Alessandro Sicora, Silvia Fargion (a cura di)
Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c2
Questa posizione riflette quella che nella letteratura delle scienze sociali viene definita la svolta pratica nelle ricerche su famiglie e genitorialità, cioè lo spostamento dell’attenzione dalle forme della famiglia e della genitorialità alle pratiche affettive e di cura attraverso le quali si fanno, in senso letterale, i genitori e le famiglie [Jurczyk 2014; Morgan 2011; Nelson 2006; Schatzki, Knorr-Cetina e Savigny 2001]. Questa maggiore attenzione alle pratiche genitoriali si è affermata anche in risposta a una cultura normativa di genitorialità intensiva, approccio di tipo prescrittivo che si fonda su una visione puerocentrica della famiglia [Hays 1996]. I genitori che aderiscono a questa visione considerano la famiglia come una sorta di performance, dimostrando la propria bravura conformandosi il più possibile alle esigenze dei figli presenti nei nuclei. Più nello specifico, il concetto di genitorialità intensiva si riferisce a una tendenza che enfatizza (e individualizza) la responsabilità dei genitori nell’esercizio del loro ruolo come buoni genitori. Implica che essi concentrino la loro attenzione vitale sulle attività di cura ed educative investendo un’enorme quantità di risorse e rimandando i propri desideri e interessi per occuparsi di quelli dei figli [Elliott, Powell e Brenton 2015; Shirani, Henwood e Coltart 2012]. In questo contesto, è stato evidenziato che il discorso culturalmente dominante sulla buona genitorialità appare costruito a partire dalla prospettiva di genitori benestanti, dal momento che soddisfare le aspettative della genitorialità intensiva non solo appare emotivamente assorbente, ma anche e soprattutto finanziariamente costoso [Krumer-Nevo 2020; Russell, Harris e Gockel 2008; Sanfelici e Gui 2022]. Ciò consente di comprendere il possibile rischio di colpevolizzazione avvertito dai genitori che non dispongono delle
{p. 33}risorse materiali per la sussistenza della propria famiglia, come quelli con problemi finanziari [Sanfelici e Gui 2022].
Come è stato anticipato, il progetto CoPInG è nato proprio partendo da un’analisi critica dei discorsi dominanti sulle famiglie con l’obiettivo di studiare le costruzioni di genitorialità da parte di genitori che per motivi diversi si discostano da un immaginario normativo e idealizzato come presupposto della buona genitorialità. Approfondire l’impatto che visioni stereotipizzate e normative hanno su di loro è fondamentale per avvicinarsi al loro modo di fare i genitori e per comprendere le sfide che incontrano, i bisogni che hanno, ma anche le diverse risorse di cui dispongono.

4. Effetti degli stereotipi

Fino agli anni Settanta, lo studio degli stereotipi si è principalmente concentrato sull’analisi dei sistemi di credenze posseduti da membri della popolazione generale nei confronti delle minoranze. Con questo termine si fa riferimento non solo a gruppi sociali numericamente meno presenti in società, ma anche a gruppi in condizione di svantaggio per il proprio status sociale (si pensi, ad esempio, alle donne, in molte società numericamente in maggioranza, ma il cui potere e prestigio all’interno della struttura sociale è meno valorizzato rispetto alla controparte maschile).
In tempi più recenti hanno però iniziato a farsi spazio anche studi sugli effetti che le credenze stereotipiche esercitano sui comportamenti di chi è vittima dello stereotipo [Shelton 2000; Swim e Stangor 1998].
Il progetto CoPInG in parte si inserisce all’interno di questo filone di ricerca, vista la sua volontà di dare voce e visibilità alle esperienze dei genitori che vivono in condizioni di vulnerabilità e che, di conseguenza, si distaccano per una o più delle proprie caratteristiche dall’immagine stereotipata di «buona famiglia». In questo senso, nei prossimi paragrafi saranno passati in rassegna alcuni dei principali possibili effetti che possono derivare dall’interiorizzazione degli stereotipi, con l’obiettivo di porre in luce se, come e in quali circostanze specifiche questi condizionino scelte, pratiche e visioni dei genitori che hanno preso parte allo studio.

4.1. La profezia che si autoadempie

Uno dei principali effetti messi in evidenza negli studi sugli stereotipi è il cosiddetto fenomeno della «profezia che si autoadempie»: le persone oggetto dello stereotipo tenderanno a mettere in discussione sé stesse, vivendo con disagio il fatto di non soddisfare pienamente le aspettative sociali. Questo evento ricorda il «teorema di Thomas» e il concetto di definizione della situazione {p. 34}in base al quale una situazione percepita come reale diviene reale nelle sue conseguenze [Thomas e Thomas 1928]. Tale effetto può avere come esito da parte di alcuni soggetti l’assunzione di comportamenti vicini allo stereotipo che li riguarda o l’interiorizzazione di alcuni di essi.
In uno studio sperimentale condotto verso la metà degli anni Settanta [Word, Zanna e Cooper 1974] furono simulati alcuni colloqui di lavoro con candidati di etnie diverse. In una prima fase, i ricercatori, nei panni dei selezionatori, assunsero atteggiamenti differenziati sulla base di pregiudizi di tipo razziale. Più nello specifico, si posero in maniera più distaccata nei confronti dei candidati afroamericani rispetto ai bianchi. Come risultato emerse che i candidati afroamericani, resisi conto della disparità di trattamento nel corso dei colloqui, iniziarono a mostrarsi più ansiosi e meno performanti. Chiamati tutti per un secondo colloquio, gli stessi candidati della prima fase furono stavolta trattati equamente. Nonostante ciò, i candidati afroamericani continuarono a mostrare poca preparazione e un alto grado di nervosismo.
Anche nell’ambito degli studi sulle famiglie non mancano ricerche che hanno posto in luce come per alcuni genitori il disattendere le aspettative sociali possa impattare sul loro modo di sentirsi e percepirsi adeguati, a prescindere dalle loro reali competenze genitoriali. Entro questa cornice si collocano, ad esempio, gli studi volti a indagare in che modo padri e madri vivono la conciliazione tra vita familiare e lavorativa. Nella maggior parte dei casi, le ricerche condotte nel contesto occidentale hanno posto in luce che le donne, molto più degli uomini, vivono il loro ruolo di lavoratrici accompagnato da un forte senso di colpa [Aarntzen et al. 2021; Korabik 2015; Martínez et al. 2011], in virtù delle diverse aspettative associate ai compiti di cura sulla base del genere.
Si tratta di uno dei tanti casi volti a dimostrare che i preconcetti sociali, oltre a distorcere la percezione delle persone, sono anche capaci di suscitare negli attori sociali oggetto di aspettativa alcuni comportamenti che possono arrivare anche a confermare lo stereotipo che le riguarda.
Anche alcune delle testimonianze rilasciate da genitori appartenenti alla comunità LGBT che hanno preso parte allo studio si muovono in questa direzione. Alcuni partecipanti, infatti, hanno dichiarato di essere arrivati al punto di mettere in discussione sé stessi e la propria immagine come genitori. È il caso, ad esempio, di una madre lesbica, residente nel Sud Italia:
Ci sono dei pregiudizi innati in tutti noi… anche la comunità LGBT si chiede se l’omogenitorialità è giusta, se è sbagliata, se siamo contro natura… sono domande proprio classiche, non solo degli omofobi.
Sulla stessa linea si collocano le parole di un uomo transgender, il cui percorso di transizione è stato appesantito dal timore che il proprio percorso di autodeterminazione non fosse coerente con il ruolo di genitore:{p. 35}
Per me era una cosa sconvolgente e… addirittura pensavo al suicidio…
Gli stralci di intervista mostrano come le persone appartenenti a minoranze sessuali o di genere, in alcuni casi, mettano in dubbio le proprie possibili competenze genitoriali, avvertendo che le loro caratteristiche identitarie si discostano del tutto o in parte dal modello dominante socialmente atteso.
La mancanza di lavoro rappresenta, poi, un ulteriore elemento di disagio alla luce della stereotipica equazione che vede la buona genitorialità sovrapposta al benessere economico. Di conseguenza, l’impegno profuso per garantire serenità ai figli e gli sforzi quotidiani per provvedere al loro benessere finiscono per passare in secondo piano:
Quando sono venuto qui, ancora peggio, la situazione, perché non ho lavoro, non ho risparmi, non ho nulla, sto vivendo e viaggiando nel nulla. E quindi sento che non riesco a garantire alla mia famiglia il livello di vita di cui godevano nel mio paese. Non voglio fargli mancare nulla perché non è mai stata la mia intenzione quella di fargli mancare nulla, qualsiasi cosa avevano voluto ho cercato sempre di offrirgliela, di trovarla e di portargliela, ma qui mi sento che non ce la faccio mai… non ho la possibilità di farlo, perché comunque non lavoro.
In linea con questo racconto si colloca anche la storia di una madre immigrata, coniugata, residente nel Sud Italia, uscita da una condizione di sfruttamento lavorativo in agricoltura. Dalle sue parole emerge una sorta di rassegnazione rispetto all’impossibilità di poter cambiare la propria situazione a causa della condizione economica vissuta. Si tratta di una testimonianza che rende evidente come la propria immagine riflessa nello sguardo degli altri finisca per offuscare la capacità di vedere oltre, riconoscendo in sé stessi altre doti oltre a quelle oggetto dello stereotipo:
Vedevo solo quello, non avevo altro contatto con il mondo, quindi cosa dovevo fare? Neanche avevo io quella spinta a cercare di fare altro… perché in quel momento non vedevo un cambiamento, vedevo intorno a me le stesse cose e io facevo le stesse cose.
Nell’ambito di alcune interviste il contesto viene descritto come una delle principali cause che porta a smettere di «vedersi» come buoni genitori, in quanto, essendo in gioco la sopravvivenza stessa, i bisogni fondamentali non materiali – propri e dei figli – passano quasi in secondo piano. Al tempo stesso, dalle testimonianze raccolte è emerso però anche che i (pre)giudizi diffusi sulle persone che «chiedono», che sono visti come meno capaci di progettualità e indipendenza, vengono internalizzati dagli stessi genitori:
Io mi do molto la colpa, no? Sul fatto che io debba chiedere aiuto. Se io sono arrivata a chiedere aiuto è perché [è] colpa mia che non c’ho fatto, cioè… poi ti parte tutto un meccanismo nel cervello.{p. 36}
Dunque, se da un lato vi è la consapevolezza che vi siano alcune variabili di sistema che non consentono pari opportunità, non sono infrequenti dubbi da parte di madri e padri sulle proprie capacità di cura, sostentamento ed educazione dei figli [Sanfelici e Gui 2021]. Alcuni genitori in condizioni economiche precarie, inoltre, hanno utilizzato una parte del repertorio stereotipico o termini stigmatizzanti che sono diffusi nel pensiero dominante, che legano in particolare la povertà a responsabilità o caratteristiche individuali, ad esempio di chi «non ha voglia di lavorare» o di chi non riesce ad avere successo ed è relegato a lavori umili. È il caso, ad esempio, di una madre italiana che cresce da sola il figlio di 12 anni. Separata di fatto dal marito di origini marocchine, con cui mantiene una relazione conflittuale, vive in una regione del Nord Italia, facendo affidamento sulla propria pensione di invalidità e su quella della madre. La partecipante allo studio riporta un pensiero che attribuisce al figlio e che lei condivide, ovvero che il disimpegno nello studio espone al rischio di un futuro in lavori umilianti:
Però (mio figlio) sta riflettendo su quello che potrà fare e dice «Sì, però, se io continuo che non studio niente, finisce che vado a fare lo scopino lavacessi come il papi»… che purtroppo è vero (ride)! E allora lì sta valutando quello che sarebbe più utile, perché quello non gli piace molto come futura prospettiva, e non gli posso dar torto.
Anche alcuni genitori che sono passati per situazioni di alta conflittualità hanno raccontato di aver cambiato il proprio atteggiamento in virtù degli stereotipi esistenti sulla buona genitorialità. Tra gli altri, ad esempio, troviamo una madre che, di fronte alle pressioni esercitate dall’ex marito, aveva deciso di abbandonare la famiglia per salvaguardare il proprio benessere. Tuttavia, nell’immaginario collettivo, indipendentemente dalle motivazioni e dalle contingenze specifiche, «una mamma non dovrebbe mai andarsene». Dunque, seppur sostenuta da motivazioni razionali, la scelta di salvaguardare sé stessa ha finito, nel caso specifico, per cedere il passo a un senso di colpa, incentivato anche dalle reazioni e dalle pressioni arrivate dall’esterno:
Non posso dire «Tutto bene, tutto bene» quando poi magari hai fatto una telefonata con i tuoi genitori ed è venuto fuori un pandemonio… insomma hanno messo in dubbio ogni tua scelta, nel senso di dire «Ma cosa hai fatto? Perché hai lasciato i figli? Perché te ne sei andata?». Perché ovviamente per loro è una cosa che non si fa. Ma stiamo scherzando? Una madre che lascia i figli e se ne va. Cioè io mi sono sentita anche questa diciamo colpa in mezzo, colpa addossata.
Entro la stessa cornice è possibile altresì collocare la storia di una madre che ha descritto la fatica di affermare le proprie scelte affettive e personali nonostante fosse trascorso ormai del tempo dalla separazione. In particolare, il riferimento è alla (im)possibilità di poter ricostruire una vita di coppia, dal momento che questo tipo di percorso si discosta dallo stereotipo che vorrebbe {p. 37}le donne mettere da parte le proprie aspirazioni personali e più intime di fronte alle esigenze familiari:
Questo è il paese dove vivo, quindi lavoro in uno studio dentistico molto importante che è di mio zio e mi conosce tutto il paese… quindi sapere che mi ero separata, perché la mia famiglia va in Chiesa… mi ero separata e già «Oddio!» là davanti… poi l’adultera.
Un’altra partecipante allo studio ha raccontato di aver vissuto il fatto che i figli siano stati affidati all’ex marito come una sorta di sconfitta, che ha inciso anche sul suo modo di sentirsi una mamma adeguata:
È come camminare sul filo del rasoio, emotivamente provante perché ho questa sensazione sempre di essere inadeguata.
La sensazione di inadeguatezza caratterizza anche il racconto di alcuni genitori che, avendo vissuto esperienze di migrazione forzata, si ritrovano da soli a doversi prendere cura dei figli, mentre il/la partner è nel paese di origine:
Io sento che con le mie capacità, con quello che ho a disposizione, io sto facendo tutto quello che posso fare per essere una buona madre, però sento che non è mai abbastanza quello che sto facendo anche perché io sono da sola qui e devo essere mamma e devo essere papà, e per quanto io mi posso impegnare non è mai abbastanza quello che riesco a fare.

4.2. Abbassamento dell’autostima

Un altro effetto negativo degli stereotipi riguarda la possibilità per le persone stigmatizzate di vedere la propria autostima indebolita. Alcuni studi [Cadinu et al. 2005; Maass, Castelli e Arcuri 2000; Steele e Aronson 1995] hanno dimostrato che l’internalizzazione di una concezione negativa può portare alcuni soggetti a mettersi in discussione, a non sentirsi all’altezza, a vivere forme di disagio sociale e mancata accettazione di sé stesse o a temere che il proprio comportamento possa in qualche modo confermare lo stereotipo.
Ad esempio, per i genitori in condizioni di povertà, non poter garantire le condizioni per soddisfare i bisogni primari della propria famiglia è stato spesso descritto come fonte di vergogna, capace di generare sensi di colpa o la percezione di aver fallito. Le parole utilizzate da una madre italiana single, emigrata al Nord dal Sud Italia, attualmente disoccupata, restituiscono in maniera lampante questo sentire:
Quando ti trovi a chiedere aiuto agli altri per i bisogni dei tuoi figli, che sono necessari, ti senti un pochettino come… non è un’umiliazione, perché purtroppo ci
{p. 38}siamo tutti dentro, purtroppo questo periodo è difficile, però la vivi come tale… per un genitore non poter soddisfare i bisogni primari dei figli è una cosa che… che pesa molto…