Alessandro Sicora, Silvia Fargion (a cura di)
Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c2
Ad esempio, considerando l’esperienza di padri russi, etiopi, cinesi, sudamericani, jugoslavi, bosniaci e del sud-est asiatico immigrati in Canada e Israele, Este e Tachble [2009] hanno evidenziato che la percezione di sé e del sentirsi buoni genitori per molti uomini è strettamente connessa al tipo di occupazione svolta. Alcuni dei partecipanti allo studio hanno anche riferito di vivere la condizione di disoccupati come un fallimento familiare, oltre che personale.
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Ricerche condotte nel contesto africano, invece, hanno sottolineato che, procacciando le risorse economiche per la propria famiglia, molti padri hanno la percezione di provvedere in qualche modo anche al benessere della comunità nella quale vivono [Chaney 2009; Lasser, Fite e Wadende 2011]. Nel sistema di valori e credenze africano, infatti, vige l’idea secondo cui la società cresce, evolve e migliora grazie all’impegno profuso da ciascun capofamiglia per rispondere ai bisogni materiali del proprio nucleo.
In Messico, poi, secondo Behnke, Taylor e Parra-Cardona [2008], lo stereotipo del padre distaccato, maggiormente orientato al lavoro rispetto alla cura, deriva ed è rafforzato dal machismo che pervade la cultura latina. In altri termini, l’idea che le donne occupino una posizione subalterna rispetto agli uomini pone di fatto padri e mariti nella condizione di dover provvedere alla loro famiglia, al fine di mostrare il proprio valore e, implicitamente, confermare lo stereotipo. Ne consegue che, in tale scenario, i padri assumono uno stile genitoriale autoritario, mantenendo non di rado una certa distanza con i loro figli, ai cui bisogni quotidiani sono chiamate a rispondere le madri.
Si tratta di un modello assai diverso rispetto a quello vigente in Cina. Secondo Xu e Yeung [2013], infatti, se da un lato essere buoni padri significa essere in grado di provvedere alla propria famiglia, al tempo stesso nella cultura cinese anche il sostegno e l’amore per i propri figli sono riconosciuti come indicatori di buona genitorialità, soprattutto nelle principali aree urbane, come Shanghai e Pechino. Inoltre, nonostante il minore coinvolgimento rispetto alle madri, i padri cinesi frequentemente acquistano il cibo, cucinano e si occupano del bucato per aderire alle aspettative culturali sulle attività di cura familiare.
Una reciprocità ancora maggiore tra i ruoli di madri e padri è stata evidenziata nello studio condotto sui padri giapponesi da Ito e Izumi-Taylor [2013]. Gli autori, infatti, hanno posto in luce come nell’immaginario collettivo nipponico allo stereotipo della buona paternità siano associati sia funzioni di sussistenza, sia di cura. Infatti, nella cultura giapponese i padri non sono considerati gli unici responsabili del guadagno, anche se questo aspetto impatta fortemente sulla percezione della propria virilità. Pertanto, i padri giapponesi sono chiamati a trovare un buon equilibrio tra lavoro e presenza nella sfera domestica.
Se la rassegna di Valiquette-Tessier et al. [2019] ha tratteggiato una certa uniformità rispetto agli stereotipi associati ai padri, il discorso sulla maternità muove su un piano differente. Infatti, dall’analisi da loro proposta sulla letteratura emerge con chiarezza che esistono e co-esistono stereotipi diversificati sulla figura della «buona madre».
In alcune culture, come quella latina [Durand 2011], quella vietnamita [Bermudez et al. 2014] o quella afroamericana [Elliott, Powell e Brenton 2015], gli studi sul tema hanno posto, ad esempio, in luce che le donne sono considerate buone madri se collocano al centro della propria esistenza i loro figli, nonostante questo significhi in qualche modo sacrificare sé stesse o {p. 29}mettere da parte le proprie aspirazioni personali. Anche se le madri gravano in condizioni economiche difficili oppure si trovano a dover fare tutto da sole (come nel caso delle donne single), esse sono riconosciute come buone genitrici nel momento in cui investono le loro energie per fornire un costante supporto emotivo, finanziario e pratico a figli e figlie.
In altri contesti, come quello turco, ecuadoriano e cinese [Qiu, Schvaneveldt e Sahin 2013], la buona maternità è invece strettamente connessa alla capacità di prendersi cura della casa. Di conseguenza, le donne dimostrano di essere buone madri impegnandosi nelle faccende domestiche, rassettando e cucinando per i membri delle loro famiglie.
Nell’immaginario afroamericano, infine, Dow [2015] ha individuato la presenza del cosiddetto stereotipo della mammy. Si tratta di donne nere, rappresentate in un certo modo, che provvedono alla sussistenza materiale della propria famiglia lavorando come collaboratrici domestiche per persone bianche appartenenti alla borghesia, anche se questo comporta trascorrere molte ore lontane dalla propria abitazione e dai propri affetti. Analizzando criticamente tale stereotipo, Sealey-Ruiz [2013] è giunto alla conclusione che questo sia stato creato per gli interessi sociali, economici e politici dei bianchi americani, di modo da poter giustificare lo sfruttamento degli schiavi domestici e mantenere le donne nere in servitù domestica.
Rispetto al contesto europeo, è possibile sostenere che ad oggi sia ancora molto radicato il cosiddetto stereotipo della Cereal Packet Family (in versione italiana spesso chiamata anche la «famiglia del Mulino Bianco»), che propone un’immagine idealizzata di «famiglia felice», composta da partner borghesi di sesso diverso, sposati con figli [Oakley 1982]. A tal proposito, rispetto al contesto europeo degli anni Sessanta, la studiosa Friedan [1963] aveva sostenuto che culturalmente la buona genitorialità idealizzata presupponeva un ambiente domestico condiviso, roccaforte della famiglia unita biologicamente e giuridicamente, in cui la prole veniva accudita da una madre e da un padre sposati, che si fondevano nella coppia genitoriale in maniera complementare. L’idea diffusa all’epoca era che l’assenza dell’uno o dell’altro avrebbe compromesso il processo di crescita dei bambini e delle bambine, dal momento che a ciascun genitore erano attribuite specifiche competenze, sulla base del loro genere.
Si tratta di un modello che, pur essendo molto distante dalle famiglie che caratterizzano la società contemporanea, continua tuttavia a occupare uno spazio importante nell’immaginario collettivo. In molti casi, i suoi tratti distintivi sono ancora considerati un presupposto per poter parlare di «buona famiglia», indipendentemente da tanti altri fattori, come ad esempio la qualità delle relazioni intrafamiliari, il peso delle altre reti formali e informali o il ruolo delle comunità [Ansell 2016; Ennew 2022].{p. 30}

3. La «buona genitorialità» nel contesto italiano

Secondo Saraceno [2018] in Italia gli stereotipi sulla famiglia sono fortemente radicati, anche in quanto conseguenza di altri stereotipi, come ad esempio quelli di genere, che sono così potenti da organizzare e orientare molti ambiti della vita delle persone. Il linguaggio, le immagini, le espressioni quotidiane diffuse nella società accompagnano sin dall’infanzia la vita degli individui, condizionando le loro scelte per il futuro in diversi contesti, da quello educativo a quello lavorativo, passando anche per la famiglia.
In riferimento all’ambito familiare, Saraceno sostiene che nel nostro paese sia ancora consolidata l’idea di una netta distinzione di ruoli tra madre e padre, che vorrebbe le donne proiettate verso la cura del benessere psico-fisico dei figli, della casa e, più in generale, della famiglia – anche a discapito delle proprie inclinazioni e della propria carriera – e gli uomini, invece, dediti all’approvvigionamento di risorse per il sostentamento. Di conseguenza, la buona paternità appare strettamente legata alla capacità di garantire una vita economicamente dignitosa ai propri figli. Carriera e lavoro, quindi, possono (e forse, anzi, devono) essere inseguiti dai padri, anche se questo può comportare minor presenza e coinvolgimento nella vita della famiglia. Nella sua analisi, viene criticamente sottolineato che tale situazione è incentivata anche dalla normativa vigente. L’art. 433 del Codice civile obbliga i genitori al mantenimento dei figli, anche oltre la maggiore età in caso di necessità. Tuttavia, l’art. 37 della Costituzione italiana fa esclusivo riferimento alle madri, sostenendo che «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione». Indirettamente, quindi, la legge italiana deresponsabilizzerebbe i padri dalle funzioni di cura.
Alcuni studi [Busoni 2000; Ruspini 2018a] hanno posto in luce che le donne stesse, pur essendo consapevoli che si tratti di aspettative sociali in realtà slegate dalla qualità della genitorialità, sembrano aderire allo stereotipo della maternità, facendosi carico di compiti e fardelli iniquamente distribuiti all’interno della coppia.
Ampliando il discorso, è possibile sostenere che agiscono allo stesso modo anche altre leggi che pur disciplinando ambiti diversi, contribuiscono ad ampliare le differenze tra le forme familiari, rinforzando implicitamente lo stereotipo vigente sulla buona genitorialità.
È il caso, ad esempio, della legge sulle unioni civili (legge 20 maggio 2016, n. 76), volta a regolare i diritti e i doveri tra i partner dello stesso sesso. Tale legge non contiene alcun riferimento alla filiazione, sancendo di fatto una distinzione in questo ambito tra genitori sposati e genitori uniti civilmente. Più nello specifico, nonostante l’unione civile sia definita come «specifica {p. 31}formazione sociale ai sensi degli artt. 2 e 3 della Costituzione» (art. 1, 1o comma, legge cit.), la previsione legislativa non contempla la presenza di figli, concentrandosi solo sul rapporto tra soggetti uniti civilmente.
Analogamente, al netto di poche eccezioni, il cambiamento dell’identità di genere di una persona con figli è considerato un limite all’esercizio della genitorialità, in quanto la transizione è vista come pregiudizievole per l’integrità psicofisica dei minori [Ruspini 2018b]. Pertanto, in conformità a quanto previsto dall’art. 61 del Codice di procedura civile, i giudici possono richiedere una verifica della capacità dei genitori transgender di assolvere le funzioni di cura e di protezione del minore, affiancati da uno o più consulenti tecnici di ufficio [De Leo e Malagoli Togliatti 1990; Ruspini e Inghelleri 2008].
Sul mantenimento degli stereotipi associati alla famiglia, un importante ascendente è esercitato poi anche da ideologie e confessioni religiose. Nel 2016, ad esempio, papa Francesco ha pubblicato l’Amoris laetitia, documento di 264 pagine in cui la complementarità tra coniugi di sesso diverso viene ribadita come requisito fondativo della società. Nel testo si legge: «una società senza differenze di sesso svuota la base antropologica della famiglia», pensiero ulteriormente rafforzato da frasi come «solo l’unione esclusiva e indissolubile tra un uomo e una donna svolge una funzione sociale piena» mentre «le unioni di fatto o tra persone dello stesso sesso, per esempio, non si possono equiparare semplicisticamente al matrimonio. Nessuna unione precaria o chiusa alla trasmissione della vita ci assicura il futuro della società».
Si tratta di una visione utilizzata – non di rado in maniera strumentale – anche dalla propaganda politica più populista e conservatrice, spesso in prima linea per difendere la cosiddetta «famiglia tradizionale» [Campani 2011].
Seppur con intensità diversa, a visioni politiche e dottrine religiose si accompagna anche la comunicazione pubblicitaria. Infatti, non mancano studi che hanno ricordato quanto in Italia, tra le altre cose, siano molti gli spot che propongono il prototipo di famiglia nucleare, caucasica, benestante, con genitori in coppia cisgender ed eterosessuali, anche nelle rappresentazioni più attuali [Boero 2018].
Sottolineando la forte presenza del modello di famiglia coniugale e intima come presupposto della buona genitorialità, Bastianoni [2009] ha sintetizzato i principali stereotipi associati ideologicamente nella società italiana al costrutto di genitorialità, a garanzia di un suo buon funzionamento: la generatività, la coniugalità, la condivisione degli stessi spazi, l’orientamento eterosessuale e la continuità del sesso biologico.
Evidentemente, questo stereotipo di buona genitorialità non tiene conto di diverse costellazioni familiari, che, per converso, non godono della stessa considerazione e/o credibilità, a dispetto di un’ampia letteratura sulla famiglia che ha posto a più riprese in luce come la genitorialità sia una funzione autonoma e processuale dell’essere umano che non può e non deve essere considerata come il risultato della necessaria coincidenza con altre dimensioni {p. 32}che una cultura normativa (o normativizzante) suppone [Biblarz e Stacey 2010; Corbett 2001; Golombok et al. 1995; Golombok 2016; Heineman 2004; Leinonen, Solantaus e Punamäki 2002].
Come ribadito da Bastianoni [2009], la qualità delle cure genitoriali non dipende dal rapporto di filiazione biologica. Ci si può prendere cura anche di chi non si è generato, come accade nei casi di adozione, affidamento e nelle famiglie ricomposte. Non è neanche legata alla dimensione di coppia (e ancora meno all’istituto matrimoniale) o a una suddivisione dei compiti di mantenimento e di cura basata sul genere. Inoltre, la qualità delle cure non dipende necessariamente dalla convivenza con i figli. Genitori separati, che migrano, che lavorano lontano da casa, che sono ricoverati in ospedale o sono in carcere possono continuare ad esercitare la propria funzione genitoriale in modo adeguato alla propria condizione. Viene anche evidenziato che la qualità delle cure genitoriali non ha alcun tipo di correlazione con l’orientamento sessuale dei genitori, sia che questi abbiano figli in una relazione omoaffettiva, sia che la genitorialità si realizzi in una precedente relazione eterosessuale. Inoltre, non è condizionata dal genere del genitore, pertanto, anche un percorso di affermazione del genere nel corso della vita di una persona transgender non deve incidere sulla qualità della relazione con i propri figli.
Questa posizione riflette quella che nella letteratura delle scienze sociali viene definita la svolta pratica nelle ricerche su famiglie e genitorialità, cioè lo spostamento dell’attenzione dalle forme della famiglia e della genitorialità alle pratiche affettive e di cura attraverso le quali si fanno, in senso letterale, i genitori e le famiglie [Jurczyk 2014; Morgan 2011; Nelson 2006; Schatzki, Knorr-Cetina e Savigny 2001]. Questa maggiore attenzione alle pratiche genitoriali si è affermata anche in risposta a una cultura normativa di genitorialità intensiva, approccio di tipo prescrittivo che si fonda su una visione puerocentrica della famiglia [Hays 1996]. I genitori che aderiscono a questa visione considerano la famiglia come una sorta di performance, dimostrando la propria bravura conformandosi il più possibile alle esigenze dei figli presenti nei nuclei. Più nello specifico, il concetto di genitorialità intensiva si riferisce a una tendenza che enfatizza (e individualizza) la responsabilità dei genitori nell’esercizio del loro ruolo come buoni genitori. Implica che essi concentrino la loro attenzione vitale sulle attività di cura ed educative investendo un’enorme quantità di risorse e rimandando i propri desideri e interessi per occuparsi di quelli dei figli [Elliott, Powell e Brenton 2015; Shirani, Henwood e Coltart 2012]. In questo contesto, è stato evidenziato che il discorso culturalmente dominante sulla buona genitorialità appare costruito a partire dalla prospettiva di genitori benestanti, dal momento che soddisfare le aspettative della genitorialità intensiva non solo appare emotivamente assorbente, ma anche e soprattutto finanziariamente costoso [Krumer-Nevo 2020; Russell, Harris e Gockel 2008; Sanfelici e Gui 2022]. Ciò consente di comprendere il possibile rischio di colpevolizzazione avvertito dai genitori che non dispongono delle
{p. 33}risorse materiali per la sussistenza della propria famiglia, come quelli con problemi finanziari [Sanfelici e Gui 2022].