Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c4
Le esigenze di circolazione dei dirigenti sono state spesso soddisfatte in modo pacifico e concordato, per tutte le Confederazioni, utilizzando la «prelazione» del sindacato su cariche pubbliche, amministrative o onorarie, mentre nella cgil sembra essere ripreso il flusso sindacato-partiti nei due sensi. Nella cisl e nella uil il flusso è solo verso l’esterno ed è limitato a personaggi di vertice facenti parte del
{p. 72}«gruppo dei cinquecento», in occasione delle consultazioni elettorali.
Una eventuale stabilizzazione della crescita sindacale potrà acuire il problema degli sbocchi, specialmente per quei sindacalisti a tempo pieno di categoria e di zona a cui il peso logorante dell’attivismo e del rapporto quotidiano con gli aderenti impone ritmi di invecchiamento sostanzialmente superiori a quelli di altre posizioni.
Registriamo anche qualche segnale di mutamento nei canali di selezione e provenienza: nelle aree industriali la spinta a uscire dalla fabbrica è più debole, grazie anche alle condizioni di agibilità conquistate nei luoghi di lavoro, mentre tendono ad affluire più numerosi gli scolarizzati senza occupazione soddisfacente, che vedono nel sindacato non solo un’occasione ideale ma anche una opportunità professionale abbastanza stabile e promettente in termini di autorealizzazione.
Nell’insieme dei sindacalisti a pieno tempo non vediamo particolari disuguaglianze per quanto riguarda i ritmi di attività; quasi a tutti la carica motivante, insieme a un elevato controllo sociale, impongono un attivismo spesso ai limiti dell’equilibrio psico-fisico, e sarebbe davvero interessante un’indagine sui costi in termini di salute che richiede questo tipo di professione. Le disuguaglianze cruciali, oltre a quelle gerarchiche e di potere decisionale, risiedono probabilmente nelle differenze di strumentazione culturale ed espressiva, quindi di capacità di elaborazione autonoma.
I cinquecento «superiori», al di là del loro punto di partenza, vivono un’esperienza arricchente proprio perché la loro attività li costringe a un confronto quotidiano e diretto con l’esterno, con i «grandi» protagonisti del sistema politico ed eco{p. 73}nomico. Gli altri, più rinchiusi in compiti di trasmissione e di gestione, suppliscono attraverso l’imitazione dei modelli recitati dai leader, cogliendone le pure spoglie esteriori, brani di atteggiamento e di linguaggio, effetti scenici, emozioni. E con queste spoglie si presentano a una base che, presumibilmente, riconosce in essi il «grande autorevole messaggio» che i mezzi di comunicazione di massa spremono dal sindacato.
Il gioco tra i livelli gerarchici si complica e arricchisce solo quando si congiungono due fattori: la base è in fase di movimento (cioè propositiva) e il sindacalista intermedio si identifica in essa trasferendovi gli aspetti originali della propria personalità. Allora il riequilibrio dell’organizzazione è affidato all’alternarsi di conflitto e cooptazione nella élite superiore (o emarginazione o promozione). Malgrado la stratificazione interna, il «corpo» dei sindacalisti è riuscito fino a oggi a mantenere una notevole compattezza: i conflitti non sono quasi mai del tipo alto-basso, autorità-subordinazione, bensì tra apparati di categorie diverse o tra orizzontale e categoria o tra centro e periferia. Non si è però verificata l’ipotesi di una organizzazione la cui piramide gerarchica è delegata e controllata più o meno rigidamente dalle istanze di base. I consigli sono rimasti un’anomalia, mentre la legittimazione professionale e politica del quadro a pieno tempo è affidata esclusivamente alle valutazioni della struttura gerarchica superiore; nei casi «forti» le istanze di base (una zona o un consiglio importante) hanno diritto di veto ma non di scelta positiva. Tra le cause (o i sintomi) di questa forma organizzativa autocratica sta la centralizzazione del «pensare» sindacale e il progressivo annullamento delle fonti di invenzione e di elaborazione decentrate. Che, se si volesse procedere per {p. 74}battute, è il modello statuale assunto dal partito e di qui capitombolato per via di interiorizzazione nel sindacato.

4. Rapporti con la base: dalla ricerca all’amministrazione

Il sindacalista degli anni duri doveva farsi la base partendo da pochi fedeli in competizione con altri sindacalisti. Partiva dalle contraddizioni dello sfruttamento operaio, ma aveva poco da offrire di immediato se non un forte messaggio ideale. Per allargare la base doveva analizzare le realtà, e scopriva i limiti del messaggio: era perciò indotto a inventare, sperimentare, ricercare. Senza questa attitudine di ricerca è assolutamente inspiegabile la ripresa sindacale degli anni ’60; il movimento ha trovato sulla sua strada quadri attrezzati per capirlo e appoggiarlo.
Quando l’organizzazione pone invece prevalentemente imperativi di «manutenzione» del consenso, seleziona e premia nel sindacalista le capacità di amministrazione e di gestione. Il sindacalista agisce perseguendo la stabilità del consenso interno a linee che via via centralmente vengono elaborate, corrette o smentite. Nei confronti degli aderenti assume progressivamente un ruolo di negoziatore. È interessante notare come le abilità del costume negoziale, sempre meno utili o utilizzate nei confronti della controparte tradizionale, vengono ampiamente utilizzate nei rapporti interni al sindacato, tra componenti e gruppi di potere, o tra quadri dirigenti e base. A sua volta la base, sgravata di ogni responsabilità di elaborazione, tende a sviluppare nei momenti di tensione attitudini rivendicative-negoziali nei confronti dell’apparato sindacale.{p. 75}
La sostanza delle relazioni negoziali è naturalmente negata dalle forme della recitazione: il sindacalista si vive e intende essere vissuto ancora come un «condottiero», coerentemente con la deformazione militare che ha pervaso da decenni il pensiero di classe. Il sindacalista può diventare un amministratore del consenso perché fa parte di una élite protetta. Protetta in quanto chiamata a incarnare una istituzione legittima e onorata, protetta soprattutto dalla scarsa capacità dei meccanismi democratici interni di mettere in forse i ruoli dirigenti, cioè dall’elevata stabilità dei ruoli stessi.
Per questa via il modello dominante diventa quello dell’uomo politico medio: colui che si adatta ai flussi di realtà in modo da conservare il consenso e la delega. Ciò sviluppa delle facoltà adattive e forme di intelligenza combinatoria sconosciute al grezzo sindacalista da «battaglia», ma erode inesorabilmente la chiarezza dei fini dell’azione politica, soprattutto se politica vuole significare cambiamento consapevole della condizione sociale.

5. Linguaggio e cultura

Quando e se il nuovo sindacalista si trova a occupare il duplice ruolo di condottiero e amministratore, vediamo nascere quel linguaggio omogeneo, quella liturgia rassicurante che è stata descritta discorrendo del sindacalismo dell’immagine.
La liturgia codifica l’autorevolezza del ruolo gerarchico, diffonde certezze presunte attraverso la sua ripetitività e il dosaggio conforme delle figure retoriche. Chiunque si senta chiamato a essere «chierico» non ha che da apprenderla attraverso i meccanismi di assuefazione tipici degli incontri sindacali. La nuova volgata, prodotta dal contatto con i mass-{p. 76}media, associa sapientemente il vecchio latino della tradizione sindacale e i brividi sessantotteschi, entrambi espressivi dell’elemento aggressivo, con il profluvio pastorizzato della sicurezza burocratica, espressivo delle funzioni negoziali e di gestione. D’altra parte il sindacalista vive un’esistenza talmente assorbita nell’attivismo da mancare sostanzialmente di fonti alternative di trasmissione culturale. È costretto a consumare quello che produce, dipendendo dal modello espressivo dominante nel sistema politico. Possiamo registrarlo osservandone i consumi culturali. Il giornale è una presenza ossessiva (come il fumo) nelle riunioni sindacali: fornisce la distrazione necessaria ad allentare noia e tensione e accompagna il sindacalista nei suoi spostamenti come una medicina amica.
È infatti sintomatico che quanto meno il sindacalista ha davvero bisogno di essere informato (perché fruisce di informazione orale), tanto più accurata e continua diventa la lettura dei quotidiani. Nell’aula delle riunioni siedono ancora «patetici» militanti che portano nella tasca della giacca ben piegato il giornale del loro partito, residua testimonianza di una grande lotta per affermare pubblicamente la propria fede politica. Alla presidenza ogni dirigente tiene il suo fascio enciclopedico di giornali, sempre nobilitato dal giallino tecnocratico del «Sole - 24 ore» e settimanalmente ravvivato dai colori del rotocalco che riporta le audaci dichiarazioni dei nemici-amici. Talvolta, con un brivido rispettoso, si scorge alla presidenza il titolo esotico di un quotidiano anglo-francese (al tedesco non ci siamo ancora). Ma è proprio con i giornali che colloquia il nuovo sindacalista più che con le persone che gli siedono in faccia (a queste «rivolge la parola»).
Assorbito dalla futilità della comunicazione quoti
{p. 77}diana, ed escluso da momenti di formazione autentica, il sindacalista intermedio è impedito dall’accesso al libro «colto». Si è verificato un salto dall’epoca un po’ oscurantista del vecchio sindacalismo senza libri, a una fase in cui è acquistato solo il libro-dispensina, il libretto noioso (e mai letto) di documentazione, oppure il libro di riposo e di dispetto, tutte forme subalterne di lettura che riducono senza superarla la lettura «borghese» classica. La dimensione un po’ angosciosa dell’attivismo e la privazione del pensare aprono quindi la porta a modi di ragionare propri di una tradizione retorica, diffondendo conformismo e faciloneria.