Lavinia Bifulco, Maria Dodaro (a cura di)
Quale welfare dopo la pandemia?
DOI: 10.1401/9788815412003/c4
La definizione di una proprietà sociale segna un passaggio fondamentale: quello che consente sicurezza anche alla classe non proprietaria, prima condannata all’insicurezza sociale permanente e alla lotta per la sopravvivenza. Ed è per questo che il concetto di proprietà sociale può essere utile nel guardare alla situazione dei sistemi di welfare pubblici durante la pandemia, e agli spazi di ripensamento, riorganizzazione e rifondazione di questi oggi: la situazione di incertezza radicale che si sono trovati ad affrontare durante la pandemia ha messo in tensione il rapporto individuo-collettivo, evidenziando l’importanza della solidarietà collettiva per la sopravvivenza stessa dell’individuo. Di fronte alla persistenza delle condizioni di incertezza e di crisi che caratterizzano la società contemporanea, ripensare le forme di proprietà
{p. 79}sociale che caratterizzano la contemporaneità a partire dalle esperienze di solidarietà che sono state costruite in pandemia può essere una strada da percorrere per costruire società più preparate all’incertezza.
Nonostante i noti limiti dei sistemi di welfare, legati da un lato a fattori esterni come i tagli, il sottofinanziamento, l’egemonia delle logiche di mercato che li rendono sempre più residuali, e dall’altro a fattori interni come le forme di disciplinamento che producono e la tendenza ad agire in modo ancillare rispetto alle disuguaglianze create dal sistema economico capitalistico, riparandone le storture ma senza riuscire a metterlo in discussione, la loro esistenza rimane oggi il modo con cui garantire benessere sociale e istituzionalizzare forme di solidarietà sociale e collettiva. Le trasformazioni delineate rispetto al ruolo dello Stato e a quello delle iniziative della società civile durante la pandemia hanno però evidenziato ulteriori limiti di questo modello. La mancanza di accesso a forme di protezione sociale istituzionale per una fetta consistente della popolazione, nonostante l’intervento massiccio dello Stato, ha infatti creato un doppio binario di solidarietà: da un lato un sostegno di tipo istituzionale, per coloro che sono inclusi, e dall’altro un sostegno che guarda agli esclusi e cerca di agganciare anche loro con forme emergenziali di supporto non garantite. Il rischio che si delinea è però quello di una «normalizzazione» di questa forma di intervento, soprattutto nel momento in cui il welfare state si trova sempre di più ad agire in contesti in cui le crisi si moltiplicano [Caselli, Giullari e Mozzana 2021], cioè si trova ad affrontare situazioni che non può prevenire perché legate a processi globali come il cambiamento climatico, le migrazioni, eventi pandemici, ma su cui diventa strumento essenziale di preparazione. Si tratta di crisi di portata tale che stanno attivando attori in grado di apportare forme di solidarietà che si avvicinano più a una logica «umanitaria» [Fassin 2019] che a quella della giustizia sociale e dell’accesso a un paniere di diritti sociali esigibili, anche in paesi tradizionalmente dotati di strutture di welfare pubblico. Non a caso, infatti, si affaccia sulla scena l’intervento da un lato di organizzazioni non governative e {p. 80}dall’altro di collettivi localmente situati che spingono per forme di sostegno mutualistico [Zamponi 2023].
Ma la logica umanitaria che sembra prevalere, è diversa da quella del welfare: parla, come sostiene Fassin [2019], un linguaggio della sofferenza e della compassione, degli affetti e delle emozioni e non quello dell’ingiustizia e dei diritti. È un’azione rivolta solo ai più poveri, deboli, sfortunati, ed è quindi una politica della disuguaglianza, che non mira a cambiare l’assetto socioeconomico e le disuguaglianze che questo produce, ma solamente a fornire un supporto alla popolazione nella situazione di crisi. Ed è una forma d’azione legata all’effimero, che lavora nell’emergenza ma che poi scompare, lasciando inalterata la situazione preesistente. Una logica che però rischia involontariamente di spingere verso una messa in discussione del welfare e dell’accesso a una proprietà sociale collettiva. Alcuni programmi e progettazioni nati in pandemia sono infatti ancora attivi, e coloro che vi sono rimasti agganciati sono i soggetti più vulnerabili, che rimangono in questa condizione di sostegno esterna al welfare che sembra essersi cristallizzata: nonostante la pandemia abbia funzionato da cartina di tornasole dei limiti e dei problemi del welfare pubblico, e abbia reso visibili le condizioni delle fasce più fragili della popolazione, questa visibilizzazione non ha prodotto un riconoscimento istituzionale della loro condizione e della loro esistenza. Al contrario potrebbe prendere forma, soprattutto in alcuni contesti urbani, un modello di rapporto in cui la responsabilità di queste situazioni ricade solo sull’azione civile solidale, volontaria e come abbiamo detto spesso caratterizzata da logiche umanitarie. Il meccanismo di delega istituzionale dell’azione solidale che sembra emergere per alcune fasce marginali della popolazione rischia quindi di mettere gli attori di governo al riparo dall’obbligo di ripensare il modo in cui si costruisce l’accesso alla proprietà sociale in termini di inclusione nella sfera dei diritti e della cittadinanza sociale, lasciando che parte della popolazione, la cui condizione di fragilità e vulnerabilità è diventata visibile con la pandemia, rimanga con un accesso ai diritti minimo o assente, e col rischio ulteriore che il sostegno {p. 81}possa svanire da un momento all’altro perché legato non a un diritto legittimamente esigibile ma a un’azione volontaria. L’incapacità delle istituzioni di reagire prontamente alle sollecitazioni date dall’emersione di vecchi e nuovi bisogni, che si sono affacciati sulla scena del welfare in pandemia in modo rilevante qualitativamente e quantitativamente, rimane quindi un nodo cruciale dell’agenda pubblica su questi temi, e apre la possibilità e la necessità di ripensare le forme della protezione sociale e i suoi strumenti. Un ripensamento che si rende necessario nel momento in cui l’accesso a forme di supporto collettivo e pubblico si è reso così cruciale, come messo in luce dall’esperienza pandemica, quando è diventato evidente come gli sforzi per contrastare i fattori strutturali e di lungo termine che producono le disuguaglianze sociali siano fondamentali per essere preparati a reagire a situazioni di crisi ed emergenza [Caselli, Giullari e Mozzana 2021].
Un ripensamento delle fondamenta del welfare che può prendere avvio a partire da alcune questioni. In primo luogo da una focalizzazione sulla dimensione democratica della sua definizione: la capacità di ripensare e ridare sostanza politica all’azione solidale da parte dei gruppi che hanno agito in questo frangente storico, e delle persone che sono state in diversi modi supportate da questa azione, può diventare un ingrediente fondamentale per costruire nuove forme di protezione sociale. In questo senso si apre la necessità di aggiungere voci, logiche, prospettive e vocabolari per ripensare il quadro complessivo, cercando di agire in questo modo sul livello della definizione dei problemi e non solo a valle sulla loro soluzione, per immaginare l’inimmaginabile e aspirare oltre l’orizzonte del prevedibile [Appadurai 2004]. In secondo luogo, è necessario che questa apertura tenga conto dei limiti socioecologici del pianeta: una riflessione su come sia possibile coniugare giustizia sociale e giustizia ecologica è oggi fondamentale, e un’attenzione alle interdipendenze che caratterizzano il sistema nel suo complesso diventa un punto da cui è impossibile prescindere [Gough 2017]. In questo senso è necessario andare oltre la centratura sulle sole persone, e comprendere il mondo non umano (o più-che-umano) nel quadro complessivo, considerando come un {p. 82}ripensamento della proprietà sociale non possa fare a meno di una riflessione sulla necessità di un complessivo equilibrio del pianeta. Riconnettere le logiche economiche con il bisogno di cura della società e dell’ambiente significa riconoscere vecchi e nuovi diritti e l’interdipendenza che caratterizza i legami sociali. In questa prospettiva assume un ruolo centrale il concetto di cura e la sua capacità di strutturare le nostre vite, una cura che implica il mantenimento e la riparazione continua delle strutture del mondo e delle interdipendenze socioecologiche [Tronto 2015]. Anche perché la riduzione delle disuguaglianze sociali è sempre più connessa non solo alla dimensione economica ma soprattutto alla possibilità di vivere in salute e di agire quindi sulle determinanti di questa per garantire un benessere diffuso.
La possibilità di poter contare su una proprietà sociale collettiva, ovvero su un welfare state caratterizzato da tutele ampie e solide, è infatti oggi una delle poche possibilità per essere preparati alla crisi e all’incertezza che sono la cifra della contemporaneità. Se la vulnerabilità è una condizione che caratterizza la condizione umana e non umana, un’azione di ripensamento di cosa voglia dire proprietà sociale rispetto alle linee sopra tracciate non può quindi prescindere da quanto successo in pandemia, dalle forme che la solidarietà ha assunto e dal riconoscimento dei limiti e delle possibilità di questa azione e del sistema socioecologico in cui viviamo.

Riferimenti bibliografici

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Note