Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c13
Ma l’idea della separazione del posto di lavoro dal datore di lavoro non è penetrata nello statuto. Certo, se non in generale, almeno in due casi speciali lo statuto riconosce al lavoratore un vero e proprio diritto al posto di lavoro, nel senso che il datore non può limitarsi a retribuire il lavoratore vietandogli l’accesso al posto di lavoro, ma è tenuto a consentirgli l’occupazione fisica del posto. Sono il caso, previsto dall’art. 18, di licenziamento ingiustificato di lavoratori dirigenti di rappresentanze sindacali aziendali o membri di commissione interna, e il caso, più generale, di licenziamento per motivi antisindacali, ammessa, secondo l’opinione ormai abbastanza consolidata, l’applicabilità dell’art. 28. In entrambi i casi l’ordine giudiziale di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro è assistito da ima forma di coercizione indiretta, costituita nel primo caso dalla sanzione civile della condanna al pagamento al Fondo adeguamento pensioni, per ogni giorno di ritardo, di una somma pari alla retribuzione dovuta al lavoratore; nel secondo caso dalla sanzione penale prevista dall’articolo 650 c.p. Ma questi indici positivi implicano due precisazioni: a) il diritto al posto di lavoro ha struttura obbligatoria, è un diritto di credito al quale è simmetrico da parte del datore un obbligo positivo di cooperazione, funzionalmente ordinato all’attuazione della pretesa del lavoratore; b) la legge considera infun
¶{p. 376}gibile il comportamento dovuto dal datore, e quindi lo esclude dal novero degli obblighi suscettibili di esecuzione in forma specifica a norma dell’art. 612 c.p.c. Invero, la pena pecuniaria è un tipico surrogato delle forme di esecuzione diretta in forma specifica, quando tali forme non siano ammesse in generale, come accadeva sotto l’impero dei codici del 1865, oppure, se ammesse, come nell’attuale codice di procedura civile, non siano applicabili in ragione dell’infungibilità dell’obbligo. Quanto poi all’obbligo di reintegrazione sancito dal decreto o dalla sentenza pronunciati a norma dell’art. 28, è chiaro che, se esso fosse direttamente coercibile nelle forme dell’art. 612 c.p.c., l’applicazione al datore di lavoro della sanzione penale per il solo fatto della mancata spontanea osservanza sarebbe ingiustificata, in quanto colpirebbe un comportamento inidoneo a ledere l’interesse tutelato. La sanzione penale dovrebbe intervenire solo più tardi, e per tutt’altro titolo, qualora nel corso dell’esecuzione forzata il datore di lavoro opponesse resistenza all’ufficiale giudiziario o alla forza pubblica di cui fosse stata chiesta l’assistenza.
2. La struttura di scambio del rapporto.
Sgombrato il campo dal problema ora esaminato, non pare che la normativa dello statuto presenti altri profili che possano seriamente essere considerati come indici di alterazione della struttura del rapporto di lavoro o addirittura di superamento della concezione contrattualistica del rapporto. Non gli artt. 10, 20 e 23 che tengono fermo l’obbligo di retribuzione pur in mancanza della prestazione di lavoro corrispettiva. Queste norme si inseriscono in una tendenza, già emersa nella legislazione precedente e nello stesso codice civile, ad attribuire alla retribuzione anche funzioni diverse da quella di corrispettivo della prestazione di lavoro: tendenza compatibile col concetto di contratto di lavoro come contratto di scambio e giustificata da esigenze derivanti dal fatto che nello scambio è coinvolta la persona stessa del lavoratore. Nemmeno si può ravvisare un indice di modificazione dello schema del contratto di lavoro nelle norme che prevedono sul piano collettivo una ¶{p. 377}partecipazione dei lavoratori alla definizione di modi di esercizio del potere organizzativo e di controllo dell’imprenditore, quali gli artt. 4, 6 e 9. Da queste norme la partecipazione dei lavoratori è chiaramente configurata in funzione di un contropotere inserito in una situazione di conflitto di interessi, e non già sulla base di una concezione comunitaria del rapporto.
Si può quindi assumere fin d’ora come punto fermo dell’indagine il rilievo che lo statuto dei lavoratori non ha introdotto alcun elemento di modifica nella struttura di scambio del rapporto di lavoro. Lo statuto ha profondamente modificato il potere organizzativo dell’imprenditore, e conseguentemente la stessa struttura organizzativa dell’impresa, della quale il rapporto di lavoro è un elemento costitutivo. Ma queste modificazioni non alterano lo schema elementare del contratto, ed anzi ne esaltano la funzione tipica di scambio, non più condizionata, almeno nella misura in cui tale condizionamento era penetrato nel codice, dalla commistione con la funzione organizzativa dell’impresa cui il contratto è destinato nel programma del datore di lavoro.
Questo è un punto fondamentale per l’intendimento della posizione del codice civile e quindi per una valutazione adeguata della portata innovativa dello statuto. Nel codice la subordinazione della posizione contrattuale del prestatore di lavoro all’interesse dell’organizzazione produttiva ha una precisa matrice ideologica-politica nella concezione corporativa dell’economia, secondo la quale la libertà di iniziativa economica privata deve svolgersi in funzione dell’interesse superiore della produzione nazionale, e l’imprenditore risponde nei confronti dello Stato dell’indirizzo della produzione in conformità degli obblighi imposti dall’ordinamento corporativo a tutela di quell’interesse. In ragione di tale responsabilità l’imprenditore è qualificato «capo dell’impresa» e investito di autorità gerarchica sui membri dell’organizzazione che con lui collaborano alla realizzazione dello scopo produttivo dell’impresa. Ma con questa impostazione non è poi coerente la tecnica normativa con cui il codice tutela la funzione ¶{p. 378}dell’imprenditore nei rapporti con i prestatori di lavoro. Contrariamente a quanto sembra preannunciare la norma definitoria dell’art. 2086, il codice non attribuisce all’organizzazione di lavoro rilevanza giuridica quale fonte autonoma di rapporti giuridici coordinati alle esigenze dell’impresa, bensì tutela queste esigenze assumendole come criterio di determinazione del contenuto del contratto di lavoro e di integrazione dei suoi effetti. In altre parole, il codice non distingue la zona del contratto dalla zona dell’impresa, ma piuttosto sovrappone questa a quella, nell’alveo della direttiva caratteristica del pensiero liberale, la quale ritiene che, una volta garantiti con norme di ordine pubblico alcuni interessi fondamentali dei lavoratori subordinati, il contratto deve rimanere lo strumento esclusivo di disciplina della posizione del lavoratore nell’impresa. In questo senso
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si è potuto dire che nel codice la causa di scambio, propria del contratto di lavoro, assorbe la funzione organizzativa ad esso assegnata dal datore di lavoro. Per esempio, il potere gerarchico dell’imprenditore è inserito dall’art. 2104 nel contenuto del potere direttivo derivante dal contratto, e quindi assume il colore neutro di mezzo organizzativo della prestazione di lavoro. Correlativamente il potere disciplinare viene configurato dall’art. 2106 come un momento tipico della subordinazione, intesa come modo di essere della prestazione di lavoro dedotta in contratto, così che le sanzioni disciplinari sono ricondotte al concetto di pena convenzionale. In tal modo la connessione funzionale del contratto con l’impresa si traduce in un nesso strutturale, operante come canale di trasferimento nello schema del contratto, che è essenzialmente rapporto tra uguali, di posizioni di potere e di soggezione elaborate, fuori dalla logica del contratto, nel quadro di una concezione rigidamente autoritaria dell’impresa. Beninteso, l’ideologia corporativa era una mera sovrastruttura, alla quale si è sostituita, con ben altra serietà di contenuti, ma senza ¶{p. 379}apprezzabili conseguenze sull’interpretazione della norma, l’ideologia tecnocratica. Il nesso strutturale tra impresa e contratto è divenuto il supporto delle esigenze di razionalità tecnico-organizzativa proprie dell’impresa operante nella moderna società tecnologica.
A questa ideologia lo statuto dei lavoratori oppone l’esigenza che l’organizzazione tecnico-produttiva dell’impresa sia commisurata ai valori di cui è portatore il fattore lavoro: l’idea-madre dello statuto è che l’organizzazione deve modellarsi sull’uomo, e non viceversa. Essa si svolge in una normativa, nella quale si possono cogliere due direttive di fondo.
3. I nuovi equilibri degli interessi contrapposti delle parti.
Secondo la prima, il nesso strumentale del contratto di lavoro con l’impresa conserva rilevanza giuridica, ma in funzione di una nuova valutazione che realizza un assetto più equilibrato degli interessi contrapposti delle parti, e quindi più coerente alla logica del contratto. Di questo primo punto di vista le norme più importanti, direi emblematiche, sono l’art. 7 in materia di sanzioni disciplinari e l’art. 13 in materia di assegnazione delle mansioni.
La precarietà della tecnica normativa del codice, che attribuisce rilevanza giuridica alle esigenze organizzative dell’impresa mediante una corrispondente conformazione degli effetti del contratto di lavoro, e quindi della causa del contratto, si manifesta con particolare evidenza nella norma sul potere disciplinare, configurato dall’art. 2106 come un effetto del contratto inerente al potere direttivo del datore. L’immediatezza dell’applicazione della sanzione disciplinare all’infrazione rilevata dal datore viene perciò giustificata sulla base di un’accettazione preventivamente manifestata dal prestatore di lavoro all’atto della stipulazione del contratto. In tal guisa, per il tramite della connessione con l’impresa, il codice inserisce nella struttura normativa del contratto un elemento contraddittorio costituito da un potere di supremazia sociale, che propriamente appartiene all’imprenditore non in quanto parte contraente, ma in quanto capo dell’organizzazione in ¶{p. 380}cui il lavoratore, mediante il contratto, viene incorporato. In realtà, mentre il potere direttivo dell’imprenditore è un effetto tipico del contratto, correlativo a un peculiare modo di essere della prestazione promessa dalla controparte, che è tipicamente prestazione di lavoro subordinato, invece il potere disciplinare è destinato a sanzionare inadempimenti che di per sé, secondo i principi comuni, sarebbero irrilevanti nell’economia del contratto, in quanto non turbano sensibilmente l’equilibrio contrattuale, ma assumono rilevanza nella sfera dell’impresa, in quanto turbano l’ordine dell’organizzazione.
Ora il potere disciplinare è separato dal potere direttivo. L’art. 7 dello statuto riconosce l’esigenza dell’imprenditore di disporre di sanzioni disciplinari per mantenere l’ordine dell’organizzazione di lavoro; ma proprio perché destinato a incidere sulla vicenda del contratto senza trovare nello stesso la sua giustificazione, il potere viene spogliato di quell’immediatezza che nel codice lo caratterizzava come potere autocratico, e assoggettato a forme di esercizio e di controllo dirette a garantire la posizione contrattuale del lavoratore. In questo senso si può dire che l’art. 7 attua un intervento giuridico-istituzionale che modifica la struttura autoritaria dell’impresa adeguandola non solo ai principi costituzionali, ma anche ai principi del contratto. L’imprenditore non è più investito di un potere disciplinare valutato alla medesima stregua del potere direttivo, con la conseguenza che i requisiti indicati nell’art. 2106 erano semplici condizioni di esercizio, il cui difetto rendeva il provvedimento soltanto annullabile. L’infrazione disciplinare accertata nelle forme prescritte, in relazione a fattispecie astrattamente prefigurate in conformità del contratto collettivo, concorre essa stessa a integrare la fonte del potere. Perciò, il controllo successivo del giudice o del collegio di arbitrato, al quale a mio avviso va riconosciuta natura di arbitrato rituale, mette capo a una pronuncia di mero accertamento: accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza del potere, e quindi della validità o della nullità del provvedimento disciplinare.
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Note
[9] Che non va messo in relazione alla categoria dei contratti misti, come pensa Santini, in «Riv dir. civ.», 1970, I, pp. 416, nota 29.