Lavinia Bifulco, Maria Dodaro (a cura di)
Quale welfare dopo la pandemia?
DOI: 10.1401/9788815412003/c4
Sul fronte dei servizi, Pavolini, Sabatinelli e Vesan [2021] mettono in luce come anche qui l’intervento pubblico sia stato sostanziale e abbia avuto diverse modalità: una più «routinaria», legata soprattutto alla prima fase della pandemia, che ha ricalcato il tradizionale repertorio degli strumenti di policy e che ha implicato un aumento di finanziamenti; una seconda invece «temporanea», che ha riguardato interventi in cui sono state introdotte novità ma limitate nel tempo, come soluzioni di breve periodo,
{p. 74}relative soprattutto alle trasformazioni delle modalità di lavoro e chiusura/apertura di servizi specifici; e una terza più strutturale, che ha previsto strumenti, obiettivi e target di beneficiari nuovi, sostanzialmente avviata con il Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Secondo alcuni, l’urgenza di sostenere i redditi ha accentuato una caratteristica tipica del nostro sistema di welfare, ovvero la preferenza verso i trasferimenti in denaro rispetto ai servizi [Baldini e Scarchilli 2021], ma ha anche messo in luce l’inadeguatezza strutturale dei sistemi di welfare rispetto alla capacità di intervenire in modo tempestivo e universale di fronte al verificarsi di crisi che possono presentarsi in modo improvviso, e su cui l’esistenza di un sistema di protezione collettiva può fare la differenza in termini di capacità di resistere alla crisi.
Questo ha posto un altro tema fondamentale, ovvero quello dei diritti sociali e dei rispettivi interventi di policy, siano essi misure di sostegno al reddito [Vesan, Gambardella e Morlicchio 2021] o servizi [Pavolini, Sabatinelli e Vesan 2021]. Come affermato sopra, quando prende forma l’emergenza sociale, il sistema di protezione sociale italiano si trova in una situazione di frammentazione, debolezza e inconsistenza dei diritti, ma è anche sotto stress per i tagli di spesa e le trasformazioni in termini di marketization nel welfare pubblico degli ultimi decenni (con, tra le altre, l’aumento delle esternalizzazioni e la riduzione del personale, l’utilizzo di procedure di rendicontazione rigide e l’ingresso di logiche economiche) [Crouch, Eder e Tambini 2001]. La necessità impellente di supporto ha però fatto sì che il sistema sperimentasse forme nuove di relazione tra le autorità pubbliche e i cittadini per garantire una maggiore facilità di accesso alle forme di sostegno avviate e porre rimedio agli impedimenti che caratterizzano le possibilità di esercizio dei diritti sociali, rendendo più immediata la possibilità di accedere alle misure. In questo senso il ruolo dell’attore pubblico ha subito delle trasformazioni rispetto al passato: in un contesto caratterizzato dall’egemonia del neoliberismo e quindi da una diffidenza generalizzata rispetto all’intervento dello Stato, questo si è trovato ad {p. 75}assumersi responsabilità sempre maggiori nei confronti dei cittadini per affrontare le conseguenze economiche, sociali e sanitarie causate dalla pandemia in corso. Al punto che si è da più parti parlato di un «ritorno dello Stato» e di un suo rinnovato ruolo in senso interventista, anche in relazione, come ben argomenta Pennacchi [2023], alla strutturalità della crisi, che in una situazione di totale incertezza chiama in causa un intervento pubblico «non solo come “facilitatore” e alimentatore di condizioni permissive, ma come creatore diretto, motore e traino dello sviluppo» [ibidem, 59]. In Italia, infatti, un’azione di politica economica volta a sostenere in questo modo il reddito dei lavoratori e dei cittadini non ha precedenti nella storia repubblicana [Barbieri et al. 2021], ma rimane da capire se questo intervento rimarrà un «una tantum», come i bonus per i lavoratori autonomi o il reddito di emergenza, o se prenderà avvio una ri-fondazione del ruolo pubblico dello Stato, inteso come capacità di costruire un nuovo modello di società e forme nuove di protezione sociale che, come vedremo nel terzo paragrafo, siano in grado di guardare alle trasformazioni in atto in una prospettiva socioecologica.

2.2. … e l’azione ai margini

Se il livello statale ha avuto un ruolo importante in questo frangente, a livello locale la solidarietà si è dispiegata in modi e con prospettive anche inedite. Quello che si è potuto osservare infatti è stato un moltiplicarsi di iniziative, le più svariate, a diversi livelli e con differenti capacità d’azione: alcune effimere, altre più strutturate e strutturali, alcune istituzionali (pensiamo all’intervento relativo alla solidarietà alimentare da parte del Ministero dell’Interno, che ha stanziato complessivamente 900 milioni di euro per sostenere la spesa alimentare dei cittadini), altre di tipo auto-organizzato da parte di gruppi, associazioni, realtà di varia natura spesso già presenti sul territorio, che hanno messo a disposizione tempo, forze e risorse per sostenere la fragilità dei territori o per ovviare a una serie di limitazioni imposte dalla pandemia.{p. 76}
La letteratura ha messo in luce come l’azione dei governi locali in termini di solidarietà sia stata problematica: alcuni evidenziano il progressivo peggioramento del processo decisionale e la debole capacità di implementare iniziative in un contesto caratterizzato da un ampio margine di incertezza [Sampugnaro e Santoro 2021], altri le difficoltà a raggiungere le fasce più marginali della popolazione [Bifulco, Dodaro e Mozzana 2022] che, come abbiamo osservato sopra, non sempre sono state supportate dagli interventi previsti [Pianta, Lucchese e Nascia 2021]. La limitatezza degli strumenti standard del welfare nel rispondere all’emergenza sociale ha assunto dimensioni consistenti anche per la messa in fragilità di una larga fetta di popolazione: ha impattato in modo maggiore su coloro che si trovavano in condizioni di lavoro caratterizzate da precarietà e informalità (donne, giovani e migranti) [Brandolini 2022; Caritas 2020]; ma anche chi aveva una posizione lavorativa più stabile si è trovato esposto a rischi importanti nel momento in cui l’equilibrio in cui si trovava si è rotto a causa di un evento esterno. Dal canto suo, il sistema di protezione sociale istituzionale difficilmente è riuscito a riconoscere l’emergere di questi bisogni e di queste situazioni, con un evidente deficit in termini di risposta [Caselli, Giullari e Mozzana 2021].
In questo contesto, un ruolo significativo è stato dunque giocato dalla società civile, che si è organizzata attraverso iniziative di solidarietà di base coinvolgendo un’ampia gamma di attori, da ONG affermate a gruppi politici radicali, fino a specifiche reti formate da singoli cittadini [Zamponi 2023]. Si tratta di esperienze nate con l’intento di portare supporto materiale a chi è stato maggiormente colpito dal lockdown, in alcuni casi anche in relazione con le istituzioni locali, come nel caso di Milano [Bifulco, Dodaro e Mozzana 2022], ma molto più spesso in aperto conflitto con queste. Alcune sono nate da organizzazioni e reti sociali già esistenti prima dell’avvento della pandemia, come Emergency, Action Aid o la rete dei circoli ARCI e ACLI e altre associazioni mutualistiche; altre si sono basate sull’esperienza di attori politici locali della sinistra radicale, come le sezioni di Potere al Popolo o di circoli operai locali o centri sociali autorga{p. 77}nizzati; altre ancora sono state iniziative nate ad hoc come risposta alla pandemia, e che in molti casi hanno attivato supporto mutualistico.
La loro nascita ed evoluzione ha provato dunque a superare i limiti degli aiuti ordinari e anche straordinari che si sono rivelati insufficienti. L’azione pubblica statale è stata supportata in questo frangente dall’azione di gruppi e reti che hanno occupato uno spazio rimasto vuoto, quello del supporto alle fasce più marginali della popolazione. È stato infatti il lavoro ai margini che ha caratterizzato l’azione di queste esperienze, che hanno avviato rispetto alla loro azione un processo di ripoliticizzazione di alcune questioni [Dodaro, Mozzana e Anselmo 2021; Vitale 2020], con una riorganizzazione in chiave politica di contenuti e forme della solidarietà: il sostegno alimentare in particolare, fino a quel momento operato da realtà cattoliche locali, è diventato un modo per evidenziare bisogni sociali materiali insoddisfatti, tra cui sicuramente quello alimentare ma anche quello di cura della collettività attraverso la rottura dell’isolamento, nell’ottica di promuovere nuove relazioni sociali e politiche, e un modello di solidarietà fondato sul mutualismo (secondo lo slogan «distanziamento fisico, solidarietà sociale»).

3. Quale solidarietà nell’epoca dell’incertezza sistemica?

Le trasformazioni tratteggiate nel paragrafo precedente sembrano mettere in tensione il concetto stesso di solidarietà sociale e come questa viene concepita e praticata. Se questa nelle società ad alto reddito è stata variamente istituzionalizzata negli anni con la definizione di sistemi di welfare pubblici, per cui i diritti sociali sono tendenzialmente garantiti attraverso uno Stato sociale che può essere più o meno ad accesso universale a seconda dei paesi e delle tradizioni di welfare, il momento storico che stiamo ancora vivendo ci spinge a ripensare la solidarietà e le modalità con cui questa prende forma nel tessuto sociale odierno [Bernardi 2021]. Quanto accaduto in pandemia, inoltre, solleva alcune questioni sulle trasformazioni delle forme di {p. 78}solidarietà collettiva istituzionale per come le conosciamo. In particolare, tematizza il rapporto tra individuale e collettivo, avendo evidenziato quanto sia stato necessario il supporto collettivo per la sopravvivenza delle persone, e a seguire mette in tensione come questo possa essere e venga istituzionalizzato e si possa trasformare in diritti sociali formalmente esigibili e praticabili. Si tratta di processi che richiamano la fondazione dei sistemi di protezione sociale così come li conosciamo, e le modalità con cui la vulnerabilità di massa e la precarietà della condizione umana nelle società occidentali dal dopoguerra in poi sono state affrontate costruendo il welfare state. È Robert Castel che porta in primo piano la questione del rapporto tra individuale e collettivo, avendo evidenziato quanto sia stato necessario il supporto collettivo per la sopravvivenza delle persone nel processo di consolidamento della condizione salariale e di trasformazione del lavoro [Castel 2004]. È in questa riflessione che il sociologo francese innesta il concetto di proprietà sociale, ovvero un tipo di proprietà che consente a chi non è proprietario di restare al di fuori della proprietà privata senza però allo stesso tempo essere a corto di sicurezza. Lo sviluppo della proprietà sociale e dei servizi pubblici rappresenta così la realizzazione e l’istituzionalizzazione del programma solidaristico, contro l’espansione degli effetti perversi del mercato libero [Castel e Haroche 2013].
La definizione di una proprietà sociale segna un passaggio fondamentale: quello che consente sicurezza anche alla classe non proprietaria, prima condannata all’insicurezza sociale permanente e alla lotta per la sopravvivenza. Ed è per questo che il concetto di proprietà sociale può essere utile nel guardare alla situazione dei sistemi di welfare pubblici durante la pandemia, e agli spazi di ripensamento, riorganizzazione e rifondazione di questi oggi: la situazione di incertezza radicale che si sono trovati ad affrontare durante la pandemia ha messo in tensione il rapporto individuo-collettivo, evidenziando l’importanza della solidarietà collettiva per la sopravvivenza stessa dell’individuo. Di fronte alla persistenza delle condizioni di incertezza e di crisi che caratterizzano la società contemporanea, ripensare le forme di proprietà
{p. 79}sociale che caratterizzano la contemporaneità a partire dalle esperienze di solidarietà che sono state costruite in pandemia può essere una strada da percorrere per costruire società più preparate all’incertezza.
Note