Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c3
La crisi del sindacato, di cui ho sottolineato un
¶{p. 52}aspetto marginale, ha già trovato molte spiegazioni politiche. C’è chi ha visto l’inevitabile ridimensionamento di un sindacalismo autosufficiente, ma non in grado di uscire dai limiti della rivendicazione pura e semplice. La classe politica nel suo insieme avrebbe ripreso le redini, utilizzando il forte consenso di massima intorno alle caratteristiche fondamentali del sistema, che anche le consultazioni elettorali hanno confermato. Altri hanno ravvisato le cause del declino di forza contrattuale nella gravità della crisi e nell’arresto dello sviluppo. Altri ancora hanno puntato il dito su ragioni interne di sfaldamento, sui limiti della democrazia sindacale, e sulla divisione tra dirigenti che credono nell’autonomia sindacale e dirigenti che comunque ritengono di subordinare l’azione agli esiti del quadro politico-istituzionale. Da qualunque parte si muova, l’analisi non può che concludersi ricordando come sia inevitabile che in una organizzazione in difficoltà si manifestino divisioni più accentuate, spinte alla successione, congiure, collegamenti esterni.
È molto ragionevole, forse anche un po’ ragionieristico, riflettere «politicamente»: è tuttavia possibile affiancare a quelle analisi alcune riflessioni intorno alle caratteristiche specifiche della crisi nella vita interna, se non vogliamo ridurre la vicenda sindacale a una altalena di successi e insuccessi dovuti a scelte indovinate o a errori, oppure a un imperscrutabile piano che sempre ti sconfiggerà fino a che non sarà scientificamente conosciuto. In particolare la difficoltà che incontra il sindacalismo italiano a restare un agente di cambiamento sociale, dipende anche dal fatto che al dunque il lealismo e la tenuta consapevole della sua base sono messi alla prova da altri lealismi: non solo quello ovvio ai partiti ma anche quello ai valori di fondo della civilizzazione ¶{p. 53}industriale capitalistica. Non deve stupire questa contraddizione: il sindacato di massa non è una scelta che vuole totalitariamente orientare le personalità e la cultura degli aderenti, ed esso stesso si muove per sua natura ambiguamente sempre sulla frontiera tra critica e sostegno del sistema. Il contenuto dell’adesione al sindacato appare relativamente modesto e non sempre all’altezza delle difficoltà quando il sindacato si muove in una condizione di sostanziale isolamento politico. Può allora apparire che dietro la relativa debolezza dell’adesione (intesa qui come consenso attivo e scelta influente sulla dimensione stessa della vita personale) stia uno squilibrio tra la sollecitazione che il messaggio sindacale fa in direzione della lotta contro un nemico e quella, ormai ridotta, in direzione di atteggiamenti ricostruttivi interni alla solidarietà dei lavoratori.
4. L’aggressività non trova i nemici e rifluisce nel movimento
Il sindacato lavora ovviamente sull’aggressività, tenta di trasferirla su obiettivi esterni alla classe e definibili politicamente, tenta di metterla al servizio di una strategia che si presume di liberazione, la organizza in una disciplina.
Il linguaggio sindacale è rivelatore di questa operazione quando si rifà a formule militari (armare o disarmare le masse, strategia d’attacco, conquista, tenere duro, dividere l’avversario, perdere terreno, indirizzare lo scontro): lo stesso modello a cui i dirigenti si volgono è sovente guerresco e gran parte del pathos che avvolge e interpreta le figure dei militanti sa di guerra. Esperienze materiali di sofferenza e di contrapposizione lo giustificano. Anche l’ossessivo richiamo alla lotta, quando la lotta in ¶{p. 54}effetti non c’è, ha un significato pedagogico, e cerca di dimostrare ai lavoratori come l’ordine apparente della fabbrica e del sistema cela una tendenza effettiva ad asservire, opprimere e sfruttare. Sarebbe troppo facile a questo punto utilizzare l’analogia con i meccanismi militari per riportare nel sindacato le famose ipotesi di Durkheim sugli esiti interni dell’aggressività nel mondo militare quando non c’è la guerra o il nemico è troppo distante.
È però abbastanza evidente come la valorizzazione degli elementi di scontro rispetto a quelli solidaristici, di emancipazione e di crescita delle personalità e dei gruppi segna pesantemente la nostra esperienza. Probabilmente il sindacalismo arcaico delle leghe o quello sorto da sottoculture operaie poteva nutrirsi, proprio in ragione della sua debolezza e della sua emarginazione culturale, di più ricche linfe comunitarie. Uscito in campo aperto e profondamente mescolato alle esperienze culturali della società industriale si riduce maggiormente alla dimensione aggressiva.
Ma come può procedere a lungo senza pervenire mai, come è nel destino del sindacato moderno, a una battaglia decisiva? Può organizzare milioni di uomini in una dimensione di conflittualità permanente, se non arricchisce su altri versanti le ragioni positive della loro adesione? Ho l’impressione che qui si debbano fare i conti con le tradizioni prevalenti nel nostro sindacalismo. Mi riferisco anzitutto alla cultura marxista, nella sua dimensione operativa e vissuta dai quadri intermedi del movimento.
La «Volgata» marxista interviene a organizzare in termini di lotta e di aggressività politica gli elementi di solidarietà comunque presenti nei gruppi di oppressi che hanno un minimo di identificazione comune. Individuando alcune cause dell’oppres¶{p. 55}sione, definendo gli interessi ostili e quindi gli avversari di classe, esplicita il fatto che il conflitto già esiste, e trasferisce le energie aggressive dalla dimensione privata o dalla competizione tra gli oppressi a una strategia di lotta politica. A livello teorico si postula una lotta contro i ruoli oppressivi, ma l’esperienza pratica ovviamente personalizza il nemico (quel capo, quel padrone, quel dirigente, quel ministro, ecc.) anche se il reintervento della riflessione politica tenta di riportare l’attenzione sui meccanismi sociali. Le organizzazioni di classe si strutturano su queste funzioni di lotta e di gestione dell’aggressività; non ignorano certo gli elementi solidaristici, ma li vogliono funzionali alla loro crescita in una dimensione di «economia di guerra».
Siamo ormai lontani dallo spirito di predicazione del primo socialismo e dai sogni di costruire un mondo separato e buono. Ma il superamento di quelle ingenuità ha indubbiamente impoverito l’interesse a considerare vari aspetti «sovrastrutturali» delle personalità coinvolte nel conflitto e nella costruzione dell’organizzazione. Gli elementi di coinvolgimento positivo sono riservati ai professionisti dell’organizzazione. Questa esaltazione dell’aggressività e degli elementi militari nella vicenda della classe, questa tendenza a sottovalutare come psicologismi o misticismi reazionari le questioni di rapporto umano e di formazione delle personalità, si affiancano nella Volgata marxista a uno storicismo teologico, inteso come richiamo costante a grandi spiegazioni storiche, che rendono deviante ogni attenzione a meccanismi di comportamento che non sempre possono armoniosamente essere dedotti dalle diverse fasi storiche, o dalle modificazioni della «struttura». Salvo poi accorgerci che, dietro questa negazione apparentemente storicistica, i compagni utilizzano inconsapevol¶{p. 56}mente definizioni dell’Uomo e valori propri della civilizzazione industriale capitalistica: basti pensare alle incertezze e alle ovvietà che li affliggono quando avvertono l’urgenza di discorrere di «nuova morale».
Questa impressione critica non vuole riproporre qui la riflessione sull’uomo separata dalla storia sociale che è stata propria di gran parte del cattolicesimo moderno (anche se da tempo radicalmente in via di ridiscussione): è facile infatti individuare la funzione conservatrice e di rassegnazione che essa svolgeva, come la svolgeva e la svolge ogni diniego della violenza che definisca quest’ultima principalmente come disturbo dell’ordine costituito. E tuttavia, l’aver sempre incluso i problemi di modificazione delle personalità e dei loro comportamenti quotidiani nella dimensione collettiva dell’azione politica, è stato un modo per non definire più compiutamente i termini del cambiamento di vita che con la lotta si intende produrre.
Tornando al sindacato, la logica del nemico ha dovuto fronteggiare una situazione che richiedeva definizioni sempre più sofisticate e impersonali dell’avversario, ed è stata ovviamente frenata dal costume negoziale che induce a ritenere il nemico non annullabile e anzi finisce per instaurare regole di gioco comuni e anche interessi comuni. Le ansie di liberazione immediata si sono ridimensionate e con esse la carica di aggressività contro chi si presumeva ostacolare questa liberazione. A questo punto l’aggressività sembra rifluire nel movimento, anche perché essa continua a essere evocata e valorizzata da un’organizzazione che si è specializzata nell’utilizzarla. Ecco allora comparire i nuovi nemici, le opinioni diventano «posizioni», i mutamenti di orientamento sono tradimenti, gli stessi lavoratori considerati fino
¶{p. 57}a ieri portavoce, ancorché inconsapevoli, della linea appaiono soggetti da emendare e correggere. C’è l’aggressività tra dirigenti ed attivisti di cui si è detto e c’è anche un’asprezza nuova nel considerare i comportamenti della base.