Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c4
Assorbito dalla futilità della comunicazione quoti
{p. 77}diana, ed escluso da momenti di formazione autentica, il sindacalista intermedio è impedito dall’accesso al libro «colto». Si è verificato un salto dall’epoca un po’ oscurantista del vecchio sindacalismo senza libri, a una fase in cui è acquistato solo il libro-dispensina, il libretto noioso (e mai letto) di documentazione, oppure il libro di riposo e di dispetto, tutte forme subalterne di lettura che riducono senza superarla la lettura «borghese» classica. La dimensione un po’ angosciosa dell’attivismo e la privazione del pensare aprono quindi la porta a modi di ragionare propri di una tradizione retorica, diffondendo conformismo e faciloneria.
Se c’è stato un regresso evidente, esso concerne la crescente difficoltà del sindacalista a vedere e interpretare con precisione la realtà industriale e i meccanismi economici specifici su cui dovrebbe intervenire. Ossessionato dagli elzeviri di Napoleoni, Andreatta e Spaventa, veleggia nei discorsi macroeconomici, ma si deve ridurre a «fingere» di applicare la parte dei contratti sugli investimenti. Crede di improvvisare, ma non fa altro che riprodurre i modellini di una cultura politica «ad effetto», che quotidianamente produce una nuova sensazione per ammazzarne un’altra. La stagione dello spirito di ricerca prodotta dalle contraddizioni che l’impulso del movimento immetteva nell’azione sindacale, lascia il passo nuovamente a un atteggiamento deduttivo. La critica al sociologismo e allo psicologismo (o alle curiosità tecnocratiche) che in astratto coglie deviazioni e parzialità del pensiero, è un alibi per rimestare una finta scienza complessiva sempre evocata, ma mai praticata perché sconosciuta.{p. 78}

6. Costi e vantaggi privati

L’élite sindacale fronteggia i disagi umani e politici attraverso gratificazioni di vario tipo. Nella fascia superiore (i cinquecento) ha vissuto un rapido processo di promozione sociale. Fa parte organica dell’élite del potere, è blandita dai circoli intellettuali, rispettata pubblicamente dall’ambiente manageriale.
Anche nei gradi inferiori non manca un nuovo prestigio sociale: non c’è occasione di vita collettiva che possa escludere la presenza del sindacalista. La relativa tranquillità della posizione professionale accentua la sicurezza; c’è poi la gratificazione del «contare», del comandare, del sentirsi utili. A livello intermedio, il rapporto affettivo con gli attivisti, la dimensione personale del coinvolgimento, lo svilupparsi di una confidenza amichevole sono altre note positive dell’esperienza sindacale. Ma non sempre l’equilibrio vantaggi-costi risulta positivo.
L’insieme dell’apparato sindacale paga personalmente il logoramento dell’attivismo, la violenta occupazione della dimensione interiore e affettiva da parte della professione. Non è facile tollerare lo stillicidio di aggressività e competizione che pervade le giornate. Nei quadri di zona, particolarmente quando l’euforia della dedizione totale al lavoro viene spezzata dai traumi tipici di ogni esistenza, si manifestano pesanti involuzioni depressive, compaiono atteggiamenti maniacali di riequilibrio e le tensioni si riversano sulle persone vicine o coincidono con la malattia e il precoce invecchiamento.
La professione sindacale è troppo poco formalizzata, è troppo coinvolgente per consentire un isolamento dell’interiorità, ma nel contempo non lascia spa{p. 79}zio allo sviluppo adeguato dei bisogni interiori. L’allargarsi dell’istituzione recide e allenta le relazioni amicali e solidaristiche che difendono e ravvivano: lasciate al caso e non pensate come aspetti cruciali del lavoro sindacale, declinano e impoveriscono. L’assenza di una cultura operaia alternativa (e forse la sua non possibilità di esistere) fa sì che il quadro sindacale sia partecipe nei gusti, nei costumi e nei consumi della cultura industriale di massa. Il fenomeno è in sé interessante perché, mescolando il militante alla dimensione ricca e contraddittoria della «gente», gli fornisce capacità di lettura e di comunicazione. Purché il sindacato abbia quel minimo di dimensione comunitaria e specifica che inserisca dei momenti di alternatività e di distacco critico: ma gli aspetti comunitari sono esili e trascurati. Di qui la particolare fruizione del tempo libero operata dal sindacalista; tempo di riposo per riprendere il lavoro, compenso coatto alle persone che gli sono vicine e che sono escluse dai suoi interessi, evasione per «ricaricarsi».
L’aspetto preoccupante di questa vita privata modellata sulle norme prevalenti nella società è il suo uso subalterno al lavoro, il fatto che essa sostiene (male e spesso con infelicità) gli aspetti ossessivi della professione. Non rappresenta quasi mai una riserva di coscienza e interiorità, bensì una perpetua vigilia dell’attivismo. Sarebbe davvero schematico criticare l’andare a vedere le partite, o il consumo televisivo o un certo modo di fare le ferie. Al contrario si tratta di occasioni di partecipazione alla vita collettiva potenzialmente assai ricche purché intorno ad esse e dentro il protagonista ci sia riflessione e originalità personale. Questo almeno per chi ambisce vedere nel lavoro sindacale un significato di critica e di positiva trasformazione del sociale.{p. 80}

7. I rapporti tra i sindacalisti

Il sindacato si distingue dalle tipiche organizzazioni aziendali tra l’altro per l’intensità con cui lo schema gerarchico viene «corretto» sia dall’importanza delle relazioni informali (personali e non di ruolo) sia da una certa solidarietà di gruppo. I sindacalisti instaurano delle relazioni che sfuggono alla formalizzazione e vivono con i «colleghi» un rapporto confidenziale legittimato dai comuni ideali: di qui un livello di interessamento ai casi personali di ciascuno che può suonare sia come controllo sociale sia come solidarietà.
Naturalmente l’estendersi degli apparati sindacali ha raffreddato i circuiti interpersonali e inevitabilmente i termini «compagno» o «amico» significano qualcosa di quotidiano soltanto all’interno di una categoria, di una zona, di una sede d’uffici. Non sono previste infatti occasioni di incontro capaci di affiancare alla funzione politica quella di reciproca conoscenza. Questi vuoti trovano una parziale spiegazione nell’ideologia dominante nel sindacato: si è infatti ritenuto che il sindacato per il solo fatto di avere finalità di classe potesse risultare esente dai meccanismi di burocratizzazione che agiscono nelle organizzazioni produttive e amministrative. Questo strano atteggiamento idealistico, tanto diffuso tra studiosi materialisti delle società, è analogo a quello imperante nei partiti di classe, quando assumono «realisticamente» la logica dell’efficienza organizzativa (o presupposta tale), illudendosi di dominarla in ragione dei loro scopi politici. Ecco, ad esempio, il vecchio problema della competitività affliggere l’apparato sindacale senza poter essere svelato e riconosciuto come tale.
L’assenza sostanziale della collegialità, l’elevatis{p. 81}sima importanza dei simboli gerarchici, il vago sapore militare dei titoli (segretario generale, responsabile, aggiunto, ecc.) pesano tanto più quanto l’apparato si estende, l’attivismo cresce e ciascuno si trova confinato a operare distante dagli altri, senza occasioni di confronto quotidiano e informale. Così il sindacalista è combattuto tra un’immagine ideale (spesso intensamente vissuta) che parla di condivisione e solidarietà e forti tensioni competitive, situazioni concrete di dominio e di subordinazione. Ma un sindacato che si organizza secondo valori gerarchici e burocratici, addirittura messi in discussione in molte sedi aziendali, che non dà prova di innovazione su questo piano, come può parlare sul serio di nuova organizzazione, del lavoro di gruppo, di critica all’autoritarismo? Personalità pienamente adattate a uno schema gerarchico rigido, come possono essere agenti di cambiamento? Siamo nella sfera dell’inautenticità. Esistono ovviamente difese ideologiche ad affrontare questi problemi altrimenti che come divertimenti: un virile antipsicologismo impedisce ai «condottieri sindacali», che pure avvertono queste cose, di occuparsene distraendosi dalle grandi questioni politiche o economiche.
In tal modo vengono a mancare nel sindacato sedi e situazioni dove gli «amici» e i «compagni» possono verificare insieme le ragioni del loro lavoro, possono analizzare con naturalezza le relazioni reciproche e quelle tra la propria personalità e il ruolo che è chiamata a svolgere. Ma se si vuole far parte di una sia pur modesta élite del potere, sembra obbligatorio lasciare alle spalle tutte queste sciocchezze psicologiche, limitandosi a viverle sotto forma di turbamento prima nel tempo libero, poi nei memoriali della terza età.
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