Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/p1
Quello di Declinare crescendo è, come ho già detto, un tempo di mezzo e cioè di raffreddamento delle speranze, che mettono in discussione l’identificazione collettiva e la solidarietà vissuta in precedenza. Le tappe di questo insidioso declino sono, per Manghi, la cultura di massa sindacale, i tratti del mestiere, le insorgenze autoritarie, il peso determinante delle ideologie volgarizzate. In quel momento, dirà poi, «eravamo sull’Everest come accreditamento, potere, popolarità». Esattamente dieci anni dopo Declinare crescendo, nella premessa indirizzata al lettore di Passaggio senza riti [15]
, al proposito aggiunse che come «allora era parso ad alcuno che tuttavia quel potere così temuto ed applaudito celasse i segni di un declino e che tale declino non sarebbe banalmente derivato da un ciclo economico sfavorevole, bensì da una perdita di senso dell’esperienza, da motivi interni (oserei dire interiori...)».
{p. 11}
Forse per bizzarria di temperamento o forse, e più probabilmente, per naturale inclinazione all’ottimismo e alla razionalità pratica, Manghi, comunque, era riuscito subito a vedere una luce in fondo al tunnel che compariva sul percorso fino ad allora ascensionale del sindacato italiano e di lì a proiettare lo sguardo in avanti verso una possibile svolta; certo un po’ utopica, ma alla portata di chi fosse disposto, come per solito accade nelle organizzazioni più numerose ed eterogenee per appartenenze, «alle verifiche e alla ricerca» (p. 10).
Su questa inclinazione alla ricerca Manghi tornerà spesso, negli anni, anche nel tempo a noi più vicino, perché nel suo modo di vedere le cose la questione è legata sì al diffondere la conoscenza e metterla in circolazione, ma è anche intrecciata al fatto che il sapere, non avendo padrone (e così seguendo la lezione di Carniti), passa attraverso il rispetto della diversità, che serve al proprio arricchimento e all’eventuale sempre possibile cambiamento di posizione. In ogni caso la conoscenza ha valore inestimabile e il sindacato deve andare prima di tutto «alla ricerca del sapere». Al proposito, mi limito a constatare la consonanza di vedute sul punto con la migliore dottrina giuslavoristica del tempo [16]
.
Le note che compongono il libro, come chiarisce Manghi in conclusione della breve introduzione, sono state scritte in momenti diversi, e sono legate ad occasioni particolari della sua vita sindacale. I sei capitoli che seguono l’introduzione, alcuni dei quali già pubblicati prima della raccolta nel libro, sono costruiti intorno ad altrettante tesi: lo spirito della negoziazione, il sindacalismo dell’immagine, l’aggressività del sindacato: sentimenti di morte ed eclisse della solidarietà, l’ex organizzatore sindacale: la figura sociale del sindacalista ’70, l’autocrate libertario: la {p. 12}democrazia interna nel sindacato, lo spirito dell’autogestione.
Il primo capitolo tematizza il declino dello «spirito della negoziazione» e illustra il filo rosso che tiene insieme il volume e giunge fino all’ultimo capitolo, intitolato appunto «lo spirito dell’autogestione». Se la tensione sovvertitrice delle regole del gioco ha comportato negli anni del post-Costituzione un allargarsi nella vita sociale del paese dei conflitti espliciti [17]
, lo spirito negoziale del sindacato ha messo in discussione le concezioni corporative della società per avanzare verso il basso specializzandosi e penetrando nel tessuto produttivo. L’espandersi dello spirito negoziale – è questo il succo del discorso di Manghi – vive invece in quella fase un rallentamento che impedisce al sindacato di progredire. Questa è la ragione principale per cui l’analisi dei capitoli che seguono il primo si concentra su alcuni aspetti del funzionamento interno del sindacato «che, non casualmente, viene così poco discusso nei dibattiti tra dirigenti», alla ricerca di un nuovo spirito.
Il secondo e il terzo capitolo, già pubblicati rispettivamente su Prospettive sindacali, la rivista della Cisl, e su Inchiesta, la rivista di Vittorio Capecchi, riguardano due primi aspetti specifici del declino.
Per un verso, con sguardo anticipatore di andamenti non ancora placati e anzi direi semmai cresciuti, il nostro osserva la progressiva prevalenza nel mondo sindacale della funzione di costruzione e diffusione di “immagini” che prevale largamente sulla funzione di elaborazione e conseguimento di rivendicazioni: «non sono più le pratiche quotidiane il fondamento del consenso, ma l’adesione a immagini generali e strategiche non verificabili dai singoli» (p. 26). Se questa tendenza si affermasse – preconizza Manghi – ci troveremmo «nella strana condizione di {p. 13}un conflitto sindacale che fa fatica a trovare la controparte decisiva e talvolta perde per strada addirittura l’oggetto del contendere, ma che continua a manifestarsi con tutte le forme proprie del conflitto, a partire dagli scioperi, dalle manifestazioni, dalle occupazioni» (p. 35). A testimonianza dell’interesse suscitato dal libretto vale sottolineare come molti, nell’immediatezza della pubblicazione, abbiano avvertito il bisogno di prendere posizione sulle tesi in esso contenute. Come del resto accade ancora oggi [18]
. Ma forse non è un caso che una posizione eterodossa come questa sia stata da subito oggetto di critica da parte di quelli de l’Unità [19]
, con l’argomento che l’analisi di Manghi, all’apparenza demistificatrice, avrebbe finito in realtà per collocarsi addirittura su un versante conservatore, posto che «nella realtà italiana è impensabile un ritorno pacifico graduale ad una pratica tradunionista».
Per altro verso, nel terzo capitolo, Manghi affronta il tema della aggressività concentrandosi sulla vita interna nel sindacato, segnata in quella fase da un clima di scontro che coinvolge sia i militanti più impegnati che i gruppi dirigenti. Ciò che c’è di nuovo, a parere del nostro è soprattutto l’indebolimento dei legami solidaristici. Questo indebolirsi delle logiche di solidarietà coincide con il manifestarsi di tensioni, «di violenze minute ma significative per che hanno per oggetto colui con il quale fino a ieri ci si identificava» (p. 51). Quella fase – a parere di Manghi – corrisponde alle difficoltà che il sindacalismo italiano incontra a «restare un agente di cambiamento sociale»: l’dea che prima di tutto venga il nemico è tipica di un’or{p. 14}ganizzazione che perde alternatività e non è più capace di cogliere e coltivare i fenomeni di solidarietà positiva tesi a soddisfare i bisogni di liberazione.
Ricordiamoci che eravamo in quel momento proprio alle soglie di un passaggio storico cruciale. Come ovvio, si tratta di profili che non è possibile approfondire in questa sede. Vale però la pena ricordare che solo un anno dopo, nel 1978, Alessandro Pizzorno proverà ad abbozzare una lettura del terrorismo italiano come effetto di una certa intensità della lotta di classe [20]
. In estrema sintesi – così ipotizzò uno dei nostri maggiori sociologi – nei periodi di conflittualità diffusa si può osservare un “eccesso di militanza, fenomeno che nel paese fatica a trovare alveo politico nel quale incanalare la sua energia. Di lì a poco nel solco di questa ipotesi Federico Mancini proporrà – proprio nella collana Universale Paperbacks de il Mulino (UPM 120) ove compare Declinare crescendo [21]
– una riflessione composita sul rapporto tra terrorismo e riformismo. Del resto, nonostante tutto, il tema del rapporto tra violenza e sindacato rimane ancora oggi tema di attualità, al quale potrebbe dedicarsi con profitto qualche studioso o studiosa delle generazioni più giovani.
Il quarto capitolo di Declinare crescendo è dedicato invece alla figura sociale del sindacalista anni ’70 e riprende il tema della conoscenza, della sperimentazione e della ricerca sindacale lanciato con l’introduzione. In questo caso, Manghi ci propone una riflessione sulla graduale eclisse della tensione organizzativa. Al di là dei numeri dell’apparato, che allora arrivava a qualche migliaio di persone e oggi si è decuplicato, il nodo sono – e restano – i rapporti tra i livelli: nel racconto di Manghi il gioco dei livelli gerarchici si complica e la stratificazione interna va producendo conflitti tra apparati di categorie diverse o tra orizzontale e categoria o tra centro e periferia. {p. 15}
«Tra le cause (o i sintomi) di questa forma organizzativa autocratica sta la centralizzazione del pensare sindacale e il progressivo annullamento delle fonti di invenzione e di elaborazione decentrate» (così a p. 73). Del resto, come ha ricordato di recente Luca Nogler, «nella seconda metà degli anni Settanta, un decennio piuttosto sinistro, tutte e tre le confederazioni si concepivano ormai come sindacati di difesa degli interessi di una classe nei confronti delle altre classi e come parte perciò di uno “schieramento compatto a livello sindacale”» [22]
.
Se c’è stato un regresso evidente – conclude così Manghi – concerne la difficoltà del sindacalista a vedere e interpretare con precisione la realtà industriale e i meccanismi economici specifici sui cui dovrebbe intervenire. Anche in questo caso, come nei capitoli precedenti, la tesi esposta si chiude con un auspicio costruttivo: l’organizzazione richiede gerarchia e la gerarchia tende a produrre sempre una élite stabilizzata, certo. Ma per ottenere una modificazione della funzione dirigente verso l’uguaglianza occorre agire tanto sul piano dei meccanismi formali di democrazia e autogoverno sindacale come sui profili informali e sociali dell’ambiente sindacale stesso.
È questo lo spirito che porterà Manghi a mantenere sempre tra l’altro posizioni critiche nei confronti dell’intervento statale sul sindacato e a respingere con forza tutte le seduzioni positivistiche, talvolta anche assumendo posizioni in apparenza difficili [23]
. E al proposito, sul fronte giuslavorista, penso valga salutare molto positivamente, dopo anni di silenzio, la rinnovata attenzione sulle modalità e sulle tecniche di bilanciamento e contemperamento concreto tra principi gerarchici, connaturati all’esigenza di stabilità coesione e unità interna del nostro sindacato (che trovano protezione nella dimensione collettiva della libertà
{p. 16}sindacale), e il diritto di partecipazione, scelta e controllo degli associati [24]
.
Note
[15] Manghi, Passaggio senza riti, Roma: Edizioni Lavoro, 1987 e qui p. 9.
[16] Per tutti Giugni, Sindacato: anni 70, in Economia e lavoro, 1972, n. 2, p. 169, anche in Giugni, Il sindacato tra contratti e riforme (1969-1973), Bari: De Donato, 1973, p. 101 ss. da cui cito e qui pp. 115-116.
[17] E con l’allargamento del conflitto, poi, anche le teorizzazioni della “conflittualità permanente”: cfr. Gli anni della conflittualità permanente. Rapporto sulle relazioni industriali in Italia, 1970-1971, Milano: Franco Angeli, 1976.
[18] V. per esempio Feltrin, Il fenomeno sindacale nell’Italia contemporanea: declino “politico” e ascesa “di mercato”, in Quad. Rass. Sind., 2015, 16, 4, p. 173. Ma anche Berrini, «Declinare crescendo o crescere cambiando?». Il sindacato e la scelta partecipativa, Roma: Edizioni Lavoro, 2017.
[19] L’articolo che recensisce Declinare crescendo in termini sostanzialmente negativi e da cui è tratto il virgolettato del testo è pubblicato su l’Unità del 2 novembre 1977 a firma di Stefano Cingolani. Di opposto tenore è invece il commento/recensione a firma del politologo Giorgio Galli comparso su Repubblica il giorno 11 ottobre 1978. Più neutra la recensione in Avanti! del 11 novembre 1977 a firma di Stefano Ajo.
[20] A. Pizzorno, Intervento nella tavola rotonda sul tema pubblicata da Mondoperaio, n. 4, 1978, 7.
[21] Mancini, Terroristi e riformisti, cit. e qui almeno i saggi I sindacati e il terrorismo e Laicismo e conflitto nella vecchia Cisl.
[22] Nogler, Statuto dei lavoratori e ideologia del nuovo sindacato, in Costituzionalismo.it – (n. 1) – 2020.
[23] Vedi per esempio l’incontro/scontro con F. Mancini in Progetto n1 gennaio/febbraio 1981 sul tema del referendum.
[24] Mi riferisco all’opera monografica di Cristofolini, Profili organizzativi e trasparenza finanziaria dei sindacati rappresentativi. Uno studio comparato, Milano: Franco Angeli, 2021 e alla proposta ivi contenuta, spec. 261 e ss.