Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/p1
Quello di Declinare
crescendo è, come ho già detto, un tempo di mezzo e cioè di raffreddamento
delle speranze, che mettono in discussione l’identificazione collettiva e la
solidarietà vissuta in precedenza. Le tappe di questo insidioso declino sono, per
Manghi, la cultura di massa sindacale, i tratti del mestiere, le insorgenze
autoritarie, il peso determinante delle ideologie volgarizzate. In quel momento,
dirà poi, «eravamo sull’Everest come accreditamento, potere, popolarità».
Esattamente dieci anni dopo Declinare crescendo, nella premessa indirizzata
al lettore di Passaggio senza riti
[15]
,
al proposito aggiunse che come «allora era parso ad alcuno che tuttavia quel potere
così temuto ed applaudito celasse i segni di un declino e che tale declino non
sarebbe banalmente derivato da un ciclo economico sfavorevole, bensì da una perdita
di senso dell’esperienza, da motivi interni (oserei dire interiori...)».
¶{p. 11}
Forse per bizzarria di
temperamento o forse, e più probabilmente, per naturale inclinazione all’ottimismo e
alla razionalità pratica, Manghi, comunque, era riuscito subito a vedere una luce in
fondo al tunnel che compariva sul percorso fino ad allora ascensionale del sindacato
italiano e di lì a proiettare lo sguardo in avanti verso una possibile svolta; certo
un po’ utopica, ma alla portata di chi fosse disposto, come per solito accade nelle
organizzazioni più numerose ed eterogenee per appartenenze, «alle verifiche e alla
ricerca» (p. 10).
Su questa inclinazione
alla ricerca Manghi tornerà spesso, negli anni, anche nel tempo a noi più vicino,
perché nel suo modo di vedere le cose la questione è legata sì al diffondere la
conoscenza e metterla in circolazione, ma è anche intrecciata al fatto che il
sapere, non avendo padrone (e così seguendo la lezione di Carniti), passa attraverso
il rispetto della diversità, che serve al proprio arricchimento e all’eventuale
sempre possibile cambiamento di posizione. In ogni caso la conoscenza ha valore
inestimabile e il sindacato deve andare prima di tutto «alla ricerca del sapere». Al
proposito, mi limito a constatare la consonanza di vedute sul punto con la migliore
dottrina giuslavoristica del tempo
[16]
.
Le note che compongono
il libro, come chiarisce Manghi in conclusione della breve introduzione, sono state
scritte in momenti diversi, e sono legate ad occasioni particolari della sua vita
sindacale. I sei capitoli che seguono l’introduzione, alcuni dei quali già
pubblicati prima della raccolta nel libro, sono costruiti intorno ad altrettante
tesi: lo spirito della negoziazione, il sindacalismo dell’immagine, l’aggressività
del sindacato: sentimenti di morte ed eclisse della solidarietà, l’ex organizzatore
sindacale: la figura sociale del sindacalista ’70, l’autocrate libertario: la ¶{p. 12}democrazia interna nel sindacato, lo spirito
dell’autogestione.
Il primo capitolo
tematizza il declino dello «spirito della negoziazione» e illustra il filo rosso che
tiene insieme il volume e giunge fino all’ultimo capitolo, intitolato appunto «lo
spirito dell’autogestione». Se la tensione sovvertitrice delle regole del gioco ha
comportato negli anni del post-Costituzione un allargarsi nella vita sociale del
paese dei conflitti espliciti
[17]
, lo spirito
negoziale del sindacato ha messo in discussione le concezioni corporative della
società per avanzare verso il basso specializzandosi e penetrando nel tessuto
produttivo. L’espandersi dello spirito negoziale – è questo il succo del discorso di
Manghi – vive invece in quella fase un rallentamento che impedisce al sindacato di
progredire. Questa è la ragione principale per cui l’analisi dei capitoli che
seguono il primo si concentra su alcuni aspetti del funzionamento interno del
sindacato «che, non casualmente, viene così poco discusso nei dibattiti tra
dirigenti», alla ricerca di un nuovo spirito.
Il secondo e il terzo
capitolo, già pubblicati rispettivamente su Prospettive sindacali, la rivista
della Cisl, e su Inchiesta, la rivista di Vittorio Capecchi, riguardano due
primi aspetti specifici del declino.
Per un verso, con
sguardo anticipatore di andamenti non ancora placati e anzi direi semmai cresciuti,
il nostro osserva la progressiva prevalenza nel mondo sindacale della funzione di
costruzione e diffusione di “immagini” che prevale largamente sulla funzione di
elaborazione e conseguimento di rivendicazioni: «non sono più le pratiche quotidiane
il fondamento del consenso, ma l’adesione a immagini generali e strategiche non
verificabili dai singoli» (p. 26). Se questa tendenza si affermasse – preconizza
Manghi – ci troveremmo «nella strana condizione di ¶{p. 13}un conflitto sindacale che fa fatica a trovare la controparte
decisiva e talvolta perde per strada addirittura l’oggetto del contendere, ma che
continua a manifestarsi con tutte le forme proprie del conflitto, a partire dagli
scioperi, dalle manifestazioni, dalle occupazioni» (p. 35). A testimonianza
dell’interesse suscitato dal libretto vale sottolineare come molti,
nell’immediatezza della pubblicazione, abbiano avvertito il bisogno di prendere
posizione sulle tesi in esso contenute. Come del resto accade ancora oggi
[18]
. Ma forse non è un caso che una posizione
eterodossa come questa sia stata da subito oggetto di critica da parte di quelli de
l’Unità
[19]
, con l’argomento che
l’analisi di Manghi, all’apparenza demistificatrice, avrebbe finito in realtà per
collocarsi addirittura su un versante conservatore, posto che «nella realtà italiana
è impensabile un ritorno pacifico graduale ad una pratica tradunionista».
Per altro verso, nel
terzo capitolo, Manghi affronta il tema della aggressività concentrandosi sulla vita
interna nel sindacato, segnata in quella fase da un clima di scontro che coinvolge
sia i militanti più impegnati che i gruppi dirigenti. Ciò che c’è di nuovo, a parere
del nostro è soprattutto l’indebolimento dei legami solidaristici. Questo
indebolirsi delle logiche di solidarietà coincide con il manifestarsi di tensioni,
«di violenze minute ma significative per che hanno per oggetto colui con il quale
fino a ieri ci si identificava» (p. 51). Quella fase – a parere di Manghi –
corrisponde alle difficoltà che il sindacalismo italiano incontra a «restare un
agente di cambiamento sociale»: l’dea che prima di tutto venga il nemico è tipica di
un’or¶{p. 14}ganizzazione che perde alternatività
e non è più capace di cogliere e coltivare i fenomeni di solidarietà positiva tesi a
soddisfare i bisogni di liberazione.
Ricordiamoci che
eravamo in quel momento proprio alle soglie di un passaggio storico cruciale. Come
ovvio, si tratta di profili che non è possibile approfondire in questa sede. Vale
però la pena ricordare che solo un anno dopo, nel 1978, Alessandro Pizzorno proverà
ad abbozzare una lettura del terrorismo italiano come effetto di una certa intensità
della lotta di classe
[20]
. In estrema sintesi –
così ipotizzò uno dei nostri maggiori sociologi – nei periodi di conflittualità
diffusa si può osservare un “eccesso di militanza”, fenomeno che nel paese
fatica a trovare alveo politico nel quale incanalare la sua energia. Di lì a poco
nel solco di questa ipotesi Federico Mancini proporrà – proprio nella collana
Universale Paperbacks de il Mulino (UPM 120) ove compare Declinare
crescendo
[21]
– una riflessione
composita sul rapporto tra terrorismo e riformismo. Del resto, nonostante tutto, il
tema del rapporto tra violenza e sindacato rimane ancora oggi tema di attualità, al
quale potrebbe dedicarsi con profitto qualche studioso o studiosa delle generazioni
più giovani.
Il quarto capitolo di
Declinare crescendo è dedicato invece alla figura sociale del
sindacalista anni ’70 e riprende il tema della conoscenza, della sperimentazione e
della ricerca sindacale lanciato con l’introduzione. In questo caso, Manghi ci
propone una riflessione sulla graduale eclisse della tensione organizzativa. Al di
là dei numeri dell’apparato, che allora arrivava a qualche migliaio di persone e
oggi si è decuplicato, il nodo sono – e restano – i rapporti tra i livelli: nel
racconto di Manghi il gioco dei livelli gerarchici si complica e la stratificazione
interna va producendo conflitti tra apparati di categorie diverse o tra orizzontale
e categoria o tra centro e periferia. ¶{p. 15}
«Tra le cause (o i
sintomi) di questa forma organizzativa autocratica sta la centralizzazione del
pensare sindacale e il progressivo annullamento delle fonti di invenzione e di
elaborazione decentrate» (così a p. 73). Del resto, come ha ricordato di recente
Luca Nogler, «nella seconda metà degli anni Settanta, un decennio piuttosto
sinistro, tutte e tre le confederazioni si concepivano ormai come sindacati di
difesa degli interessi di una classe nei confronti delle altre classi e come parte
perciò di uno “schieramento compatto a livello sindacale”»
[22]
.
Se c’è stato un
regresso evidente – conclude così Manghi – concerne la difficoltà del sindacalista a
vedere e interpretare con precisione la realtà industriale e i meccanismi economici
specifici sui cui dovrebbe intervenire. Anche in questo caso, come nei capitoli
precedenti, la tesi esposta si chiude con un auspicio costruttivo: l’organizzazione
richiede gerarchia e la gerarchia tende a produrre sempre una élite
stabilizzata, certo. Ma per ottenere una modificazione della funzione dirigente
verso l’uguaglianza occorre agire tanto sul piano dei meccanismi formali di
democrazia e autogoverno sindacale come sui profili informali e sociali
dell’ambiente sindacale stesso.
È questo lo spirito
che porterà Manghi a mantenere sempre tra l’altro posizioni critiche nei confronti
dell’intervento statale sul sindacato e a respingere con forza tutte le seduzioni
positivistiche, talvolta anche assumendo posizioni in apparenza difficili
[23]
. E al proposito, sul fronte
giuslavorista, penso valga salutare molto positivamente, dopo anni di silenzio, la
rinnovata attenzione sulle modalità e sulle tecniche di bilanciamento e
contemperamento concreto tra principi gerarchici, connaturati all’esigenza di
stabilità coesione e unità interna del nostro sindacato (che trovano protezione
nella dimensione collettiva della libertà
Note
[15] Manghi, Passaggio senza riti, Roma: Edizioni Lavoro, 1987 e qui p. 9.
[16] Per tutti Giugni, Sindacato: anni 70, in Economia e lavoro, 1972, n. 2, p. 169, anche in Giugni, Il sindacato tra contratti e riforme (1969-1973), Bari: De Donato, 1973, p. 101 ss. da cui cito e qui pp. 115-116.
[17] E con l’allargamento del conflitto, poi, anche le teorizzazioni della “conflittualità permanente”: cfr. Gli anni della conflittualità permanente. Rapporto sulle relazioni industriali in Italia, 1970-1971, Milano: Franco Angeli, 1976.
[18] V. per esempio Feltrin, Il fenomeno sindacale nell’Italia contemporanea: declino “politico” e ascesa “di mercato”, in Quad. Rass. Sind., 2015, 16, 4, p. 173. Ma anche Berrini, «Declinare crescendo o crescere cambiando?». Il sindacato e la scelta partecipativa, Roma: Edizioni Lavoro, 2017.
[19] L’articolo che recensisce Declinare crescendo in termini sostanzialmente negativi e da cui è tratto il virgolettato del testo è pubblicato su l’Unità del 2 novembre 1977 a firma di Stefano Cingolani. Di opposto tenore è invece il commento/recensione a firma del politologo Giorgio Galli comparso su Repubblica il giorno 11 ottobre 1978. Più neutra la recensione in Avanti! del 11 novembre 1977 a firma di Stefano Ajo.
[20] A. Pizzorno, Intervento nella tavola rotonda sul tema pubblicata da Mondoperaio, n. 4, 1978, 7.
[21] Mancini, Terroristi e riformisti, cit. e qui almeno i saggi I sindacati e il terrorismo e Laicismo e conflitto nella vecchia Cisl.
[22] Nogler, Statuto dei lavoratori e ideologia del nuovo sindacato, in Costituzionalismo.it – (n. 1) – 2020.
[23] Vedi per esempio l’incontro/scontro con F. Mancini in Progetto n1 gennaio/febbraio 1981 sul tema del referendum.
[24] Mi riferisco all’opera monografica di Cristofolini, Profili organizzativi e trasparenza finanziaria dei sindacati rappresentativi. Uno studio comparato, Milano: Franco Angeli, 2021 e alla proposta ivi contenuta, spec. 261 e ss.