Alessandro Sicora, Silvia Fargion (a cura di)
Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c3
Nel mio caso è stato così, come se mi dovessi ogni volta giustificare di una decisione presa, come se fosse stata una cosa sbagliata.
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Anche la necessità di rivolgersi ai servizi sociali può produrre il timore di misconoscimento di valore sociale, il timore di non essere riconosciuti all’altezza di quanto è socialmente atteso da un «buon genitore».
Quindi vergogna per la separazione, [dover andare dalle] assistenti sociali… quindi sei considerata, incapace ad essere genitore, sei limitata da tutti i punti di vista. Insomma non è bello…
Talora la percezione di misconoscimento è radicata al punto di apparire una scelta anche di chi lo subisce, come accade in contesti sociali sentiti come molto giudicanti. Così si esprime una madre bisessuale intervistata nel Centro Italia, riferendosi all’ambiente scolastico:
Penso che la scuola non sappia del mio orientamento sessuale. Personalmente non lo direi, perché per quanto riguarda ad esempio la scuola primaria, le insegnanti sono un po’ vecchio stampo e quindi eviterei.
Se nella sfera del riconoscimento di stima sociale, legata alla dimensione della realizzazione di sé nei legami solidali, si colloca il principio di realizzazione, il suo contrario, il misconoscimento, è un prodotto e insieme un produttore di pregiudizi e discriminazioni. È esemplificativo il seguente brano d’intervista a una mamma africana immigrata ormai da diversi anni:
Il problema che spesso affrontiamo, che spesso mi fa paura, è l’esclusione, il razzismo, non tanto per me ma per le bambine, non essere accettate nella società in cui sono cresciute (…) le mie bambine sono più italiane che africane, perché l’Africa non la conoscono, non l’hanno mai vista e l’esclusione, il fatto di essere classificata in base al colore della pelle, è una cosa che se una bambina non è pronta può creare altre cose che si trascinerà tutta una vita, io di questo ho tanta paura.
Invece, quando i genitori riescono a fare esperienza di mutuo riconoscimento, il senso di solidarietà e di cooperazione consente di proteggere l’autostima. Dice Leonardo, padre separato:
Quindi forse sì, il confronto con persone che hanno vissuto esperienze simili è proprio importante. Quello [il confronto, N.d.R.] – che potrebbe essere… anche per chi si dovesse trovare ad affrontare una situazione del genere.
Ciascuna di queste sfere, come appare evidente, investe la corresponsabilità di attivare o meno relazioni di riconoscimento da parte di ogni persona nei confronti di ogni altra. Adottando questa chiave interpretativa, ogni soggetto partecipe di intrecci relazionali, primari, secondari, istituzionali che siano, risulta co-artefice inevitabile dell’agio o del disagio altrui, della sua possibilità di realizzazioni e del riconoscimento dei suoi diritti.{p. 85}

6. Quadranti senza inquadrare: il mutuo riconoscimento nella relazione di aiuto

La riflessione condotta sin qui ha illuminato prevalentemente la prospettiva dei genitori, la si è osservata, per così dire, a tutto campo sui tre versanti, o sfere del riconoscimento. In questo paragrafo si proverà invece a focalizzare cosa sembra accadere tra famiglie e servizi, e come l’impostazione relazionale può essere riletta e tipizzata al fine di orientare la riflessione critica sulla pratica professionale. Quale relazione si instaura tra i genitori gravati dall’incertezza e i servizi sociali? Quali edificazioni di identità sono in gioco? Quali possibilità si dischiudono o all’opposto si chiudono in base alla relazione instaurata?
Sulla scorta di quanto raccolto dalle interviste ai genitori e agli assistenti sociali, è parso possibile stilizzare alcune modalità di interazione nella forma di idealtipi, influenzate dal contesto organizzativo in cui le relazioni di aiuto prendono forma. Si tratta di una classificazione astratta, che non ha certo l’intento di definire ultimativamente le categorie d’azione dei professionisti o delle famiglie, entro cui inquadrare ogni forma d’aiuto/servizio, quanto piuttosto è il tentativo di abbozzare uno strumento d’analisi che aiuti a rileggere alcune dinamiche frequenti nei servizi sociali, e che offra ai professionisti ulteriori spunti di riflessione per orientare l’azione.
Mantenendo il registro analitico del riconoscimento, la rilettura dei testi tratti dalle interviste mostra possibili polarizzazioni nelle modalità di interazione tra persone aiutate e persone/istituzioni che aiutano. In particolare, è parso possibile collocare lungo due assi incrociati il modo di interpretare l’azione. Un asse si sviluppa, verticalmente, tra il polo della «proattività», di servizi che vanno verso le persone per intercettarne i bisogni, per verificarne le modalità di fronteggiamento o per unirsi a loro nell’impegno di contrastare le difficoltà, e il polo della «attesa», fisica e temporale, vissuta per un verso dagli operatori e per altro verso dai genitori. Su questo polo i servizi, e in essi gli operatori, restano in attesa di una domanda da parte dei cittadini e ne valutano l’appropriatezza in relazione a categorie preordinate, mentre questi ultimi, che in tal modo vestono i panni di «utenti», dopo aver esibito le loro richieste restano nella posizione di attendere possibili risposte. L’altro asse, orizzontale, vede ai poli opposti da un lato «la modalità della comprensione» e dall’altro lato «la modalità della separazione» tra i soggetti in relazione. A un estremo di quest’asse si collocano le modalità di rapporto che connotano lo sforzo di condivisione delle prospettive esistenziali e delle ragioni dell’azione gli uni degli altri; all’altro estremo si collocano le modalità che marcano la distinzione che separa le premesse esistenziali e d’azione dei soggetti.
I due assi, incrociandosi, come rappresentato nella figura 1, consentono di connotare le differenti posizioni vissute dagli attori in relazione. Si sono così potuti distinguere quattro quadranti, corrispondenti agli idealtipi del «controllo», del «filtro formale», dell’«accoglienza», dell’«alleanza».{p. 86}
Fig. 1. Idealtipi delle dinamiche d’aiuto/servizio.
Se usiamo il riferimento grafico dei quadranti, nei due in alto stanno le interazioni che implicano l’iniziativa proattiva del professionista, nei due in basso si trovano le interazioni che hanno luogo per l’iniziativa di chi si reca a chiedere (assistito, cliente, paziente, utente…). La posizione in alto o in basso, scevra da una valutazione positiva o negativa, mostra solo lo spazio (fisico ed esistenziale) entro cui la dinamica dell’aiuto si svolge, ma non è ancora sufficiente a descrivere se sia preferita o meno da chi è assistito e da chi assiste.
La collocazione sull’asse comprensione/separazione, invece, connota la qualità della relazione, che attiene alle caratteristiche di maggiore o minore implicazione reciproca. A sinistra si collocano i due quadranti ove si trovano le relazioni che mantengono separatezza, una chiara e intenzionale distinzione di ruoli e competenze, reciproca impermeabilità della propria interiorità, adozione di criteri valutativi formali e impersonali. A destra, invece, i due quadranti ove stanno le relazioni d’aiuto/servizio «comprendenti». Si riconoscono, cioè, le relazioni che nella reciprocità consentono di assumere la prospettiva dell’altro, sono permeabili al coinvolgimento emotivo ed empatico, sono orientate ad assumere positivamente il vissuto e i significati che l’altro propone, aprono a possibilità di implicazione del contesto. Anche su questa collocazione incide, poi, la diversa posizione sull’asse verticale.
Di seguito, distinguiamo e descriviamo i singoli quadranti, che vanno via via arricchendosi grazie alla significatività dei testi analizzati, consentendo di chiarire maggiormente le quattro tipizzazioni.{p. 87}

6.1. Controllo

Procedendo dall’alto a sinistra della figura 1 troviamo l’idealtipo relazionale del controllo: i servizi si avvicinano alla realtà concreta, materiale e spaziale delle persone da assistere, ma nella modalità della «separazione», mantenendo, cioè, le proprie categorie di giudizio e di attribuzione di significato alla realtà che incontrano; il professionista ritiene di avere già una chiara idea di come dev’essere una buona relazione genitoriale, una buona conduzione del ménage domestico, una buona organizzazione della vita quotidiana ecc., e possiede, in modo più o meno esplicito e formalizzato, propri standard e indicatori valutativi. In questo idealtipo riconosciamo modalità interattive di assistenti sociali che vanno «verso» i genitori per assicurarsi della loro adeguatezza, per esercitare il controllo di cui si sentono socialmente e istituzionalmente responsabili. Si tratta di interazioni nel contesto di vita delle persone, ma in qualche modo subite dai destinatari di tale proattività. Il tema del controllo nel servizio sociale è tutt’altro che nuovo e per brevità non se ne dà conto in questa sede, rinviando all’ampia letteratura in proposito [Bisleri e Pantalone 2022]; piuttosto se ne ritracciano alcune evidenze empiriche tratte da questa ricerca.
Dice un’assistente sociale intervistata, operante in una struttura d’accoglienza di un ente di terzo settore nel Nord Italia, spiegando il suo lavoro integrato con quello dei servizi sociali comunali:
Laddove era coinvolto il servizio sociale comunale e minorile eravamo un po’ i loro occhi, quindi vedere anche se [i genitori] erano… accudenti o meno, com’erano i figli, se erano trascurati o meno, se andavano a scuola, come si comportavano anche tra di loro quindi, se il bambino cercava anche i genitori oppure no. (…) Dovevo andare ogni giorno a controllare la stanza, cercavo di seguirli anche in questo nello specifico… perché loro… comunque magari mangiavano per terra, poi non pulivano, questo tirava fuori sporcizia.
Controllo, normalizzazione dei comportamenti, necessità di «smascherare» e correggere le irregolarità, spinta all’autonomia paiono essere le linee guida dell’impegno professionale, come trapela da due significative espressioni di assistenti sociali:
[Il mio impegno] va anche un po’ oltre, perché ad esempio facevo anche molti accompagnamenti, (…) magari se c’era bisogno di un sostegno, l’accompagnamento a qualche visita, o per qualche disbrigo pratica, quindi… è un rapporto molto diverso e si conosce la persona da molti più punti di vista e appare per quella che è, non per quello che vuole farti vedere, vuole dimostrare o vuole essere. Invece magari da un’unica visita domiciliare la persona cerca di dare il meglio di sé, sistema la stanza…
(…) una famiglia che ho seguito per tutti e tre gli anni e che, per fortuna (sorride), sono riuscita ad indirizzare verso l’autonomia.{p. 88}
L’ingresso nel «loro» mondo da parte degli assistenti sociali è spesso temuto dai genitori in quanto vissuto in termini inquisitori, giudicanti. Lo riconosce un’assistente sociale ascoltata:
Quindi non sempre accettavano questa intromissione. Come è anche normale che sia, com’è anche giusto che sia, però… pian piano con la relazione, con il rapporto di fiducia che si andava creandosi, riuscivano ad accettare e anche ad apprezzare l’aiuto e il sostegno che veniva loro dato. Però ad esempio all’inizio la vivevano sicuramente non in maniera positiva, anche perché si sentivano magari giudicati, si sentivano osservati e questo è inevitabile.
Conferma il vissuto di sentirsi indagata più che aiutata la madre di tre bambini, straniera, seguita dai servizi sociali in seguito a una richiesta di aiuto economico e di accesso alla casa dopo uno sfratto:
Sono venuti a casa a vedere, anche a scuola, a chiedere informazioni se tutto bene o… sono andati a scuola di tutti e tre, hanno parlato con le loro maestre, hanno venuti a casa, hanno guardato dove vivo…
Simili sono i vissuti di una mamma separata, seguita dai servizi in una fase di alta conflittualità con l’ex marito:
(…) e mi sentivo cioè proprio all’Inquisizione, perché erano domande su ogni cosa e dicevo, ma cavolo! ma cosa gli devo raccontare io a queste. Ma se ci sono arrivata perché ho fatto tutto il mio percorso con la psicologa, dopo tutta la fatica che ho fatto, devo ancora giustificarmi, ma non è evidente chi ho sposato? e no, non era evidente quindi ho dovuto rispiegare bene tutto, rifare tutti i miei incontri dov’ero sotto la lente.
Una madre, non italiana, inserita in un percorso di protezione in quanto vittima di violenza da parte del marito e con difficoltà economiche, parlando degli assistenti sociali che la seguono manifesta la sua paura:
E i miei figli sono seguiti fino a quando hanno 18 anni. È una decisione che… l’hanno messo il Tribunale dei minori… però questa cosa mi dà sempre [preoccupazione]… perché bisogna essere seguiti? Io sono una brava mamma, perché? Loro me lo hanno spiegato: «signora i figli sono tuoi, però noi siamo sempre per ogni cosa, che ce li hai tu, ogni problema, noi siamo dietro di te per aiutare, non è che dobbiamo prendere i tuoi figli, no». (…) [Ma] vedevo nelle altre strutture che… c’erano mamme che l’han preso i figli, che hanno sbagliato per esempio (sospira) che… non lo so… cos’hanno sbagliato… però… questo è il mio terrore.
Una madre immigrata, sfruttata nei campi gestiti dal caporalato, in condizioni di vita degradanti, spiega come incontrare i servizi sociali comporti il rischio di essere valutati come genitori non adeguati; è dunque preferibile «stare distanti» da servizi che controllano più che aiutare, quando non risol
{p. 89}vono le cause strutturali, ovvero in assenza di possibilità concrete di risolvere le gravi condizioni di precarietà che caratterizzano il contesto in cui si vive: