Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c3
Una madre immigrata, sfruttata nei campi gestiti dal caporalato, in condizioni di vita degradanti, spiega come incontrare i servizi sociali comporti il rischio di essere valutati come genitori non adeguati; è dunque preferibile «stare distanti» da servizi che controllano più che aiutare, quando non risol
¶{p. 89}vono le cause strutturali, ovvero in assenza di possibilità concrete di risolvere le gravi condizioni di precarietà che caratterizzano il contesto in cui si vive:
Molti di noi, con lo stesso vissuto in campagna, in isolamento, ancora oggi pensiamo sempre la stessa cosa «se gli assistenti sociali vengono a sapere della mia situazione me la tolgono [la figlia]».
L’iniziativa proattiva dei servizi sociali in questi casi è spesso rifuggita dai genitori, anche quando realmente potrebbero godere dell’aiuto e della protezione di servizi; questa dinamica produce in tal modo l’effetto paradossale di tenere distanti dai servizi proprio coloro che per la complessità della loro condizione ne avrebbero maggiore necessità.
6.2. Filtro formale
Il quadrante in basso a sinistra emerge dall’intersezione tra la «modalità separazione» e un posizionamento del servizio «in attesa». Spesso il setting comunicativo risponde alle regole dettate dall’organizzazione dei servizi, l’accesso è filtrato da requisiti di competenza, l’offerta di aiuto è in relazione a categorie predefinite che, in quanto tali, escludono la comprensione della specificità, particolare e per certi versi unica, della situazione. Coerentemente all’idealtipo di questo quadrante, il modello di lavoro sociale è di tipo burocratico [Fargion 2013, 32]. In esso gli assistenti sociali sentono di doversi attenere alle procedure formali, limitano le modalità d’aiuto a quanto previsto dai parametri dettati da norme e regolamenti e sembrano mantenere un’implicazione empatica bassa.
In quel caso lì – dice un papà omosessuale intervistato – chi hai di fronte non esprime niente riguardo ad un’eventuale empatia, in questo genere cioè loro fanno il loro lavoro e punto.
Spesso il ritmo di lavoro del servizio è pressante e pare non esservi spazio per coltivare la relazione. Racconta un’assistente sociale che ha di recente cambiato sede di lavoro:
(…) c’è un carico di utenza molto importante e quindi a volte manca anche il tempo di dedicarsi a quel nucleo e entrare esattamente… perché non hai tempo, perché c’è la commissione domani e dobbiamo dare il contributo, e dimmi qual è il bisogno principale e lo mandiamo [all’esame della commissione], quindi hai un po’ questa fretta… dettata da tempi non nostri e da carichi di lavoro un po’ esagerati. (…) Dovevi selezionare quelli che ti sembravano più o meno urgenti, altri lasciarli per il mese dopo.
Talora il riferimento alle prassi formali sembra difendere gli operatori dalle «pretese» dei cittadini e l’impegno del professionista sembra spen¶{p. 90}dersi per «far capire» come funzionano i servizi. Da una voce di assistente sociale:
Si lavora all’interno di una struttura ovviamente, non si può pensare che decidiamo le cose tra di noi no? Quindi [bisogna far] capire chi è il responsabile, perché devi chiedere, aspettare magari dei tempi tecnici, anche solo per aspettare il classico contributo economico, tu mi fai la richiesta oggi, io la mando a una commissione che si riunisce magari tra 20 giorni, poi la commissione ti dice di no per X motivi. Vagliela a spiegare che io ho presentato la domanda.
Per altro verso, alcune persone accedono ai servizi con una motivazione estrinseca, ove l’interesse all’interazione è strumentale per ottenere qualche beneficio [ibidem, 65]; persone che hanno bisogno d’aiuto perciò devono chiedere, ma al contempo non intendono ingaggiarsi in uno spazio che implica relazione e scambio che invada il proprio «mondo». Emblematicamente un’assistente sociale, in merito all’atteggiamento di un genitore che chiede un aiuto economico, lamenta la difficoltà a valutare la situazione quando la persona non intende condividere informazioni:
(…) però a quel punto dobbiamo entrare un pochino più in relazione perché c’è qualcosa di più… chiusura totale [da parte del genitore]! (…) appena si è aperto questo spiraglio, che bisognava andare un pochino più a fondo: chiusura totale; cioè, per fare un’indagine… ma era un’indagine minima, (…) [lui] non veniva [più] al servizio, non veniva all’appuntamento.
Una madre sola, con una figlia di 6 anni, sul suo rapporto con i servizi commenta:
Sono io che sono andata da loro a chiedere una mano per problemi economici, poi una volta che mi sono trovata il lavoro i servizi li saluto e arrivederci! Non c’è un nessun altro legame con loro, capito?
Il filtro selettivo dei contenuti da scambiare pare funzionare, dunque, a doppio senso; la cornice formale agisce da schermo comunicativo, sembra proteggere gli operatori dalla pressione delle domande che ricevono, ma anche i potenziali assistiti che vivono la relazione come umiliante.
Una madre manifesta apertamente il suo risentimento per la dignità ferita in relazione a un’offerta di aiuto standardizzata che ha vissuto come mancanza di cura e riconoscimento dei bisogni propri e della sua famiglia:
Poi se magari chiedi all’assistente sociale aiuto, oppure magari vai al Comune, ti mandano magari una busta, come già successo, un sacchetto con un mezzo chilo di pasta, dei fagiolini e un tonno. Non ne voglio, preferisco andare al negoziante e chiedergli di farmi fare una bella spesa per i miei figli e non avere una.. perché per me questa è un’elemosina, una busta… cioè, se la possono mangiare loro! Se ¶{p. 91}la possono tenere loro perché io non la voglio… perché non è così che si aiutano le persone…
Un padre che si è rivolto ai servizi sociali dice:
Ma noi non vogliamo essere un caso. Noi siamo Stefano, Carlo, Filippo e se abbiamo delle difficoltà, grave non grave, aiutateci a mettere in campo delle soluzioni non delle giustificazioni.
Il filtro risulta selettivo anche sui tempi e i modi di relazione quando esclude il riconoscimento dei bisogni della persona come unici e particolari, nel loro emergere. Parlando dei servizi sociali una mamma straniera, in Italia da 7 anni, si esprime così:
Tu quel giorno sei depressa, quel giorno ti manca il latte, quel giorno hai bisogno di sfogarti, di parlare con qualcuno tu non mi puoi dire «chiedi appuntamento»… prendi appuntamento e poi mi richiami dopo 3 mesi, perché quando mi richiami io non mi ricordo neanche perché t’ho chiamato quel giorno.
Risposte formali da parte dell’assistente sociale come: «Mi dispiace, non c’è niente che possiamo fare», sono altrettanto percepite come inautentiche e come un invito a chiudere la relazione, non tanto a causa della negazione di una prestazione richiesta, ma per il modo di comunicare che fa sentire chi chiede più solo e separato da chi sarebbe deputato all’aiuto.
6.3. Accoglienza
Il quadrante in basso a destra emerge dalla convergenza della «modalità comprensione» e del posizionamento «in attesa». In questo spazio si collocano le relazioni d’aiuto/servizio che si instaurano nel contesto dei servizi sociali secondo la modalità del cittadino che si reca nella sede di servizi che restano in attesa, senza muoversi verso le persone né in termini fisici, né adattando le proprie regole in relazione ai bisogni emergenti; l’incontro si svolge prevalentemente nell’ufficio dell’assistente sociale, ma a differenza di quanto indicato per il quadrante «filtro formale», la relazione professionale si manifesta come accogliente ed empatica. Il baricentro dell’aiuto è bilanciato sulla qualità della comunicazione reciproca e della condivisione, più che sull’erogazione di prestazioni. La connotazione dell’attesa denota sia il fatto che in questi casi è l’assistente sociale che attende l’arrivo delle richieste di aiuto, sia che i tempi di relazione sono comunque sagomati dall’attesa necessaria imposta dal funzionamento organizzativo. L’assistente sociale attende il cittadino secondo ritmi di ricevimento concordati, il cittadino che cerca aiuto attende convocazioni, comunicazioni, erogazioni, secondo i ritmi che ¶{p. 92}l’istituzione impone. La dinamica si focalizza nella relazione interpersonale: è la persona con i suoi vissuti, i suoi sentimenti, i suoi personali bisogni, a essere accolta e a ricevere l’attenzione dell’assistente sociale, che con ascolto attivo recepisce e restituisce le potenzialità di cambiamento della persona individualmente incontrata, ne sostiene l’autodeterminazione [Cellini e Dellavalle 2015, 34-54]. Con riferimento alle sfere del riconoscimento honnethiano, è la prima, quella del riconoscimento primario, a essere prevalentemente interpretata. Oppure, adottando la tripartizione più classica nella letteratura del servizio sociale italiano detta della «trifocalità» [Gui 2022, 748-752], è il primo «fuoco», quello dell’attenzione concentrata sulla persona, a essere maggiormente adottato, mentre gli altri due fuochi (per il cambiamento nella comunità e nelle istituzioni) o le altre due sfere (per il riconoscimento giuridico e per il riconoscimento sociale) rimangono solo di sfondo o sono addirittura assenti.
A differenza di quanto indicato per il quadrante del filtro formale, qui la relazione non frappone distanza emotiva. L’assistente sociale si mette nei panni di chi accoglie e spesso anche la persona accolta, pur subendo i limiti della rigidità istituzionale, cerca di comprendere il suo/la sua assistente. Un assistente sociale di un ente di terzo settore, parlando di un genitore in difficoltà riferisce:
(…) e lui poveretto, qualsiasi cosa avesse bisogno, qualsiasi idea, pensiero, veniva, te lo portava, magari parlavamo anche 10 volte delle stesse cose, eh? Però si capiva che voleva avere un contatto, aveva capito che noi potevamo essere una risorsa.
Un’assistente sociale che si occupa di persone immigrate per una cooperativa sociale, dice:
E quindi bisogna in qualche modo rasserenarli, sul fatto che chiedere aiuto ai servizi sociali non significa andare a dichiarare una propria incompetenza…
Vi è empatia da parte degli operatori e consapevolezza di quanto il contesto e le prassi per chiedere aiuto possano essere motivo di difficoltà; lo esplicita così un’assistente sociale che lavora nei servizi sociali comunali di una città del Nord Italia:
Io immagino che sia doloroso in realtà ammettere di non riuscire a farcela e andare a chiedere aiuto consapevoli che ti può anche essere chiusa una porta, perché tante volte noi diciamo «non possiamo aiutarti in questa cosa» quindi il percorso che ci sta a monte sono convinta che sia difficile (…) prima di arrivare qua.
La disposizione relazionale comprendente pare mitigare il disagio e convertirlo, almeno in parte, in possibilità d’aiuto. Una mamma immigrata, dell’incontro con l’assistente sociale racconta:¶{p. 93}
Mi ricordo un episodio in cui ero completamente distrutta dentro, non sapevo più a chi rivolgermi, avevo solo voglia di sfogarmi, non sapevo cosa fare in quella mia situazione e mi sono rivolta all’ufficio, entrando piangendo e sentivo come se volessi tirar fuori qualcosa. L’unica cosa è stata vedere… negli occhi di [nome dell’operatrice] e subito io sono crollata nel pianto trovando in lei supporto e sostegno.
Frequentemente, nell’ambito di queste relazioni, anche quando non avesse luogo la prestazione assistenziale attesa, la persona assistita giustifica l’assistente sociale per i vincoli a cui è anche lei/lui comunque è sottoposto. Un padre omosessuale, con il suo partner, riferisce in merito al loro incontro con gli operatori nei servizi:
Quello che a me ha colpito è stato l’ASL, quando ti trovi di fronte persone [gli operatori] (…) che alla fine si scusano, si sentono anche in imbarazzo perché poi l’istituzione per la quale lavorano non riesce a creare una parità per le persone che hanno davanti a loro.
Una mamma in difficoltà economica, pur rammaricata di non aver ricevuto quanto sperato, non incolpa l’assistente sociale, distinguendola dal sistema istituzionale di cui è in qualche modo succube:
dipende anche dalle amministrazioni che ci sono a monte, di come [hanno] intenzione di governare e di mettere gli aiuti che lo Stato dà.
L’istituzione è percepita come «distante», non in grado o senza la volontà di riconoscere i bisogni delle persone, ma gli assistenti sociali possono fare la differenza, comprendendo. Lo spiega in modo efficace un padre italiano in condizioni di difficoltà economica:
Io quando vado da loro sto bene perché io parlo con la mia assistente sociale, mi aiuta molto e quando parlo con lei mi fa stare bene, quando io ho un problema io chiedo questo piccolo aiuto fin che si può, poi il comune non si può, non può fare niente… poi il comune può pensare come fa ad andare avanti così… ma con la mia assistente sociale ho un bel rapporto, spero di rimanere.
6.4. Alleanza
Da ultimo, consideriamo il quadrante che tipizza le relazioni d’aiuto/servizio riconducibili all’idealtipo dell’alleanza. In questo quadrante convergono «proattività» e «comprensione». Per un verso, il rapporto che si instaura è alimentato dagli assistenti sociali o più in generale dagli helpers che rivolgono attenzione alle persone aiutate, di propria iniziativa e non solo se e quando interpellati; per altro verso, a differenza di quanto si riscontra nel quadrante del controllo, la modalità d’incontro non è guidata tanto dalla preoccupazione
¶{p. 94}del giudizio valutativo, quanto dalla valorizzazione delle potenzialità positive delle persone e delle famiglie, in linea con la Strengths Perspective già nota nella letteratura di social work [Saleebey 1992] o con l’impostazione di Krumer-Nevo [2020], laddove l’autrice contrasta la tendenza, presente anche tra gli operatori sociali, all’alterizzazione (othering), cioè il processo percettivo di allontanamento tra sé e l’altro, da aiutare sì, ma considerato diverso e distante. In questo quadrante, come nella prospettiva PA-P (poverty-aware paradigm) di Krumer-Nevo, della persona in difficoltà vengono riconosciuti in primo luogo gli sforzi che compie per lottare contro le avversità che la sovrastano e l’ingiustizia che sente di subire. Si tratta di una posizione relazionale coerente con la modalità dell’accompagnamento sociale [Landuzzi e Pieretti 2003] talora chiamata «di affiancamento», che sottolinea «gli elementi di conferma positiva di identità, di prossimità fisica, di una ricca comunicazione, di riconoscimento reciproco e duraturo» [Gregori e Gui 2012, 164].