Quale welfare dopo la pandemia?
DOI: 10.1401/9788815412003/c4
La definizione di una proprietà
sociale segna un passaggio fondamentale: quello che consente sicurezza anche alla classe
non proprietaria, prima condannata all’insicurezza sociale permanente e alla lotta per
la sopravvivenza. Ed è per questo che il concetto di proprietà sociale può essere utile
nel guardare alla situazione dei sistemi di welfare pubblici durante la pandemia, e agli
spazi di ripensamento, riorganizzazione e rifondazione di questi oggi: la situazione di
incertezza radicale che si sono trovati ad affrontare durante la pandemia ha messo in
tensione il rapporto individuo-collettivo, evidenziando l’importanza della solidarietà
collettiva per la sopravvivenza stessa dell’individuo. Di fronte alla persistenza delle
condizioni di incertezza e di crisi che caratterizzano la società contemporanea,
ripensare le forme di proprietà
¶{p. 79}sociale che caratterizzano la
contemporaneità a partire dalle esperienze di solidarietà che sono state costruite in
pandemia può essere una strada da percorrere per costruire società più preparate
all’incertezza.
Nonostante i noti limiti dei
sistemi di welfare, legati da un lato a fattori esterni come i tagli, il
sottofinanziamento, l’egemonia delle logiche di mercato che li rendono sempre più
residuali, e dall’altro a fattori interni come le forme di disciplinamento che producono
e la tendenza ad agire in modo ancillare rispetto alle disuguaglianze create dal sistema
economico capitalistico, riparandone le storture ma senza riuscire a metterlo in
discussione, la loro esistenza rimane oggi il modo con cui garantire benessere sociale e
istituzionalizzare forme di solidarietà sociale e collettiva. Le trasformazioni
delineate rispetto al ruolo dello Stato e a quello delle iniziative della società civile
durante la pandemia hanno però evidenziato ulteriori limiti di questo modello. La
mancanza di accesso a forme di protezione sociale istituzionale per una fetta
consistente della popolazione, nonostante l’intervento massiccio dello Stato, ha infatti
creato un doppio binario di solidarietà: da un lato un sostegno di tipo istituzionale,
per coloro che sono inclusi, e dall’altro un sostegno che guarda agli esclusi e cerca di
agganciare anche loro con forme emergenziali di supporto non garantite. Il rischio che
si delinea è però quello di una «normalizzazione» di questa forma di intervento,
soprattutto nel momento in cui il welfare state si trova sempre di più ad agire in
contesti in cui le crisi si moltiplicano [Caselli, Giullari e Mozzana 2021], cioè si
trova ad affrontare situazioni che non può prevenire perché legate a processi globali
come il cambiamento climatico, le migrazioni, eventi pandemici, ma su cui diventa
strumento essenziale di preparazione. Si tratta di crisi di portata tale che stanno
attivando attori in grado di apportare forme di solidarietà che si avvicinano più a una
logica «umanitaria» [Fassin 2019] che a quella della giustizia sociale e dell’accesso a
un paniere di diritti sociali esigibili, anche in paesi tradizionalmente dotati di
strutture di welfare pubblico. Non a caso, infatti, si affaccia sulla scena l’intervento
da un lato di organizzazioni non governative e ¶{p. 80}dall’altro di
collettivi localmente situati che spingono per forme di sostegno mutualistico [Zamponi
2023].
Ma la logica umanitaria che sembra
prevalere, è diversa da quella del welfare: parla, come sostiene Fassin [2019], un
linguaggio della sofferenza e della compassione, degli affetti e delle emozioni e non
quello dell’ingiustizia e dei diritti. È un’azione rivolta solo ai più poveri, deboli,
sfortunati, ed è quindi una politica della disuguaglianza, che non mira a cambiare
l’assetto socioeconomico e le disuguaglianze che questo produce, ma solamente a fornire
un supporto alla popolazione nella situazione di crisi. Ed è una forma d’azione legata
all’effimero, che lavora nell’emergenza ma che poi scompare, lasciando inalterata la
situazione preesistente. Una logica che però rischia involontariamente di spingere verso
una messa in discussione del welfare e dell’accesso a una proprietà sociale collettiva.
Alcuni programmi e progettazioni nati in pandemia sono infatti ancora attivi, e coloro
che vi sono rimasti agganciati sono i soggetti più vulnerabili, che rimangono in questa
condizione di sostegno esterna al welfare che sembra essersi cristallizzata: nonostante
la pandemia abbia funzionato da cartina di tornasole dei limiti e dei problemi del
welfare pubblico, e abbia reso visibili le condizioni delle fasce più fragili della
popolazione, questa visibilizzazione non ha prodotto un riconoscimento istituzionale
della loro condizione e della loro esistenza. Al contrario potrebbe prendere forma,
soprattutto in alcuni contesti urbani, un modello di rapporto in cui la responsabilità
di queste situazioni ricade solo sull’azione civile solidale, volontaria e come abbiamo
detto spesso caratterizzata da logiche umanitarie. Il meccanismo di delega istituzionale
dell’azione solidale che sembra emergere per alcune fasce marginali della popolazione
rischia quindi di mettere gli attori di governo al riparo dall’obbligo di ripensare il
modo in cui si costruisce l’accesso alla proprietà sociale in termini di inclusione
nella sfera dei diritti e della cittadinanza sociale, lasciando che parte della
popolazione, la cui condizione di fragilità e vulnerabilità è diventata visibile con la
pandemia, rimanga con un accesso ai diritti minimo o assente, e col rischio ulteriore
che il sostegno ¶{p. 81}possa svanire da un momento all’altro perché
legato non a un diritto legittimamente esigibile ma a un’azione volontaria. L’incapacità
delle istituzioni di reagire prontamente alle sollecitazioni date dall’emersione di
vecchi e nuovi bisogni, che si sono affacciati sulla scena del welfare in pandemia in
modo rilevante qualitativamente e quantitativamente, rimane quindi un nodo cruciale
dell’agenda pubblica su questi temi, e apre la possibilità e la necessità di ripensare
le forme della protezione sociale e i suoi strumenti. Un ripensamento che si rende
necessario nel momento in cui l’accesso a forme di supporto collettivo e pubblico si è
reso così cruciale, come messo in luce dall’esperienza pandemica, quando è diventato
evidente come gli sforzi per contrastare i fattori strutturali e di lungo termine che
producono le disuguaglianze sociali siano fondamentali per essere preparati a reagire a
situazioni di crisi ed emergenza [Caselli, Giullari e Mozzana 2021].
Un ripensamento delle fondamenta
del welfare che può prendere avvio a partire da alcune questioni. In primo luogo da una
focalizzazione sulla dimensione democratica della sua definizione: la capacità di
ripensare e ridare sostanza politica all’azione solidale da parte dei gruppi che hanno
agito in questo frangente storico, e delle persone che sono state in diversi modi
supportate da questa azione, può diventare un ingrediente fondamentale per costruire
nuove forme di protezione sociale. In questo senso si apre la necessità di aggiungere
voci, logiche, prospettive e vocabolari per ripensare il quadro complessivo, cercando di
agire in questo modo sul livello della definizione dei problemi e non solo a valle sulla
loro soluzione, per immaginare l’inimmaginabile e aspirare oltre l’orizzonte del
prevedibile [Appadurai 2004]. In secondo luogo, è necessario che questa apertura tenga
conto dei limiti socioecologici del pianeta: una riflessione su come sia possibile
coniugare giustizia sociale e giustizia ecologica è oggi fondamentale, e un’attenzione
alle interdipendenze che caratterizzano il sistema nel suo complesso diventa un punto da
cui è impossibile prescindere [Gough 2017]. In questo senso è necessario andare oltre la
centratura sulle sole persone, e comprendere il mondo non umano (o più-che-umano) nel
quadro complessivo, considerando come un ¶{p. 82}ripensamento della
proprietà sociale non possa fare a meno di una riflessione sulla necessità di un
complessivo equilibrio del pianeta. Riconnettere le logiche economiche con il bisogno di
cura della società e dell’ambiente significa riconoscere vecchi e nuovi diritti e
l’interdipendenza che caratterizza i legami sociali. In questa prospettiva assume un
ruolo centrale il concetto di cura e la sua capacità di strutturare le nostre vite, una
cura che implica il mantenimento e la riparazione continua delle strutture del mondo e
delle interdipendenze socioecologiche [Tronto 2015]. Anche perché la riduzione delle
disuguaglianze sociali è sempre più connessa non solo alla dimensione economica ma
soprattutto alla possibilità di vivere in salute e di agire quindi sulle determinanti di
questa per garantire un benessere diffuso.
La possibilità di poter contare su
una proprietà sociale collettiva, ovvero su un welfare state caratterizzato da tutele
ampie e solide, è infatti oggi una delle poche possibilità per essere preparati alla
crisi e all’incertezza che sono la cifra della contemporaneità. Se la vulnerabilità è
una condizione che caratterizza la condizione umana e non umana, un’azione di
ripensamento di cosa voglia dire proprietà sociale rispetto alle linee sopra tracciate
non può quindi prescindere da quanto successo in pandemia, dalle forme che la
solidarietà ha assunto e dal riconoscimento dei limiti e delle possibilità di questa
azione e del sistema socioecologico in cui viviamo.
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