Matelda Reho, Filippo Magni (a cura di)
Tutela e valorizzazione del paesaggio nella transizione
DOI: 10.1401/9788815413352/c21
Prendiamo ad esempio il caso del biogas. Il biogas è un caso un po’ particolare perché è più complesso degli altri. L’impianto a biogas prevede infatti due fasi di lavorazione: la prima è l’attività di digestione in cui viene prodotto il gas grazie alla digestione anaerobica di sostanze organiche. Il gas prodotto, che assomiglia molto al gas metano, viene utilizzato nella seconda parte dell’impianto per produrre energia elettrica tramite un processo di combustione. Gli impianti non sono particolarmente grandi e sono di solito localizzati in mezzo alla campagna, quindi non sono neanche tanto visibili. A volte vengono mascherati con alberi,
{p. 386}vengono nascosti se vogliamo, e tuttavia possono avere un impatto molto significativo sul piano territoriale e sociale. Questi impianti sono stati spesso al centro di forti conflitti legati alla loro localizzazione e alle modalità con le quali vengono alimentati. Negli scorsi anni l’associazione nazionale degli impianti a biogas ha prodotto un documento, Il biogas fatto bene, che dà alcune indicazioni proprio per evitare le problematiche responsabili delle criticità maggiori. Per alimentare l’impianto si scivola facilmente nella competizione con le produzioni alimentari e questo può provocare a scala globale dei conflitti molto grossi con la produzione di cibo che è un’altra delle questioni che più ci attanaglia.
Per ultima ho lasciato un’altra fonte di energia rinnovabile molto poco visibile ma molto, molto discussa, chiacchierata, che è al centro di grossi conflitti territoriali e sociali. Il mini-idroelettrico è sostanzialmente una modalità di produzione ad acqua fluente, cioè priva di stoccaggio dell’acqua. Questi impianti vengono chiamati amichevolmente «centraline» quasi a diminuire il loro impatto, che in realtà è molto elevato soprattutto perché vengono costruiti sui pochi torrenti di montagna non ancora sfruttati, ad elevato valore naturalistico, e magari anche messi in serie, uno dietro l’altro, rischiando così di portare l’intero corso del torrente al deflusso minimo vitale, che per legge deve essere rilasciato a valle dell’impianto. Gli ambientalisti denunciano inoltre che anche il deflusso minimo vitale spesso non viene rispettato per ragioni di convenienza economica. Ci sono dei casi particolarmente chiacchierati, come quello che tutti conosciamo della centralina del Mis, che è stata al centro di una causa legale, che ha dato ragione ai ricorrenti, cioè a chi sosteneva che questo impianto, per metà nel Parco nazionale delle Dolomiti Bellunesi, non avrebbe dovuto nemmeno essere stato progettato.

3. Paesaggi dell’energia: uscire dalla logica dell’impatto

Il paesaggio è spesso considerato un problema per la transizione energetica, nel senso che è stato utilizzato {p. 387}come motivo di scontro. Da parte di chi? Come posso dire, contrastava – si è posto di traverso rispetto alla transizione programmata; come vi accennavo in apertura, gli aspetti territoriali sono stati trascurati largamente nella costruzione delle politiche energetiche per la transizione. Ne è conseguita una forte conflittualità che ha rallentato sicuramente la transizione in tutti i paesi europei. Insomma, il paesaggio è stato ed è considerato di fatto una barriera, un freno allo sviluppo delle energie rinnovabili e di conseguenza si è adottata una logica dell’impatto.
La risposta alla logica dell’impatto è quella dell’«inserimento paesaggistico» che troppo spesso è limitato alla pura sfera estetica, cioè ai valori scenici che sono stati al centro di un’ampia letteratura sulle energie rinnovabili. Questa è la logica che ha vinto finora.
C’è un post molto famoso di Vittorio Sgarbi che da sempre critica fortemente le energie rinnovabili. In questo post si vede il paesaggio di Orvieto «sfigurato» da un numero di pale eoliche sulle colline retrostanti. Si tratta però di un fotomontaggio dove viene magnificata la dimensione degli impianti rispetto alla dimensione del duomo di Orvieto. Insomma, il tentativo di ispirare indignazione in realtà è basato su un’immagine falsa! E qui capite che posta c’è in gioco.
Su questa linea si sono mossi diversi studiosi europei. Ancora ormai una quindicina di anni fa, quando io cominciavo a occuparmi di questi temi, è uscito un numero monografico di «Landscape Research» dedicato ai «paesaggi dell’energia», che venivano presentati come uno strumento – ecco l’uscita dalla logica del paesaggio come oggetto per entrare nella logica del paesaggio come strumento – per gestire meglio la transizione, cioè per riuscire a governare la transizione prestando attenzione a quegli aspetti territoriali che hanno importanza proprio per prevenire i conflitti che possono sorgere dalle trasformazioni che inevitabilmente ci troveremo ad affrontare. Il suggerimento è quello di cominciare a guardare l’energia attraverso la lente del paesaggio e al tempo stesso cominciare a guardare il paesaggio attraverso la lente dell’energia.
Abbiamo fatto un piccolo esperimento di osservazione del paesaggio attraverso la lente dell’energia nella prima {p. 388}parte di questa presentazione. Adesso è ora di osservare l’energia attraverso la lente del paesaggio: è quello che dovremmo veramente imparare a fare per vincere la partita della transizione.
Il suggerimento è quello di ricomporre le relazioni socio-tecniche tra paesaggio e tecnologia. Selman nel citato numero di «Landscape Research» ci manda un messaggio: «Bisogna imparare ad amare i nuovi paesaggi carbon-neutral». Il paesaggio si trasforma, è inevitabile, perché è il prodotto della società che si interfaccia con il proprio territorio, con i processi sociali e naturali che inevitabilmente cambiano nel tempo, così come cambiano le percezioni. Bisogna imparare ad accettare i nuovi paesaggi delle energie rinnovabili. E questo sta succedendo; ad esempio nelle nuove generazioni il conflitto è molto minore rispetto agli aspetti estetici. È giusto imparare ad amare questi paesaggi. Però è anche giusto che questi paesaggi non siano «ingiusti»: cioè è giusto che la transizione energetica non colpisca le categorie più deboli, che non metta in crisi i processi ambientali, che rispetti i beni culturali e così via; cioè ci sono alcune caratteristiche che questi paesaggi dell’energia rinnovabile devono avere per poter essere accettabili e accettati. Utilizzare la Convenzione europea del paesaggio come approccio al paesaggio può sicuramente aiutare a immaginare in questo modo virtuoso la transizione.
La definizione di «paesaggio dell’energia» non nasce solamente con valenza teorico-analitica, ma invece è legata propriamente all’azione, in particolare alla dimensione delle politiche pubbliche e dei meccanismi di governo. Il concetto di paesaggio dell’energia dovrebbe essere d’aiuto nello sviluppare una concezione integrata delle politiche paesaggistiche e delle politiche energetiche e superare una visione delle prime, cioè di quelle paesaggistiche, come ancillari delle seconde. La Convenzione europea del paesaggio ci dice con chiarezza cosa dobbiamo fare: «Ogni parte si impegna a integrare il paesaggio nelle politiche settoriali».
In Italia, che cosa abbiamo osservato in questi vent’anni di politiche sulle energie rinnovabili? Ci sono state incentivazioni eccessive e disordinate; pensate per esempio al bando {p. 389}sul fotovoltaico che ha avuto delle oscillazioni veramente incredibili, che hanno favorito alcuni soggetti e sfavorito altri e hanno portato ad esaurire le risorse in poco tempo. Come ho già detto si vede una vistosa assenza della dimensione territoriale nella programmazione. Faccio un solo esempio: i dati spaziali sulle energie rinnovabili sono stati resi pubblici solamente un paio d’anni fa, quando sono ormai vent’anni che programmiamo sull’energia rinnovabile, senza avere idea di dove sono gli impianti e di che cosa comporta la loro installazione.
L’unico obiettivo che si sono date troppo spesso le politiche è stato quello di accelerare le procedure piuttosto che aumentare la qualità dei paesaggi dell’energia. Insomma si è vista una propensione vincolistica delle politiche, anche in quelle economiche, arrivando ad uno scontro al vertice tra diverse visioni del territorio. In questo scontro è prevalsa per lo più una concezione estetico-visuale e oggettuale del paesaggio e in questo modo si è parlato molto delle energie rinnovabili visibili e molto meno delle energie rinnovabili meno visibili, come biogas e mini-idroelettrico, che invece hanno impatti territoriali e ambientali molto maggiori. Le «aree non idonee» sono state uno degli strumenti che ha seguito questi principi e che si è rivelato sostanzialmente poco efficace nel momento in cui le aree non idonee sono state fatte coincidere pedissequamente con le aree vincolate a qualunque titolo.
Bisognerebbe invece avere il coraggio di entrare nel merito della questione, di che cosa, di quali siano le aree veramente non idonee. Per tacere di quando invece è uscita qualche anno fa la proposta di parlare al contrario di «aree idonee», un concetto che non è mai stato esplorato fino in fondo.
Con il mio gruppo di ricerca ancora negli anni 2012-2015 abbiamo fatto un’analisi sui conflitti nati attorno agli impianti di biogas e com’era prevedibile abbiamo mostrato (facendo una grossa fatica perché i dati non erano disponibili se non attraverso singoli provvedimenti regionali di autorizzazione, quindi abbiamo dovuto fare uno spoglio dei bollettini regionali) la localizzazione dei conflitti mappando i comitati sorti {p. 390}contro gli impianti di biogas. Come prevedibile, i comitati sono concentrati nella parte centrale della regione, quella che è più densamente abitata, quindi dove i cittadini sono a contatto diretto con questi impianti. Questo dimostra la necessità di prevedere negli strumenti di pianificazione gli aspetti energetici che finora hanno trovato veramente poco spazio. Nel caso dell’impianto di Piombino c’è stata una protesta popolare che è stato interessante seguire nel suo evolversi verso una maggior consapevolezza anche da parte di chi protesta (si parla di conflitti ambientali come ambienti di apprendimento). Mentre all’inizio la preoccupazione dei cittadini era tutta volta solo ad allontanare l’impianto, nella fase finale della protesta quello che viene messo in discussione è il funzionamento stesso dell’impianto. Il cartello di protesta dice: «Bruciamo mais e mangiamo energia elettrica: logico». Quello che viene messo in discussione è il principio stesso degli impianti a biogas, quando vengono alimentati non da scarti animali, ma invece da prodotti vegetali primari, sottraendo terreni alla coltivazione di prodotti alimentari.
Un approccio esclusivamente visuale al paesaggio è limitato perché non consente di vedere queste relazioni invisibili che sono invece una componente fondamentale della territorialità che le rinnovabili costruiscono. Insomma, noi dovremmo utilizzare il paesaggio come strumento per aprire dei tavoli di condivisione, di discussione sui nuovi paesaggi dell’energia. Anche per «imparare ad amarli», bisogna ovviamente prima conoscerli, questi nuovi paesaggi, mentre la stragrande maggioranza delle persone non ha avuto una formazione in campo energetico e quindi non ha gli strumenti per capire fino in fondo quali sono le poste in gioco.

4. Segnali incoraggianti

Per concludere vorrei focalizzarmi su alcuni segnali incoraggianti che si stanno osservando nei nostri territori, che mi sembrano sintomo di una nuova sensibilità. Il primo esempio è il caso del parco eolico di Affi (VR), un caso virtuoso dove il promotore sono i comuni della zona, coordinati
{p. 391}tra di loro e dove la sezione locale di Legambiente, l’associazione ambientalista, invece di essere tenuta all’oscuro, è stata coinvolta fin dall’inizio del progetto per ideare insieme questo impianto. Questo ha portato un risultato interessante soprattutto dal punto di vista spaziale, perché l’impianto è stato collocato in modo forse più virtuoso rispetto a come sarebbe stato collocato se non ci fosse stato l’intervento di Legambiente. L’impianto segue la sommità del circo glaciale di Affi sottolineandolo e quindi aumentando la consapevolezza di questa singolarità geologica. Ma è soprattutto sul piano sociale che si è avuto un atteggiamento virtuoso: il parco eolico di Affi è stato co-progettato con le associazioni ambientaliste che hanno suggerito di creare un percorso informativo sulle energie rinnovabili che viene visitato dalle scuole con l’aiuto di Legambiente che fa le visite guidate. Il parco è stato introiettato all’interno della società locale ed è diventato parte del paesaggio di tutti. Ecco, questo secondo me è un caso virtuoso: lo riconosce anche Legambiente che lo inserisce nella Guida ai parchi eolici italiani, che mi sembra un bellissimo strumento proprio perché consente di fare quello scatto mentale dal paesaggio-problema al paesaggio-opportunità. Le energie rinnovabili costruiscono nuovi paesaggi che possono diventare addirittura attrattivi, in certi casi. Ovviamente a fronte di un’attività percepita come virtuosa deve essere comunque verificata la sostenibilità ambientale e sociale. Il caso virtuoso di Affi non deve farci dimenticare tutti i casi per nulla virtuosi che si sono verificati in Italia e all’estero. Non dimentichiamo che le energie rinnovabili – e l’eolico in particolare – sono state purtroppo anche un grande campo di investimento per certe frange dell’economia sommersa del nostro paese legate alla criminalità organizzata e su questo bisogna attentamente vigilare.
Note