17]
. Quanto meno con riferimento a tratti essenziali di disciplina del rapporto, in altre parole — si pensi alla normativa sull’orario di lavoro, alle garanzie di stabilità del posto ma anche, appunto, a quelle in materia retributiva, già rintracciabili (criteri di computo di alcune competenze indirette) o ancora da introdurre (regolamentazione del salario minimo) nell’ordinamento — va ribadito l’insegnamento della tradizione, secondo il quale funzione permanente della legge resta quella «non di sostituire la tutela sindacale, bensì di determinare i modi in cui essa possa svolgersi con maggiore efficienza» [18]
, apprestando all’uopo una solida base minima di sostegno.
La sottolineatura del ruolo della legge nella regolamentazione dei rapporti di lavoro, del resto, costituisce, notoriamente, parte integrante dell’esperienza storica di quasi tutti i movimenti operai, fatte salve, forse, le correnti d’ispirazione massimalista. Presente nei diversi contesti industriali, con la parziale eccezione degli ambienti anglosassoni, dove marcata è stata l’enfasi sulla c.d. abstention of the law [19]
, quella sottolineatura ha ricevuto ovunque un impulso decisivo dall’avvento del suffragio universale, a seguito del quale «l’uso dell’azione politica accanto a quella collettiva di mercato per ridurre le disuguaglianze economiche» [20]
è {p. 15}cominciato ad apparire alle organizzazioni dei lavoratori come uno strumento del massimo rilievo.
Tali richiami potrebbero apparire scontati, ma risultano indispensabili a fronte di costruzioni che, anche quando volte ad iper-valorizzare l’autonomia collettiva (in funzione pro-sindacale), sembrano mosse da una concezione alquanto astratta dei rapporti sociali, dimentica delle oscillazioni cui quest’ultimi sono costantemente sottoposti in dipendenza della variabile congiuntura economica e politica [21]
. L’ampia potestà derogatoria delle norme legali che si vorrebbe attribuire a quelle collettive dev’essere contestata allora non solo perché dogmaticamente infondata [22]
o perché tale da assecondare il lento processo di scivolamento del diritto del lavoro nell’ambito del diritto dell’economia; ma anche per le sue implicazioni d’ordine sociale. Se si hanno presenti il quadro generale in cui s’inscrive l’azione sindacale in questo scorcio iniziale degli anni ’80, le analisi comparate che hanno evidenziato le pesanti difficoltà ovunque incontrate dalla contrattazione collettiva, al punto da esprimere timori su una possibile tendenza al declino della medesima [23]
, non sarà difficile immaginare quali potrebbero essere le conseguenze pratiche, al di là delle intenzioni dei proponenti, di una attenuazione delle garanzie legali nel campo dei rapporti di lavoro. Per queste ragioni va ancora oggi condivisa la convinzione che lo schema consolidato di rapporti tra le fonti «non è qualcosa di congiunturale, confondendosene origine e fondamento con quelli stessi del diritto del lavoro» [24]
. Nello stes- {p. 16}so ordine d’idee, d’altro canto, con specifico riferimento alla tematica retributiva si è segnalato che l’esistenza di rigidità legali costituisce «una remora a eventuali operazioni salariali condotte e realizzate “in perdita”, sotto l’impulso di spinte anche emozionali nelle fasi di riflusso e debolezza sindacale» [25]
.
Occorre riconoscere, peraltro, che il principio di derogabilità della norma di legge solo a favore dei lavoratori non ha un preciso fondamento costituzionale [26]
, anche se dall’insieme delle disposizioni della Carta fondamentale in tema di rapporti economici può farsi discendere «la pacifica destinazione dell’attività negoziale a determinare trattamenti adeguati oltre la soglia delle garanzie minime» [27]
. Si può ammettere, in altri termini, che, in relazione a specifiche fattispecie, il legislatore consenta all’autonomia collettiva di derogare, anche in pejus, previgenti assetti legali. Proprio per questo la controversa legittimità delle discipline di legge che, negli ultimi anni, sono venute variamente ad apporre «tetti» alle dinamiche salariali sarà discussa, nel terzo capitolo, non nell’ottica della violazione di un principio assoluto di rapporto tra le fonti, ma con riferimento ad altrettante norme costituzionali, segnatamente a quella relativa alla garanzia di libertà sindacale.
Si vedrà come l’intervento della legge, opportuno ed anzi necessario sul piano dei minimi, perda largamente la sua ragion d’essere quando venga utilizzato in funzione determinativa di massimi salariali. La conclusione sarà argomentata sul terreno strettamente tecnico, non senza avvertire, comunque, com’essa si raccomandi, ancor prima e con particolare forza, su quello politico.
Si potrà constatare anche come il disegno complessivamente prospettato dell’assetto costituzionale vigente difficilmente potrebbe essere accusato di guardare al passato, «più alla versione integrale del modello pluralistico degli ordinamenti giuridici» [28]
{p. 17}che non agli intrecci di relazioni correnti fra parti collettive e Stato. Non sarà tanto, infatti, l’esigenza di una regolazione centralizzata delle dinamiche retributive o, più in generale, di una concertazione tripartita delle grandi variabili economiche ad essere posta in questione; semmai la specifica qualità dell’una e dell’altra.
Note
[8] Mariucci, op. cit., p. 401.
[9] Le citazioni da Persiani sono rispettivamente in Legge, giudice e contratto collettivo (1977) ora in I nuovi problemi della retribuzione, Padova, CEDAM, 1982, p. 2 e in II tramonto del principio dell’omnicomprensività della retribuzione e il problema dei poteri del giudice sulla contrattazione collettiva, in «Giur. it.», 1984, I, 1, c. 1560.
[10] Persiani, op. loc. ult. cit. Conseguentemente il dissenso di questo autore rispetto al più recente orientamento delle Sezioni Unite in materia (su cui v. ampiamente infra, cap. II), che pure appare innegabilmente mosso da una volontà «liberalizzante» della nozione giuridica di retribuzione, è motivato dall’osservazione che comunque, rispetto a determinate ipotesi, la Cassazione continua ad affermare l’esistenza di criteri legali inderogabili dall’autonomia privata. Cosicché il nuovo indirizzo, pur ritenuto «un’importante evoluzione delle giurisprudenza lavoristica, non appare, però, ancora sufficiente ad invertire la tendenza dei giudici a sovrapporsi all’autonomia collettiva» (ivi, c. 1566).
[11] Mengoni, Legge e autonomia collettiva, in «Mass. giur. lav.», 1980, p. 696.
[12] D’obbligo il riferimento a Ferraro, Ordinamento, ruolo del sindacato, dinamica contrattuale di tutela, Padova, CEDAM, 1981, p. 316 ss.
[13] Così giustamente Mariucci, op. cit., p. 412. A conferma cfr. Ferraro, op. cit., p. 307 e nota 29, la cui posizione in proposito, peraltro, appare alquanto sbrigativa, senza elaborazione ulteriore rispetto alle ipotesi ricostruttive di Persiani che vengono, quasi testualmente, riprese
[14] Cfr. sul punto Mengoni, op. cit., p. 696
[15] Mariucci, op. cit., p. 382 s.
[16] Per usare l’espressione di Vardaro, Contrattazione collettiva e sistema giuridico, Napoli, Jovene, 1984, p. 102.
[17] Giugni, Diritto sindacale, Bari, Cacucci, 1984, p. 191. Nello stesso senso si v. De Luca Tamajo, Garantismo legislativo e mediazione politico-sindacale: prospettive per gli anni ‘80, in «Riv. it. dir. lav.», 1982, I, p. 49 ss.; Cessari, Premessa alla ristampa de Il «favor» verso il prestatore di lavoro subordinato, Milano, Giuffré, 1983, p. XI, XIII; Mariucci, op. cit., p. 413.
[18] Giugni, Iniziativa legislativa ed esperienza sindacale in tema di licenziamento, in «Riv. giur. lav.», 1966, I, p. 127. Con specifico riferimento alla tematica in esame cfr. D’Antona, op.cit., p. 276.
[19] Con riguardo al favore ivi espresso per una legislazione sui minimi cfr., comunque, sin d’ora Dobb, I salari, Torino, Einaudi, 1965, p. 176; più in generale si v. anche Roberts, I sindacati e lo Stato in Gran Bretagna, in «Riv. it. dir. lav.», 1983, I, p. 496 ss.
[20] Bordogna e Provasi, Politica, economia e rappresentanza degli interessi, Bologna, il Mulino, 1984, p. 26. Il rilievo comunque è comune nelle trattazioni generali sul significato sociale dell’intervento statuale nella regolamentazione dei rapporti di lavoro: cfr., per tutti, Dàubler, Diritto sindacale e cogestione nella Germania Federale, Milano, Franco Angeli, 1981, p. 77 ss.
[21] Al riguardo si v., con particolare chiarezza, G. Lyon-Caen, La crise actuelle du droit du travail, in Aa. Vv., Le droit capitaliste du travail, Presses Universitaires de Grenoble, 1980, p. 257 ss.
[22] Anche quando sostenuta con l’ausilio di categorie esterne al paradigma giuslavoristico, come nel libro di Raveraira, Legge e contratto collettivo, Milano, Giuffré, 1985, la quale si sforza di argomentare l’asserita capacità di deroga del contratto collettivo (di categoria) rispetto alla norma di legge, costruendo un modello di rapporto fra le fonti di segno analogo a quello che intercorrerebbe fra legge statale e legge regionale. La conclusione, coerente ma palesemente insostenibile, è nel senso di «ipotizzare la sindacabilità dei contratti da parte del giudice costituzionale» (p. 143).
[23] Si v. Treu, Centralization and decentralizaton in collective bargaining, in «The International journal of Comparative labour law and industrial relations», 1985, n. 2 (di prossima pubblicazione anche in «Giornale dir. lav. e rei. ind.»).
[24] Alarcón, Un concepto clasico de la relacion entre ley y convenio colectivo in Aa.Vv., Las relaciones laborales y la reorganización del sistema productivo, Publicaciones del Monte de piedad y caja de ahorros de Cordoba, 1983, p. 60.
[25] Tosi, 1 condizionamenti legislativi alla struttura del salario, in «Prosp. sind.», 1978, 28, p. 57.
[26] Corretta, in questo senso, l’affermazione che si può leggere in Corte cost., 30 luglio 1980, n. 141, in «Foro it.», 1980, I, c. 2652.
[27] Mariucci, op. cit., p. 412.
[28] De Luca Tamajo, Leggi sul costo del lavoro e limiti all’autonomia collettiva (Spunti per una valutazione di costituzionalità), in Aa.Vv., Il diritto del lavoro nell’emergenza, Napoli, Jovene, 1979, p. 163.