Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c2
Non a caso abbiamo visto che proprio il quadro intermedio nelle fabbriche e nelle zone (il leader che fa opinione) è il destinatario principale dei messaggi di massa che i dirigenti sindacali nazionali filtrano attraverso i giornali, la radio, la TV. L’élite sindacale, nel suo complesso, attraversa peraltro un momento di transizione culturale: finiti i tempi dell’opposizione clandestina e dell’emarginazione, si trova ad essere legittimata e almeno apparentemente
{p. 43}detentrice di responsabilità decisive. Sia pure in funzione prevalente di opposizione o di controllo, l’élite sindacale fa parte a pieno titolo del gruppo dirigente del sistema politico. A questo punto si manifestano al suo interno due atteggiamenti contrastanti: un certo numero di sindacalisti pensa alla necessità di definire in modo più istituzionale e chiaro il proprio compito, delineando in qualche misura i confini dell’azione sindacale rispetto all’orizzonte partitico-istituzionale, mettendo la parola fine alla crescita tumultuosa del potere sindacale non solo nei confronti del padronato ma anche dentro il meccanismo delle decisioni politiche. Altri, invece, intendono perpetuare questa situazione non ancora istituzionalizzata, lavorando nei fatti perché l’azione sindacale continui ad avere influenza anche diretta sul sistema dei partiti e delle istituzioni rappresentative.
Generalmente questa divisione corrisponde a un’altra distinzione: fra quei sindacalisti che, pur militando in organizzazioni politiche, traggono la loro rappresentatività più direttamente dal movimento e si sono legittimati sulla base del loro ruolo sindacale, e i sindacalisti che, viceversa, traggono la loro rappresentatività prevalente dal fatto che sono espressione di un’area culturale o di un’area partitica. Talvolta può essere questa la chiave di interpretazione di numerosi scontri interni al sindacato. Fino a ieri sembrava che i dissensi decisivi fossero sulle priorità alternative da proporre nelle lotte: salario o occupazione?; difesa puntuale del posto di lavoro o lotta per la riconversione?; fabbrica o società?; prezzi o investimenti? Oggi, invece, appare chiaro che non è lì l’alternativa e, infatti, una volta stabilita la priorità della tematica occupazione-investimenti, la reale divisione si ripropone sul fatto se le lotte vadano orientate anche a obiettivi in{p. 44}termedi – e perciò a rivendicazioni – o se debbano consistere di agitazioni il cui scopo principale è influire indirettamente e senza dichiararlo con chiarezza sulla composizione del quadro politico. È evidente che i dirigenti e i militanti ancora dubbiosi su una normalizzazione istituzionale del sindacato si contrappongono a quanti ne favoriscono la definizione come istituzione garante di un vasto consenso su puri obiettivi di schieramento. Inutile dire che la crisi, restringendo lo spazio delle acquisizioni immediate, favorisce in un primo momento gli uomini dell’immagine e della mediazione. Anche se il loro successo, ove si consolidasse, precederebbe di poco la drastica riduzione del potere sindacale e, alla lunga, del consenso popolare.

9. Conclusioni: mestiere del sindacato, democrazia e cambiamento sociale

Non si può reagire al sindacalismo dell’immagine ricostruendo il mito della contrattazione, non più di quanto si riesca a battere i moderni mezzi di comunicazione di massa riesumando una grigia e patetica stampa operaia. Ma le stesse contraddizioni che sono state ricordate, pur non essendo immediatamente esplosive, impediscono una risposta rassegnata e burocratica. Per questo ogni giorno bisogna contrapporre pubblicamente e provocatoriamente a un sindacalismo dell’immagine, che ancora non ha vinto, quello che è stato definito il mestiere del sindacato: e cioè ricondurre puntigliosamente la linea alla comprensione e al controllo delle masse, legare il problema degli obiettivi al problema della democrazia, negando ogni astratta giustezza di obiettivo che non trovi verifica cosciente tra i lavoratori. Diciamo quindi sì a un sindacato politico ma, appunto, a un sin
dacato
, cioè a un’organizzazione di massa e di lotta fedele alla logica della rivendicazione e della negoziazione.
La più grande esperienza di crescita nella coscienza di massa nel dopoguerra ha percorso una strada dove l’ideologia, il messaggio generale, la politica non erano presupposti, bensì punti di arrivo. Il sindacalismo dell’immagine inverte questo processo e finisce per affidare ai lavoratori e anche ai militanti un ruolo esecutivo e di seguito. Esistono però capacità di libertà e di critica diffuse, che non sono destinate a spegnersi e su di esse si può costruire una uscita dal contrattualismo che non sia appunto il sindacalismo di opinione. Paradossalmente è infatti proprio il sindacalismo che vuole essere a tutti i costi generale – politico – onnicomprensivo, ad alimentare il pullulare dei corporativismi sul terreno di quelle istanze concrete che non si sanno più cogliere e di cui non si intende discutere con i lavoratori. È così che sono a volte proprio le Confederazioni a chiudere un ciclo di discorsi nobili e complessivi con modesti accordi-stralcio che tamponano esigenze settoriali con anticipi e acconti, secondo la più esemplare logica corporativa e microsalarialista.
Neppure è in discussione il fatto che i riti siano necessari e ineliminabili, che ci sia bisogno nel movimento di forme di riconoscimento collettivo che si dà appunto attraverso comportamenti formalizzati, anche nella lotta. Va però posta in discussione la funzione dei riti rispetto al diffondersi o meno della comprensione e del controllo dal basso. Alla distanza, ad esempio, una grande manifestazione come quella di Napoli appare un’iniziativa di evasione quasi quanto il convegno meridionalista che l’ha preceduta. In realtà, il rischio peggiore di un sinda{p. 46}calismo dell’immagine è quello di farci trovare del tutto impreparati rispetto a qualunque fase di cambiamento sociale in cui anche alla base verrebbero necessariamente imposti sacrifici nuovi e gravosi. Una base tenuta insieme da un consenso passivo, una base che non conta, difficilmente può produrre sacrifici anche per le cause più decisive. Eppure la storia recente del sindacato è stata anche la storia della dedizione e dell’altruismo di decine di migliaia di delegati e di attivisti.
Se, invece, rispetto allo Stato e alle istituzioni sociali si fa una proposta non di cambiamento ma prevalentemente di «occupazione» e di sostituzione del gruppo dirigente, riproponendo una delega rigida alla gente, limitandosi a sollecitare da essa una domanda di direzione, si è contemporaneamente pessimisti rispetto alla capacità della gente di capire e ottimisti rispetto al suo impegno quando le si è proposto fino a oggi il puro consenso. C’è, forse, questa concezione «neoautoritaria» dietro le tante preclusioni di principio e non di merito che hanno trovato quelle esperienze di autoriduzione e di autogestione che il sindacalismo prevalente tiene lontane dalla propria immagine, nel timore che risulti più aggressiva e meno canonica? Naturalmente, se si riuscisse a discuterne senza stabilire prima chi sono gli eretici e chi gli ortodossi, ci si metterebbe meno facilmente d’accordo, ma quell’accordo assomiglierebbe sul serio all’unità sindacale.
Note