Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/p1
Ecco il punto di partenza: l’osservazione – siamo alla metà degli anni Settanta del secolo scorso – di una crescita esponenziale del fenomeno sindacale in Italia, per molti versi inaspettata e comunque notevole da diversi punti di vista, cui corrispondono però, nel momento in cui il libro vede la luce, primi inequivocabili segni di difficoltà, forse non del tutto manifestatisi e comunque ancora senza spiegazioni. Senza troppe concessioni o impantanamenti nella discussione sui massimi sistemi (tracciando il profilo di un certo tipo di sindacalista del tempo l’autore se ne burla a p. 77: «ossessionato dagli elzeviri di Napoleoni, Andreatta e Spaventa, veleggia nei discorsi macroeconomici»…), il libro di Manghi si propone così l’obiettivo molto concreto di «spostare l’attenzione sui meccanismi funzionali del sindacato, attribuendo le sue difficoltà principalmente all’emergere di una nuova élite interna, sul ceppo di culture e tradizioni inadeguate nelle difficili prove dell’oggi. Il rapporto con i mass-media, le dinamiche dell’aggressività, il professionismo, le tendenze autocratiche, sono tra i temi analizzati con intenzione critica ma senza alcun distacco» (sono ancora le parole della quarta di copertina dell’edizione originale).
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Sul nostro terreno, a dispetto di Roland Barthes e della sua tesi fortunata [4]
, l’esperienza di lettura dovrebbe rimanere soggettivistica: per comprendere il valore di Declinare crescendo, si deve sapere chi sia l’autore e conoscere il suo punto di vista. Così viene descritto nella quarta di copertina: «Bruno Manghi, dopo un breve periodo di insegnamento come assistente di sociologia all’Università Cattolica di Milano, si è dedicato all’attività sindacale a tempo pieno, prima alla FIM e poi alla CISL di Milano. Ha pubblicato vari contributi sui problemi del sindacato» [5]
.
Una giornalista che non molto tempo fa lo ha intervistato ha sintetizzato l’incontro in questi termini: «Incontrare Bruno Manghi significa incontrare nel suo racconto una folla di persone che per caso o per destino hanno lasciato una traccia nella vita italiana. Intellettuale, politica, sindacale. Tre aggettivi che in Manghi si fondono in modo singolare come se lui stesso fosse dotato di uno speciale magnetismo che fanno della sua vita un’avventura “straordinaria”, aggettivo che lui usa; a più riprese e senza esitazione» [6]
. Lui, nel raccontarsi, invece ha cominciato così: «Sono nato nel 1941, in Borgo San Paolo. Mio padre Enrico lavorava alla Fiat, mia madre Giacinta faceva la commessa nel negozio di mio nonno e mio papà si era innamorato di ritorno dal servizio militare in Libia, dove aveva fatto il mitragliere» [7]
.{p. 7}
Naturalmente non è questa la sede opportuna per tracciare un profilo bio-bibliografico di Manghi [8]
, ma vale la pena almeno sapere che di lavoratori e di sindacato ha cominciato ad occuparsi presto: il tema della tesi di laurea all’Università Cattolica, relatore Francesco Alberoni, era stato il mondo degli impiegati nell’industria, che «allora non lo studiava nessuno». E come lui stesso ha poi precisato quelli «sono gli anni del risveglio sindacale, Pierre Carniti della Fim e alla Cisl di Milano dove mi avevano aiutato per la tesi mi propongono di collaborare per la formazione» [9]
.
Di sicuro, l’incontro con Pierre Carinti ha segnato profondamente la vita del nostro autore. Durante la grande industrializzazione italiana, negli anni Sessanta del secolo scorso, quando si forma una generazione di sindacalisti che pensano che il sindacato debba stare in fabbrica, che la contrattazione aziendale sia decisiva, che i sindacalisti non debbano fare i deputati, che l’unità sindacale sia necessaria, Pierre Carniti è uno dei loro leader: «parlare di Pierre per me è una cosa molto personale, perché, insomma, io sono uno dei tanti a cui lui ha cambiato la vita. Io ero all’università, facevo l’assistente, stavo per fare la libera docenza, collaboravo già con il sindacato, la Fim di Milano, ma poi il fascino dell’epoca e quello di Pierre, a un certo punto mi hanno fatto lasciare baracca e burattini e iniziare un’altra vita col sindacato. Pierre era giovane, un {p. 8}combattente, una persona affascinante. Veniva dalla provincia di Cremona, aveva fatto il tipografo e da ragazzo, con un gruppo di amici della zona, tra cui Alquati, si occupava già della condizione contadina. Fin da giovane, lui in particolare in quel gruppo, era animato da una grande passione sociale» [10]
.
Vale la pena riprendere ancora uno stralcio del racconto di quegli anni, per capire da dove e da quanto lontano arrivi la riflessione proposta poi in Declinare crescendo: «allora non c’erano permessi sindacali, l’unica cosa che si poteva fare era aspettare i lavoratori a fine turno per parlargli. Solo nelle aziende medio-grandi, dove c’era il commissario interno, avevi la possibilità di entrare. Il commissario interno era quello che sapeva tutto della fabbrica. Questi sono i primordi. Pierre partecipò alla stagione dei primi conflitti per i contratti, che cominciarono alla fine degli anni Cinquanta. Ma tutti gli anni Sessanta furono grandi anni di preparazione, senza i quali il ’68 e il ’69 non sarebbero esistiti. Il sindacato si faceva strada tra mille difficoltà e Pierre, di quegli anni fu un protagonista, ovviamente con delle tesi. La Fim in particolare sosteneva la tesi del salario legato alla produttività e l’idea di un sindacato che si fa prima di tutto in fabbrica. Quello è il punto di partenza che segna la differenza tra il sindacalismo industriale, praticato ovviamente anche dalla Fiom e dalla Uilm, e il sindacalismo agrario che era il suo fratello maggiore e che era un sindacalismo delle piazze, non dei campi. D’altra parte, eravamo nel pieno della grande industrializzazione» [11]
.
La memoria di quelle stagioni per molti versi gloriose trova numerose conferme negli scritti di allora così come nei più recenti racconti di quanti a diverso titolo ne furono protagonisti o comunque vi parteciparono [12]
. Uno di {p. 9}questi merita di essere citato in questa sede con maggiore dettaglio di altri.
Qualche anno fa, Gian Primo Cella ha parlato di come sia venuto in contatto, e correvano i primi anni Sessanta del secolo scorso, con gli ambienti cattolici progressisti, o meglio con il “dissenso”, come ha subito voluto precisare: «È stato attorno alla fine del 1964 che ho cominciato ad accostarmi alla Cisl, ma soprattutto alla Fim, in particolare a quella provinciale. Il mio primo articolo sull’Algeria credo di averlo pubblicato nel 1965 proprio su Dibattito sindacale, la rivista appena fondata da Carniti, quando stavo preparando la tesi o subito dopo» [13]
.
Ed ecco, appunto, Manghi [14]
e l’esperienza comune nella rivista milanese Dibattito sindacale: «Sono molto affezionato, e con me diversi altri, a Dibattito sindacale. È un’esperienza che non si dimentica. Primo, perché allora affrontare certi temi non era cosa semplice; secondo, perché Pierre Carniti era una personalità magnetica, e lui ci teneva molto a questa rivista, che era tenuta su da lui, da Sandro Antoniazzi, da Bruno Manghi e da me. Basta guardare i nomi ricorrenti sulle sue pagine… E poi un’altra cosa bella era che non si occupava solo di temi sindacali. Trattare le questioni sindacali, sia pure in modo aggressivo, poteva apparire cosa scontata; Dibattito sindacale era invece aperto a molti altri temi. Ricordo in particolare che {p. 10}dedicammo un intero numero alla Guerra Civile in Spagna, con un taglio che disturbò molto il mondo cattolico milanese; un altro numero lo dedicammo al socialismo. Tra l’altro, la rivista era fatta in modo editorialmente innovativo, con l’inserimento di foto o immagini che davano grande efficacia al tema trattato. Insomma, è stata un’esperienza molto bella, tant’è che è l’unica rivista di cui conservo tutta la collezione a casa mia, mentre le altre le ho sparse in giro presso biblioteche varie».
Credo non serva aggiungere altro.

Declinare crescendo, ieri (e oggi)

Declinare crescendo è costituito di sei capitoli cui è anteposta una breve introduzione che illustra l’essenza del libretto, ove è sgombrato subito il campo dalle possibili letture malevole che il titolo evoca: «desidero che queste note siano lette come appartenenti al sindacato e che, al di là della loro plausibilità, sappiano tradire il legame profondo e personale con questa esperienza collettiva» (p. 7).
Quello di Declinare crescendo è, come ho già detto, un tempo di mezzo e cioè di raffreddamento delle speranze, che mettono in discussione l’identificazione collettiva e la solidarietà vissuta in precedenza. Le tappe di questo insidioso declino sono, per Manghi, la cultura di massa sindacale, i tratti del mestiere, le insorgenze autoritarie, il peso determinante delle ideologie volgarizzate. In quel momento, dirà poi, «eravamo sull’Everest come accreditamento, potere, popolarità». Esattamente dieci anni dopo Declinare crescendo, nella premessa indirizzata al lettore di Passaggio senza riti [15]
, al proposito aggiunse che come «allora era parso ad alcuno che tuttavia quel potere così temuto ed applaudito celasse i segni di un declino e che tale declino non sarebbe banalmente derivato da un ciclo economico sfavorevole, bensì da una perdita di senso dell’esperienza, da motivi interni (oserei dire interiori...)».
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Note
[4] Barthes, La morte dell’autore, in Id., Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Torino: Einaudi, 1988 (ma 1967), p. 51.
[5] Di questa esperienza e del ruolo della Fim nei rapporti con la Confederazione racconterà in Manghi, La Fim: una federazione in un sindacato di categorie, in Analisi della Cisl. Fatti e giudizi di un’esperienza sindacale, a cura di G. Baglioni, Roma: Edizioni Lavoro, 1980, p. 659.
[6] Così Francesca Bolino nell’introdurre l’intervista a Manghi, Repubblica Torino 4 gennaio 2020.
[7] Così Manghi nell’intervista resa a Repubblica, cit. 4 gennaio 2020. Ma vedi anche B. Manghi, Intervista del 19 novembre 2010 a cura della Fim (in https://www.fim-cisl.it/storia/memoria-della-fim/testimonianze/intellettuali/).
[8] Tra le attività di Manghi va ricordato il suo ruolo nella rivista Dibattito Sindacale (su cui infra nel testo) e anche la direzione dei Centri studi e formazione Cisl di Spezzano, Taranto e Firenze (nell’intervista La formazione elemento costitutivo e fondante della Cisl resa a Francesco Lauria nel marzo 2013 vengono passate in rassegna da Manghi tutte le attività formative svolte negli anni tra Fim e Cisl). Tra le molte altre pubblicazioni di Manghi si ricordino almeno: Fare del bene, il piacere del bene e la generosità organizzata (Venezia: Marsilio, 2007), Lavori inutili (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2003), Le trasformazioni del lavoro (Milano: Vita e Pensiero, 2002), Interno sindacale (Roma: Edizioni Lavoro, 1996), Il tempo perso (Venezia: Marsilio, 1995), Passaggio senza riti (Roma: Edizioni Lavoro, 1987), Democrazia minima: regole e costumi del nostro sindacalismo (Roma: Edizioni Lavoro, 1981).
[9] Così ancora Manghi nell’intervista resa a Repubblica, cit. 4 gennaio 2020.
[10] Così Manghi nell’intervista resa a Una Città, febbraio 2020.
[11] Così sempre Manghi ancora nella stessa intervista a Una Città del 2020, cit.
[12] Per esempio, Cazzola, Storie di sindacalisti, Bergamo: Adapt University Press, 2017, nonché Carrieri nell’intervista resa il 23 giugno 203 a Ciarini e De Vita (in https://sisec.it/4-2022-mimmo-carrieri-con-andrea-ciarini-e-luisa-de-vita/), ove ricorda la presentazione a Bari di Declinare crescendo, libro che – sono le parole di Carrieri – «mi aiutò nella conferma di uno degli assi costitutivi dei miei interessi, che già in quella fase si andavano concentrando intorno al fenomeno sindacale».
[13] Intervista a Gian Primo Cella del 11 giugno 2008 a cura della Fim (in https://www.fim-cisl.it/storia/memoria-della-fim/testimonianze/intellettuali/).
[14] L’importanza della figura di Manghi nel percorso intellettuale di Cella è testimoniata anche nelle parole dell’intervista resa dallo stesso Cella a Roberto Pedersini in L.Bordogna, R. Pedersini, G. Provasi (a cura di) Lavoro, Mercato, Istituzioni. Scritti in onore di Gian Primo Cella, Franco Angeli, 2013, 569 ss e qui 581. I due (insieme a Paola Piva) saranno poi gli autori di un testo capace di costruire uno dei paradigmi storiografici più famosi e considerati in assoluto dagli studiosi del lavoro e del sindacato: G.P. Cella, B. Manghi, P. Piva, Un sindacato italiano negli anni sessata. La FIM-CISL dall’associazione alla classe, De Donato, 1972.
[15] Manghi, Passaggio senza riti, Roma: Edizioni Lavoro, 1987 e qui p. 9.