Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c3
Da ultimo, consideriamo il quadrante che tipizza le relazioni d’aiuto/servizio riconducibili all’idealtipo dell’alleanza. In questo quadrante convergono «proattività» e «comprensione». Per un verso, il rapporto che si instaura è alimentato dagli assistenti sociali o più in generale dagli helpers che rivolgono attenzione alle persone aiutate, di propria iniziativa e non solo se e quando interpellati; per altro verso, a differenza di quanto si riscontra nel quadrante del controllo, la modalità d’incontro non è guidata tanto dalla preoccupazione
¶{p. 94}del giudizio valutativo, quanto dalla valorizzazione delle potenzialità positive delle persone e delle famiglie, in linea con la Strengths Perspective già nota nella letteratura di social work [Saleebey 1992] o con l’impostazione di Krumer-Nevo [2020], laddove l’autrice contrasta la tendenza, presente anche tra gli operatori sociali, all’alterizzazione (othering), cioè il processo percettivo di allontanamento tra sé e l’altro, da aiutare sì, ma considerato diverso e distante. In questo quadrante, come nella prospettiva PA-P (poverty-aware paradigm) di Krumer-Nevo, della persona in difficoltà vengono riconosciuti in primo luogo gli sforzi che compie per lottare contro le avversità che la sovrastano e l’ingiustizia che sente di subire. Si tratta di una posizione relazionale coerente con la modalità dell’accompagnamento sociale [Landuzzi e Pieretti 2003] talora chiamata «di affiancamento», che sottolinea «gli elementi di conferma positiva di identità, di prossimità fisica, di una ricca comunicazione, di riconoscimento reciproco e duraturo» [Gregori e Gui 2012, 164].
Per cogliere questa posizione «comprendente», sono efficaci le semplici parole di una mamma in disagio economico, che descrive il buon rapporto instaurato con un’assistente sociale senza incontrare «separazioni» comunicative e «attese» istituzionali:
Non trovo difficoltà a far capire il mio problema, la mia situazione, questo è…
In questo brevissimo stralcio si coglie la pregnanza delle parole «far capire», nel senso della comprensione, e «la mia situazione», come coagulo di vissuti soggettivi e dinamiche ambientali.
L’ingresso del professionista nel contesto di vita della persona aiutata, a differenza di quanto indicato per il versante dell’accoglienza, amplia il riconoscimento anche alla sfera dei diritti e della stima sociale. L’azione dell’assistente sociale adotta la trifocalità, senza far prevalere un solo fuoco concentrato sulla relazione interpersonale e sul cambiamento individuale, ma apre anche gli altri due fuochi, implicando proattivamente il tessuto di relazioni entro cui l’esperienza del singolo si articola, ed estendendo possibili alleanze per la maggiore tutela dei diritti misconosciuti:
(…) perché loro mi hanno preso come una figlia, come una sorella, loro mi danno tanto (…) loro hanno messo mia figlia in asilo nido… e poi dopo due anni o tre anni loro mi hanno offerto un lavoro, questo lavoro che sto facendo ora, e sì: mi è cambiata la vita tanto.
Dice una madre, albanese, single, con un bambino, che vive nel Nord Italia:
(…) ho parlato con la mia assistente sociale e ho scoperto che facevo parte di questo progetto solidale in cui mettevano insieme a vivere più persone con gli stessi problemi economici e non, e quindi quando siamo andati a vivere lì, la nostra vita è cambiata (…) ci si sentiva come una grande famiglia.¶{p. 95}
Il rapporto d’aiuto/servizio allenta le distanze formali anche nei profili di ruolo, assecondando le possibili «pratiche di sconfinamento» [Ferrari e Miodini 2018, 90] che vedono operatori sociali che «si attivano di prima persona (…) scelgono di accettare la sfida (…) spesso sconfinando rispetto al mandato» [ibidem] o che, anzi, interpretano realmente il loro mandato in modo più proattivo.
Una mamma di tre minorenni, proveniente dall’Est Europa, divorziata e sola, con titolo di licenza elementare e difficoltà economiche, spiega perché si sentiva aiutata dall’assistente sociale:
Allora lei appena sapeva qualcosa che posso chiedere io, che posso fare la domanda, lei stava dietro a te. Ti chiamava: «vieni che dobbiamo fare la domanda, devi venire»… cioè lei ti faceva svegliare, correre, perché io sono a lavoro, non riesco tanto a star dietro alle cose, cosa c’è, cosa non c’è… lei era tanto brava.
L’espressione «lei stava dietro a te» indica la consapevolezza che l’aiuto non dipende solo dall’iniziativa di chi chiede per necessità, ma è anche nel pensiero, non episodico, di chi si prende cura, di chi prende l’iniziativa di interpellare, di provocare cambiamenti positivi, per la persona e nel contesto sociale.
L’aiuto viene percepito come comprensione delle possibilità dell’altro e attenzione ai modi per valorizzarle.
Dice un papà immigrato seguito da un’assistente sociale:
Io parlo sempre con lei [l’assistente sociale] è troppo brava. Lei fa il suo lavoro con tutto il cuore (…) È lei che ha detto che io devo fare il mediatore culturale. La prima volta che lei mi ha visto, io ho parlato di qualcosa e lei ha iniziato a dirmi «perché non fai il mediatore?», io ho detto «sì mi piacerebbe, tutto quello che voi volete che io faccio». Mi ha detto «Ok, non ti preoccupare» e così oggi sono qui a farlo.
Si tratta di relazioni d’aiuto con figure istituzionali, professionisti, che accettano di entrare in una relazione di attenzione, di riconoscimento e di condivisione [Gui 2004, 133]. Una madre, ad esempio, connota così l’aiuto che sente di ricevere da una delle maestre dei suoi figli:
Quando succede delle cose, lei [mi]chiama e dice: «X guarda cosa devi fare, come tu sei straniera, io so che sei buona madre, dico che è uscita questa legge che riguarda famiglia puoi fare»…
La comunicazione in questo caso trasmette prossimità, pur non confondendo i ruoli. Dice la madre di sei figli, di cui il più piccolo ha 15 mesi, seguita dai servizi sociali in una città del Sud:
(…) anche quando loro vengono qua che facciamo le sedute a casa, ci incontriamo una volta alla settimana o ogni 15 giorni (…) io sto bene con loro, io non le tratto ¶{p. 96}come assistenti sociali, me li sento sorelle, (…) figurati che una volta ho detto vicino alla dottoressa: «dottoressa, ma posso venire a vivere con voi?» perché io sto bene dentro, mi sento protetta.
Si coglie una miscela interessante tra il riconoscimento della competenza («ho detto alla dottoressa») e la libertà relazionale percepita («non le tratto come assistenti sociali, le sento come sorelle»), sentendosi compresi nella difficoltà. È riconoscimento reciproco delle persone oltre i ruoli, da un lato di genitore assistito e dall’altro lato di assistente sociale.
Sono efficaci, in tal senso, le parole di una madre che esordisce inizialmente definendosi così:
Beh sono una mamma, una mamma sola, mi considero una mamma sola, che lotto con mio figlio per vivere, per crescerlo, per la vita, perché la vita è una lotta continua.
E descrive così l’assistente sociale che ora la segue:
io dico è stata un angelo per me, perché ha saputo come prendermi, perché ne ho avuto prima anche altri assistenti sociali, però il rapporto che sono riuscita ad instaurare con la signora X è stato particolare, lei ha avuto la pazienza e ha saputo incoraggiarmi e farmi avere fiducia, perché per me chiedere loro aiuto è stato molto difficile.
E ancora:
mi sentivo più in sicurezza, mi sentivo meglio perché sapevo che avevo una spalla su cui appoggiarmi, (…) e sapevo che se c’è una emergenza è come una sorella, io posso chiamare e loro ci sono e viceversa.
Una madre in alto conflitto coniugale rappresenta bene il valore di un aiuto/servizio che rinforza la capacità, altrimenti compromessa, di far fronte alle difficoltà, e mostra l’accompagnamento anche nella difesa dei diritti:
Mi diceva l’avvocato: «Signora c’è il suo assistente sociale che la difende a spada tratta». Meno male – ho detto – perché anche questo è stato un po’ il motivo per risalire, perché quando tu già stai male, poi c’è chi ti dà ancora legnate… non puoi venirne fuori, no? Perché ti senti attaccata da tutte le parti.
Nel quadrante dell’alleanza è forse riconoscibile lo spazio per la co-progettazione, per il «coping duale» o «agire congiunto» [Folgheraiter 2007, 311] messo in atto da assistente sociale e genitore, nell’impegno di affrontare insieme le difficoltà. Un’alleanza operativa, appunto, che si estende anche ad altri attori e istituzioni nella direzione del riconoscimento sulle tre sfere, che unisce competenze e risorse rispettando l’agency delle persone, sostenendo la fatica e il desiderio dei genitori di costruire la loro genitorialità passo dopo passo, incertezza dopo incertezza, traguardo dopo traguardo senza parame¶{p. 97}trarne e conformarne i tratti su modelli sociali di una normalità presunta quanto spesso irreale.
7. Conclusioni: cercare di comprendere
I contenuti teorici e le analisi svolte in questo capitolo sono stati proposti come possibile itinerario di riflessione e ricerca, lontano dalla pretesa di individuare risposte definitive o conclusioni oggettive. L’intento è stato, piuttosto, quello di renderle utili a orientare lo sguardo e stimolare la riflessione, segnando il percorso, ma lasciandolo aperto a nuove possibilità interpretative, come stimolo per il lavoro intellettuale di altri ricercatori e professionisti.
Abbiamo aperto questo capitolo rendendo conto dell’importanza del riconoscimento nel servizio sociale e di come il lavoro di ricerca con i genitori ci abbia portato a «vedere di più» su tale questione. Abbiamo provato a comprendere, facendoci guidare dalla loro prospettiva, come i processi di riconoscimento e la sua negazione assumano un’influenza centrale nella loro esperienza come madri e padri, ma anche nella relazione con i servizi del welfare.
L’analisi, attraverso la categoria del riconoscimento, della grande mole di testi ricavati dalle interviste raccolte dalle quattro unità di ricerca apre uno spazio di comprensione (nel senso di verstehen adottato da Weber [1922]) tutt’altro che scontato, aiuta, cioè, a entrare nell’universo di significati e valori che fondano le azioni delle persone, altrimenti nascosto o stereotipato. Attraverso questi spiragli narrativi sembra possibile ricomporre reciprocità di prospettive fra genitori e professionisti dei servizi, frenando l’abitudine inconsapevole di ritenere scontata, oggettiva, valevole per tutti, la realtà che appare a ciascuna parziale prospettiva [Husserl 1954], da cui gli uni e gli altri, senza ancora essere entrati nel mondo della vita (Lebenswelt [ibidem]) dell’altro, adottano le comprensioni derivate dalla propria vita quotidiana, interpretata con la propria dotazione di simboli, con le proprie tipizzazioni: come dev’essere un «buon genitore», come dev’essere un valido professionista, qual è il «bene dei figli» e così via. Cercare di comprendere richiede, invece, dapprima lo sforzo di aprire lo sguardo sul mondo delle persone incontrate, acuire l’ascolto delle loro imprese esistenziali, delle loro lotte per contrastare le difficoltà con cui quotidianamente si misurano [Krumer-Nevo 2020].
La categoria del riconoscimento offerta da Honneth ci ha consentito di analizzare la prospettiva di genitori e professionisti, assumendo uno sguardo trifocale, guardando alle intersezioni tra le diverse sfere delle relazioni affettive, comunitarie e politico-giuridiche. Ascoltando con attenzione le parole dei genitori e degli assistenti sociali abbiamo provato, poi, a stilizzare uno schema analitico che consenta di cogliere la modalità con cui gli uni e gli altri si dispongono per riconoscersi, negarsi, separarsi o comprendersi, affiancarsi ¶{p. 98}nel contrastare le difficoltà. Rileggere tali processi adottando la categoria del riconoscimento diviene particolarmente rilevante per i servizi deputati ad «assistere», a favorire evolutivamente, a tutelare e a sostenere i compiti genitoriali.
In sintesi
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La categoria del riconoscimento consente di analizzare le interazioni, le pratiche, l’agire guardando alle intersezioni tra le diverse sfere delle relazioni affettive, comunitarie e politico-giuridiche.
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Il riconoscimento assume un ruolo cruciale nei processi di costruzione identitaria, aiutando a sviluppare e consolidare la fiducia in sé stessi, l’autostima, l’autoefficacia e la consapevolezza dei diritti.
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I processi di negazione di riconoscimento mettono a rischio la fiducia in sé, il rispetto di sé e la stima di sé, con un impatto sull’esperienza e le possibilità di azione dei genitori.
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Tali processi si svolgono anche nelle interazioni tra gli assistenti sociali e i genitori; la relazione di aiuto, dunque, può contribuire a veicolare o ostacolare processi di mutuo riconoscimento.
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Il quadrante che «non intende inquadrare» viene proposto tipizzando l’azione nelle direzioni della proattività o dell’attesa, della comprensione o della separazione; l’intento non è identificare tipi di intervento, né collocare le persone coinvolte nell’uno o nell’altro quadrante, ma offrire una lente utile a leggere come possibili modalità di interazione tra assistenti sociali e genitori si costruiscono in relazione a variabili micro e macro, promuovendo relazioni di mutuo riconoscimento, o esponendole a rischio. Tali analisi possono essere utili a orientare la riflessione critica sulla pratica.
Domande riflessive
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Quali occasioni e quali luoghi di riconoscimento dei genitori nella loro costruzione identitaria e di ruolo possono essere valorizzati nei setting relazionali dei servizi sociali?
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Cosa consente di vedere l’altro, prendersi cura dell’altro, rispondere al suo appello, dentro a una relazione di riconoscimento?
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Quali modalità di interazione con i genitori provocano misconoscimento, rispettivamente nelle tre sfere indicate da Honneth?
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Sapendo che i quattro idealtipi di aiuto/servizio sono presenti e sovrapposti nell’azione di ciascun professionista, quali dimensioni paiono prevalere, in quali contesti e per quali ragioni?¶{p. 99}