Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c13
Ora il potere disciplinare è separato dal potere direttivo. L’art. 7 dello statuto riconosce l’esigenza dell’imprenditore di disporre di sanzioni disciplinari per mantenere l’ordine dell’organizzazione di lavoro; ma proprio perché destinato a incidere sulla vicenda del contratto senza trovare nello stesso la sua giustificazione, il potere viene spogliato di quell’immediatezza che nel codice lo caratterizzava come potere autocratico, e assoggettato a forme di esercizio e di controllo dirette a garantire la posizione contrattuale del lavoratore. In questo senso si può dire che l’art. 7 attua un intervento giuridico-istituzionale che modifica la struttura autoritaria dell’impresa adeguandola non solo ai principi costituzionali, ma anche ai principi del contratto. L’imprenditore non è più investito di un potere disciplinare valutato alla medesima stregua del potere direttivo, con la conseguenza che i requisiti indicati nell’art. 2106 erano semplici condizioni di esercizio, il cui difetto rendeva il provvedimento soltanto annullabile. L’infrazione disciplinare accertata nelle forme prescritte, in relazione a fattispecie astrattamente prefigurate in conformità del contratto collettivo, concorre essa stessa a integrare la fonte del potere. Perciò, il controllo successivo del giudice o del collegio di arbitrato, al quale a mio avviso va riconosciuta natura di arbitrato rituale, mette capo a una pronuncia di mero accertamento: accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza del potere, e quindi della validità o della nullità del provvedimento disciplinare.
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Alla stregua di queste considerazioni dovrebbe essere negata l’applicabilità dell’art. 7 ai cosiddetti licenziamenti disciplinari. Si può sostenere che in questa ipotesi le prescrizioni formali dell’art. 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604, sono sostituite dalle forme previste dai comma 2° e 3° dell’art. 7, ferma però, in caso di inosservanza, la sanzione stabilita dal citato art. 2, che non è la nullità, ma la semplice inefficacia, da intendersi propriamente nel senso di annullabilità.
Questa soluzione presenta – è vero – un aspetto di contraddittorietà, sul piano della razionalità pratica, giacché riserva a provvedimenti meno gravi del licenziamento il trattamento più severo dell’art. 7, imperniato sulla sanzione di nullità e processualmente assistito dalla cautela della sospensione dell’esecuzione del provvedimento. Ma la contraddizione, se esiste, è nella legge, e l’interprete non può eliminarla: tanto più che non può essere eliminata senza cadere in contraddizioni pratiche di altro genere, che si sostanziano in irrazionali sperequazioni di trattamento. Non si comprende, per fare un esempio, perché dovrebbe essere circondato da maggiori garanzie il licenziamento per grave negligenza rispetto al licenziamento non disciplinare del cottimista che, pur producendo un rendimento non inferiore al livello richiesto dall’art. 2104 c.c., non riesce a stare al passo con gli altri cottimisti ostacolando il regolare funzionamento dell’organizzazione di lavoro (supposto che non sia possibile trasferirlo ad altre mansioni retribuite a tempo).
Anche l’art. 13, là dove sostituisce l’equivalenza professionale delle mansioni alle esigenze dell’impresa come regola del ius variandi dell’imprenditore
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, opera una inversione di tendenza rispetto al codice civile. Mentre nel testo precedente dell’art. 2103 la destinazione del contratto a svolgersi come elemento costitutivo della struttura organizzativa dell’impresa era rilevante, secondo l’orientamento generale del codice, come criterio di preva¶{p. 382}lenza dell’interesse dell’impresa ai fini della legittimazione del trasferimento del lavoratore a mansioni diverse da quelle di assunzione, invece nel nuovo testo essa è rilevante come criterio di coordinamento e di sintesi dell’interesse dell’impresa con l’interesse del lavoratore allo sviluppo razionale delle proprie capacità professionali. La configurazione del ius variandi come potere contrattuale dell’imprenditore ne risulta radicalmente modificata, con riflessi sulla definizione dell’oggetto del contratto non facilmente identificabili in termini dogmatici. La qualifica ha perduto ogni funzione discriminante dal momento che i nuovi limiti stabiliti dall’art. 13 operano anche all’interno di essa, e all’imprenditore è attribuito il potere unilaterale di assegnare anche definitivamente il lavoratore a mansioni non comprese in quelle di assunzione, purché professionalmente equivalenti alle ultime effettivamente svolte o corrispondenti a una categoria superiore. È venuta meno così la distinzione tra potere di conformazione della prestazione di lavoro interno alla qualifica e ius variandi esterno. D’altra parte, deve ormai ritenersi risolta nel primo senso la questione se i limiti del ius variandi siano elementi costitutivi di esso oppure semplici limiti interni operanti come criteri di controllo dell’abuso del potere: con la conseguenza, già applicata dalla giurisprudenza, della piena legittimità del rifiuto del lavoratore di prestare obbedienza al provvedimento che violi quei limiti
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Non è possibile in sede di relazione generale approfondire le controversie interpretative, del resto a tutti note, sollevate dall’art. 13, e tanto meno azzardare una valutazione pratica del grado di rigidità, forse eccessivo, della norma rispetto alle esigenze aziendali e agli stessi orientamenti della contrattazione collettiva. E non più che una segnalazione si può dedicare all’ulteriore problema, di notevole interesse teorico, ma non di altrettanta importanza pratica, se il vincolo introdotto nel potere organizzativo ¶{p. 383}dell’imprenditore, in funzione protettiva dell’interesse dei prestatori di lavoro a una razionale programmazione delle carriere professionali, possa essere interpretato quale indice di riconoscimento al lavoratore del diritto all’esecuzione della prestazione dedotta in contratto. La soluzione affermativa, come già è stato osservato
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, avrebbe un riflesso sull’interpretazione dell’art. 9, nel senso che l’obbligo di tutela delle condizioni di lavoro, previsto dall’art. 2087 c.c., sarebbe ora presidiato da un’autonoma azione contrattuale di adempimento, avente per oggetto la condanna del datore all’adozione delle misure necessarie a garantire la salute e l’integrità fisica dei lavoratori, ed esercitabile dalla collettività dei lavoratori interessati.
4. Superamento della considerazione esclusivamente individualistica del rapporto.
La seconda direttiva fondamentale dello statuto è contrassegnata da un atteggiamento opposto all’indirizzo tradizionale dello Stato liberale, secondo il quale il contratto esaurisce i problemi di tutela del lavoratore sul piano individuale: indirizzo che comporta, da un lato, l’identificazione della posizione di lavoratore subordinato con la posizione di parte del contratto, dall’altro una netta separazione del rapporto individuale di lavoro dal rapporto collettivo. Il nuovo legislatore considera il contratto uno strumento necessario, ma non sufficiente di tutela del prestatore di lavoro nei confronti dell’imprenditore. Conseguentemente sono stati rovesciati entrambi i corollari ora enunciati.
La normativa dello statuto concernente i rapporti individuali non coincide interamente col rapporto di lavoro, ma comprende norme che cadono fuori della disciplina del contratto e solo indirettamente inducono un limite al potere direttivo dell’imprenditore. Così il diritto riconosciuto dall’art. 1 ai lavoratori di manifestare liberamente le proprie opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa nei luoghi di lavoro non è certo un effetto del contratto: ¶{p. 384}esso preesiste al contratto e riceve una speciale protezione in connessione al fatto dell’ingresso del lavoratore in una organizzazione sociale costituita e governata dall’imprenditore per uno scopo produttivo. Altre norme nemmeno presuppongono l’esistenza del contratto, ma operano già in sede precontrattuale, quando si instaura un contatto sociale fra l’imprenditore e il lavoratore ai fini dell’eventuale stipulazione di un contratto di lavoro. Il divieto di indagini sulle opinioni e sulla vita privata del lavoratore è sancito dall’art. 8 anche «ai fini dell’assunzione», né si può dire che la norma si inserisca nella disciplina del contratto per la parte che ribadisce il divieto anche «nel corso del rapporto di lavoro». Qualora il lavoratore patisse un danno a causa di una fuga di notizie sulla sua vita privata assunte in violazione del divieto, sorgerebbe a carico del datore, oltre alla responsabilità penale, anche una responsabilità civile: ma responsabilità extracontrattuale, non contrattuale. In questa prospettiva sistematica concordo con la giurisprudenza
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che ha esteso alla fase anteriore all’assunzione, e in particolare ai lavoratori avviati al lavoro dall’ufficio di collocamento, il divieto di accertamenti sanitari dell’idoneità al lavoro da parte dell’imprenditore. Ma obietto che per giungere a questa soluzione non occorre forzare l’interpretazione della legge sul collocamento, attribuendo al provvedimento dell’ufficio effetti di diritto privato che ad esso non competono. Basta coordinare l’art. 5 con l’art. 8, sul riflesso che entrambe le norme tutelano il diritto del lavoratore alla riservatezza, e quindi entrambe devono avere il medesimo campo di applicazione.
L’espressione «lavoratore dipendente», usata dall’art. 5, va intesa alla luce della collocazione sistematica di questo complesso di norme fuori dalla disciplina del contratto di lavoro. In un primo approccio dogmatico, si può dire che tali norme configurano uno status di lavoratore dipendente, imperniato non sul concetto tecnico di subordina¶{p. 385}zione, ravvisata come effetto del contratto, ma sul concetto socio-economico che qualifica la condizione sociale di chi, non disponendo dei mezzi di produzione, per l’esplicazione delle sue capacità di lavoro dipende da altri: uno status nel quale si proietta la direttiva dell’art. 2 della Costituzione, che estende la protezione delle libertà dell’individuo dai rapporti con lo Stato anche ai rapporti con le formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. E fra queste assume un rilievo di prima grandezza l’impresa, dove la condizione operaia tende a identificarsi con la condizione umana. In pari tempo le norme in esame costituiscono luoghi di inferenza di nuovi principi di ordine pubblico, che approfondiscono lo spessore dei limiti dell’autonomia contrattuale.
Il secondo corollario dell’indirizzo tradizionale è rovesciato da un’altra serie di norme, che sviluppano il momento contrattuale sul piano collettivo, investendo la collettività dei lavoratori riuniti nelle singole unità produttive di poteri di controllo sulla vicenda dei rapporti individuali di lavoro mediante forme di contrattazione e di autotutela non sempre, ma solo tendenzialmente innestate nell’organizzazione sindacale, della quale viene in pari tempo promossa e garantita la presenza nei luoghi di lavoro.
Queste norme alterano profondamente il quadro sistematico del diritto del lavoro, secondo linee non ancora chiaramente definite. Le difficoltà nascono non solo dalla scelta degli strumenti dogmatici adatti alla conoscenza della nuova realtà normativa, ma anche dalla sovrapposizione o intersecazione di profili diversi, così che una categoria concettuale appropriata a un certo punto di vista potrebbe rivelarsi inadeguata da un altro punto di vista. Si aggiunga che il prolungamento del rapporto di lavoro sul piano collettivo reagisce sulla posizione del datore di lavoro, non solo comprimendo in vario modo il potere direttivo, ma perfino modificando l’assetto complessivo della corrispettività delle prestazioni in termini di cui non è agevole dare conto con i consueti strumenti di valutazione collegati alla causa individuale di scambio.
¶{p. 386}Sotto questo profilo le norme in discorso si intrecciano anche con la prima direttiva dello statuto sopra enucleata, svolgendo la rilevanza giuridica dell’inerenza del rapporto di lavoro all’impresa nel senso di una qualificazione normativa del primo come rapporto di massa, laddove tale qualificazione aveva finora, a cominciare da Lotmar, un valore meramente descrittivo e sociologico. E forse nell’ambito di questa categoria potranno trovare coerente sistemazione tra gli effetti del contratto per es. il diritto di assemblea e il diritto a permessi anche retribuiti, riconosciuto ai lavoratori investiti di compiti rappresentativi della comunità di lavoro nell’impresa.
Note
[10] Cfr. Romagnoli, in Commento allo statuto dei diritti dei lavoratori, Bologna, 1972, p. 179.
[11] Cfr. Pret. Milano 24 gennaio 1972, in «Orient. giur. lav.», 1972, p. 425.
[12] Galligani, in «Dir. Lav.», 1972, II, p. 37.
[13] Pret. Parma 17 febbraio 1972 e Pret. Fidenza 6 marzo 1972, in Giur. ir., 1972, I, 2, c. 723; II, c. 472.