Quale welfare dopo la pandemia?
DOI: 10.1401/9788815412003/c12
a)
Adottare un approccio sistemico. Non è più possibile pensare che i
problemi del welfare siano risolvibili senza un coordinamento con un fascio di politiche: le
politiche fiscali; le politiche industriali, le politiche per lo sviluppo e quelle per
l’occupazione, la cui debolezza è solo in parte legata alla incerta adesione dell’Italia
agli indirizzi europei in tema di politiche attive per il lavoro; le politiche per il
territorio (si pensi alle vulnerabilità territoriali oltre che ai divari che affliggono il
nostro paese). Il «nuovo patto» che andrebbe messo alla base del welfare del dopo-Covid deve
necessariamente abbracciare più politiche, travalicando confini che sono stati istituiti e
naturalizzati decenni orsono. Altrimenti il welfare da un lato sarà destinato a essere
sempre più residuale, un welfare per i molto poveri. Dall’altro lato, nonostante la sua
residualità, sarà sottoposto a uno stress finanziario crescente, per il doppio vincolo di
problemi sociali in aumento (come si può pensare che in assenza di lavoro decente non
aumenti la povertà?) e risorse in diminuzione (oltre la parentesi del PNRR, occorrerà pur
porsi il problema di come la tassazione in Italia possa operare effettivamente sia come
meccanismo della solidarietà collettiva su base nazionale sia come meccanismo per
ridistribuire valore). Un approccio sistemico chiama naturalmente in causa anche gli altri
livelli di governo, in particolare il quadro normativo europeo e le politiche di
contenimento della spesa pubblica. In ogni caso, da una prospettiva sistemica occorre capire
come riversare in scelte concrete la rinnovata attenzione e preoccupazione che il discorso
pubblico nella pandemia ha dedicato alle questioni ambientali e ai problemi ecologici
indotti dai nostri modelli di crescita. La questione è, difatti, non solo o non tanto
ritornare al passato ma fare fronte alle incertezze, sociali ed ecologiche, del nostro tempo
presente e futuro. Si parla sempre più spesso a tale proposito di uno «stato socioecologico»
le cui fondamenta di solidarietà
¶{p. 210}poggiano sul riconoscimento
dell’interdipendenza fra le questioni della giustizia sociale e quelle, altrettanto
cruciali, della giustizia ambientale.
b)
Ricostruire un welfare pubblico. Ricostruire vuol dire che molto è
stato distrutto. I numeri implacabili sulle (sempre minori) risorse a disposizione del
sistema pubblico sono una faccia della questione. L’altra faccia è la perdita di
intelligenze e competenze, un processo di deskilling che in modo
carsico è avvenuto in questo ultimo trentennio, a causa dell’adesione spesso incondizionata
al New Public Management. Fra i numerosi problemi che l’attuazione di
questo modello ha reso evidenti, vi è infatti quello della drastica riduzione delle capacità
delle amministrazioni pubbliche di operare come ambiti organizzativi di apprendimento
condiviso su come progettare e fare innovazione [Mazzucato e Collington 2023]. Chi si è
occupato della implementazione del PNRR sa quanto ha pesato negativamente sulle
amministrazioni pubbliche la povertà di competenze progettuali generatasi a seguito di
decenni di applicazione di un modello che impone la razionalità economica come parametro
esclusivo di qualità dell’organizzazione e del lavoro, non importa quanto entrambi siano
frammentati, poco coordinati e sostanzialmente in difficoltà nel definire e perseguire
quello che Mazzucato e Collington [ibidem] chiamano «valore
collettivo». Ricostruire un welfare pubblico significa dunque ridisegnare radicalmente
l’infrastruttura organizzativa delle amministrazioni pubbliche a cominciare dalle
competenze, dai ruoli e dai criteri di riconoscimento delle carriere di chi vi lavora.
c)
Riconnettere cittadinanza sociale e democrazia. Nella ricostruzione
di un welfare pubblico convergono molte altre questioni ovviamente, tutte cruciali, a
cominciare dal ruolo dello Stato che, come dicevamo nel capitolo primo, è fortemente
chiamato in causa dal post-Covid. In queste note conclusive ci limitiamo a dire qualcosa su
un tema rimasto finora sottotraccia: la cittadinanza sociale che, come sosteneva Marshall
[1950], è ciò che consente di partecipare pienamente al retaggio sociale. Che ci si intenda
oppure no sul significato del termine «partecipare», la cittadinanza
¶{p. 211}sociale rimanda in ogni caso sia a dotazioni di risorse sia a
poteri di agency, individuale e collettiva [Benassi e Mingione 2024].
In quest’ottica, le forme di partecipazione che sono implicate vanno necessariamente oltre
la partecipazione al mercato, che è essa stessa causa delle disuguaglianze che le politiche
di welfare hanno lo scopo di alleviare, quando non sono collegate alla posizione occupata
nel mercato del lavoro finendo per rafforzarle (si pensi al welfare occupazionale). Sulla
partecipazione al mercato fanno invece perno molte traduzioni concrete dell’approccio
dell’investimento sociale, che dovrebbe ispirare la riorganizzazione dei sistemi di welfare
europei, come testimonia l’enfasi in molti contesti sull’occupabilità e il capitale umano,
sull’attivazione, ma anche sui servizi di cura quando intesi per lo più come strumenti per
facilitare l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, più che come un modo per
accrescere risorse e poteri tanto dei care-givers quanto dei
care-receivers [Saraceno 2013]. Se si considerano le vicende
storiche che diedero vita nel secolo scorso al «nuovo patto» fra Stato e cittadini, diventa
chiaro il fatto che i diritti di cittadinanza sono strettamente intrecciati non solo a
questioni distributive o di correzione dei «fallimenti» del mercato ma anche, centralmente,
a questioni di democrazia. Come ha sottolineato Esping-Andersen anni fa «democrazia e stato
sociale sono intrecciati l’uno all’altro come fili di uno stesso tessuto» [1999, 22].
Il futuro non può che ripartire da qui.
Una volta tanto la situazione non è così disperante. Esperienze di
governance democratica delle politiche sociali sono da un po’ in
corso prevalentemente nei welfare locali, di diverso tipo, livello e solidità. La lunga
stagione della partecipazione sociale si è affievolita ma non si è spenta del tutto. Il
futuro delle Case di Comunità – in teoria il pilastro del Servizio sanitario nazionale del
prossimo futuro – si gioca in buona parte proprio su questo: sulla capacità di includere e
promuovere al tempo stesso la voce e l’agency dei cittadini, creando in
questo modo comunità non fittizie ma reali perché realmente capacitanti.
d)
Riorganizzare e ripensare i formati della conoscenza sul welfare.
Il mestiere di chi ha contribuito a questo volume è ¶{p. 212}esattamente
questo: fare e trasmettere conoscenza. Dunque il tema ci riguarda in prima persona. Quanto
prima segnalato sulle competenze nelle amministrazioni e nei servizi di welfare rende
evidente la necessità di agire sui modelli formativi che l’università e altre istituzioni
producono e veicolano al tempo stesso. Aggiungiamo che anche la ricerca sul welfare va
ripensata, ponendo al centro la dimensione normativa e in senso lato politica di questo
dominio di analisi. Quel che dicevamo a proposito di cittadinanza sociale e democrazia
conferma questa necessità. In questo senso la cittadinanza è anche un costrutto polisemico,
i cui contorni e contenuti variano nel tempo e in base alle culture politiche e sociali
localmente situate. Ne consegue che è anche uno spazio conteso, come prova per esempio lo
slittamento, semantico-politico verso quella che viene definita «cittadinanza economica», di
cui si dà conto nel libro. In sostanza, e per ritornare ai temi lanciati nel primo capitolo,
occorre restituire al welfare come oggetto di studio la sua valenza politica. In termini
molto convinti, è quanto propone Laruffa a proposito di quella che definisce la
postneoliberal citizenship [2022, 390], in cui gli obiettivi
sociali sono interconnessi con quelli di democratizzazione. Laruffa sottolinea la necessità
di invertire il processo di lenta ma progressiva deresponsabilizzazione dello Stato,
decostruendo i presupposti normativi che fanno apparire le scelte come inevitabili e
necessarie, e chiamando in causa anche studiosi e studiose di politiche sociali rispetto
alla capacità di riconoscere il carattere affatto «neutrale rispetto ai valori» o
«obiettivo» della conoscenza, che è invece un campo caratterizzato da contraddizioni e
conflitti [ibidem, 13]. Comunque sia, oggi più che mai il confronto con
l’incertezza radicale che permea il nostro mondo, nutrita dall’intreccio micidiale fra
eventi pandemici, scenari di guerra, crisi ambientali, richiede che la dimensione sociale
dei problemi, ma anche quella politica del welfare, sia riconosciuta: il che significa
portare al centro visioni, opzioni, obiettivi di lungo periodo e direzioni possibili
relative a come attrezzarsi rispetto a un futuro imprevedibile.¶{p. 213}
Sembra in conclusione di poter
confermare che la pandemia ha aperto uno spiraglio per prefigurare le dinamiche di
cambiamento che potrebbero informare il nostro futuro. Alcune cose sono comunque più chiare:
la nostra interdipendenza da comunità solidali, risorse pubbliche e stati insieme
«interventisti» e inclusivi. Sapendo che la sfida politica lanciata dalle crisi che stiamo
ancora vivendo non è, in fondo, quella di prepararsi al futuro ma quella di preparare un
futuro.
Riferimenti bibliografici
Benassi, D. e Mingione, E. [2024],
Citizenship and the welfare state. T.H. Marshall, in M.S.
García Cabeza (a cura di), Encyclopedia of Citizenship Studies,
Cheltenham, Edward Elgar.
Castel, R. [1995], Les
métamorphoses de la question sociale, Paris, Fayard.
Esping-Andersen, G. [1999],
Social Foundations of Postindustrial Economies, Oxford, Oxford
University Press.
Laruffa, F. [2022],
Toward a post-neoliberal social citizenship?, in
«Constellations», 29, 3, pp. 375-392.
Marshall, T.H. [1950],
Citizenship and Social Class, Oxford, Oxford University Press.
Mazzucato, M. e Collington, R.
[2023], Il grande imbroglio, Bari-Roma, Laterza.
Saraceno, C. [2013],
Three concurrent crises in welfare states in an increasingly asymmetrical
European Union, in «Stato e Mercato», 33, 3, pp. 339-358.