Alessandro Sicora, Silvia Fargion (a cura di)
Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c6
Il tema delle rappresentazioni mentali è particolarmente significativo se contestualizzato nella relazione professionista-genitore. Queste, infatti,
{p. 180}influenzano il pensiero secondo un carattere descrittivo (definiscono ciò che le persone sono) e prescrittivo (come dovrebbero essere) stabilendo quale comportamento (genitoriale) sia più desiderabile, o socialmente accettabile. Danno forma a giudizi che precedono l’esperienza e che hanno il potere di influenzare inconsapevolmente le modalità di relazione. La forza delle rappresentazioni mentali è emersa dall’esperienza degli assistenti sociali attraverso ciò che abbiamo definito «genitorialità nella mente» che evidenzia come ogni professionista abbia una propria idea di cosa sia genitorialità, un’idea che precede l’incontro con i genitori (la «genitorialità reale»).
La donna che abbiamo accompagnato adesso è fuori. Dopo un lavoro di 4 anni il tribunale l’ha considerata una buona madre. Stiamo accompagnando un’altra giovane madre. Questa madre mischia le sue e le nostre usanze, si sta italianizzando molto. Il suo è un buon percorso e il suo obiettivo è quello di dare al figlio un futuro migliore. Quando vedi del buono in una persona, porti avanti quel progetto e lo vivi come un successo (…). Quando non realizzi l’aspetto positivo che avevi in mente, hai la frustrazione a livello professionale che vivi come un fallimento, come quando un genitore si rivela un cattivo genitore e arriva a lasciare i figli in struttura (…). Utilizzo l’esempio di madri che lasciano i figli perché secondo me è l’esempio che dice bene quanto non si è buoni genitori o quanto non si voglia fare i genitori.
Prima di questa esperienza agivo forte della convinzione della mia rappresentazione, di quello che significava per me essere un buon genitore. Dopo questa esperienza invece mi sono resa conto dei miei pregiudizi, ho imparato a guardarli e con occhi diversi perché ho imparato a rispettare quello che è il loro essere genitore. Quindi lo accetti, lo rispetti e magari modifichi anche i tuoi comportamenti rispetto a quello che è la loro cultura, il loro agire da sempre.
Il colloquio di prima conoscenza è stato un colloquio congiunto. Ho scelto di farlo così per sollevarle da un incubo, perché immaginavo che per loro fosse fonte di preoccupazione quella di essere valutati da un servizio sociale.
Un altro fattore che apre alla possibilità di attivare inconsapevolmente azioni oppressive è l’autorappresentazione del ruolo professionale. Gli assistenti sociali oscillano tra due rappresentazioni del proprio ruolo a loro volta rafforzate dalle rappresentazioni e dalle attese dei genitori stessi. In alcuni casi, percepiscono il proprio ruolo come «ponte», una cerniera di collegamento tra le esigenze dei genitori e le circostanze del nuovo contesto; in altri, ne hanno una rappresentazione «onnipotente» percependosi indispensabili per la soluzione dei loro problemi quotidiani:
Io mi vedo come un ponte. Questi genitori sono portatori di bisogni diversi e questo significa per me svolgere diversi compiti. Mi sento una figura centrale perché attivo relazioni tra loro e il mondo esterno, io sono il tramite e tramite me loro conoscono cose fino a quel momento sconosciute. {p. 181}
Loro venivano da me per qualsiasi problema di qualsiasi natura. Mi vedevano onnipotente, pronta a rispondere a tutto, e in effetti avevano questo accudimento da parte mia, un vero e proprio maternage. Ero indispensabile da ogni punto di vista per loro.

5.2. Pratiche anti-oppressive consapevoli

I fattori che promuovono e sostengono un approccio anti-oppressivo nell’azione professionale degli assistenti sociali riguardano sia la dimensione individuale che organizzativa, che non possono essere disgiunte perché gli apprendimenti esperienziali da cui deriva l’impegno professionale a perseguire la pratica anti-oppressiva devono trovare un setting organizzativo facilitante che ne traduca operativamente i principi.
Dalla voce degli assistenti sociali questi fattori sembrano includere la consapevolezza e la flessibilità organizzativa.
La consapevolezza è qui intesa come apprendimento pratico, o dalla pratica, e comprende in primo luogo il riconoscimento della propria «situatività». Con «situatività» intendiamo indicare un «guardare e un fare situato» plasmato dai contesti storici, culturali e sociali. Riconoscere il proprio punto di vista come storicamente, culturalmente e socialmente situato sembra aiutare gli assistenti sociali a essere consapevoli di come l’idea di genitorialità sia un concetto relativo, che cambia nel tempo e nello spazio.
Tra genitori immigrati e genitori italiani ci sono differenze negli stili educativi. I genitori immigrati hanno stili educativi che da noi rappresentano le famiglie disfunzionali (…). Tendiamo a considerare la genitorialità un concetto standardizzato, ma quando andiamo a valutare ci troviamo di fronte all’aspetto culturale e ai modelli educativi della famiglia. Dobbiamo prenderne atto altrimenti rischiamo di cadere nei pregiudizi.
Lavorando con questi genitori ho imparato molte cose (…). Nessuno può dire se l’essere madre in Nigeria è meglio dell’essere madre in Italia o viceversa: io potrei essere per un’altra cultura un genitore che adotta una ipercuria verso il proprio figlio.
Credo di non avere pregiudizi, nel senso delle coppie omogenitoriali che hanno figli. Anzi, a volte mi trovo a discutere con altre persone perché secondo me è una cosa molto bella che, se uno si sente genitore, possa avere un bambino, che sia single, che sia gay, che sia tutto quello che è. Anche perché nel nostro lavoro vediamo dei genitori «normali» che invece non sono molto adeguati. Il mio sguardo è neutro verso queste famiglie. Neutro, come se fosse una cosa normalissima.
La consapevolezza degli assistenti sociali nel lavoro con questi genitori è fortemente sostenuta dalla riflessività, descritta come attitudine e strumento di lavoro utile a mettere criticamente in discussione: a) le conoscenze di cui si dispone; b) le modalità con cui queste conoscenze sono state prodotte; c) il ruolo delle relazioni di potere nella produzione di queste conoscenze. La {p. 182}riflessività è un approccio critico che permette ai professionisti di problematizzare ciò che è dato per scontato.
C’è bisogno di una netta consapevolezza dei danni che l’occidente ha fatto nel resto del mondo, cioè tenere presente che veniamo da una storia di depredazione sistematica di territori, vite e persone, e per quanto mi riguarda non ho da insegnare niente a nessuno (…) l’ottica dovrebbe essere davvero quella post-coloniale, abbandonare questo nostro atteggiamento di forti e giusti del mondo quando ci relazioniamo con gli altri, ma ancora ci atteggiamo come grandi elargitori. Mi piacerebbe che ci chiedessimo davvero «Ok, da dove vengo io? qual è la mia storia?». Lì forse cambierebbe un po’ il nostro impianto di conoscenze e il nostro approccio professionale.
Imporre una genitorialità in cui i genitori non si riconoscono non funziona. Piuttosto, dare loro una cassetta degli attrezzi che possa aiutarli come genitori. È molto difficile negoziare il significato della genitorialità, è una conoscenza infinita perché non è un concetto standard e univoco, ogni genitore è un genitore a sé. Io sono siciliana e credo già di essere una madre diversa rispetto allo stile della mia amica veneta.
L’esperienza descritta dagli assistenti sociali evidenzia come accanto alla riflessività, e da questa favorito, ci sia anche l’apprendimento dalla pratica di alcune competenze che permettano loro di stare nella relazione alla pari in modo che la genitorialità sia sostenuta senza tentativi di «normalizzazione» sulla base di ciò che è la «genitorialità nella mente». Queste competenze attengono, prevalentemente nel lavoro con i genitori in migrazione forzata, a ciò che abbiamo definito «attenzione antropologica» e «negoziazione interculturale». L’attenzione antropologica riformula il bisogno avvertito dagli assistenti sociali di essere più consapevoli e formati sull’impatto della distanza antropologica che percepiscono, che non è riducibile alla mera differenza culturale. Negoziazione interculturale rimanda all’incontro alla pari tra culture di appartenenza diverse in cui l’inizio della relazione non può prescindere dal fare chiarezza sulle concezioni, sui significati e sulle rappresentazioni mentali delle genitorialità.
Se comprendo che esiste una situazione di rischio per il minore intervengo, diversamente mi metto alla pari. Quando faccio le visite domiciliari mi comporto normalmente mettendomi a mio agio e non facendomi problemi, per esempio, di pulizia come il pregiudizio porterebbe a fare. Mettermi alla pari significa per me non creare barriere sull’idea che uno sia migliore dell’altro e loro questo me lo hanno fatto notare proprio con l’atto del sedermi che per loro significa «stai entrando nel mio mondo».
Più che giudicare credo che sia opportuno negoziare cosa sia un genitore tra le due culture e questo dà la possibilità di lavorare meglio con questi genitori. Il mio modo di vedere le situazioni è completamente cambiato perché prima di accompagnarli mi confronto con loro, parlo. Molte volte le situazioni di pregiudizio sono inconsapevoli e nascono solo dalla mancanza di informazioni e di incomprensioni. Allora ho imparato ad ascoltarli, capirli e parlarci prima di agire, non solo mettermi nei panni di questa mamma o di questo papà, ma sentire la loro voce per capirci.{p. 183}
Il riconoscimento della presenza dei pregiudizi e della loro (frequente) inconsapevole espressione è parte integrante del lavoro degli assistenti sociali con questi genitori e ne sfida la professionalità perché impone la decostruzione delle proprie rappresentazioni e schemi mentali e dei propri pregiudizi che informano, spesso, modalità di intervento che «costringono» piuttosto che liberare la loro agency.
Nella «relazione reale» [Hutton, Bazalgette e Reed 1997] con i genitori gli assistenti sociali sentono la necessità di entrare in contatto con i propri schemi cognitivi e culturali e maturano la comprensione dei propri pregiudizi e dei propri riferimenti valoriali [Cellini e Dellavalle 2015]. È un apprendimento double-loop [Argyris e Schön 1996] che li impegna faticosamente, attraverso la riflessione critica, nella messa in discussione degli assunti con cui interpretano il mondo per agire nel mondo. Il processo della «alterizzazione», ovvero il «considerare le persone come passive e vittime dipendenti, incapaci di agire per loro conto» [Dominelli 2009, 55], è un rischio molto alto nel lavoro con i genitori in condizioni di incertezza (genitori in migrazione forzata, in situazioni di difficoltà economica, LGBTQ+, in contesti di alta conflittualità), verso i quali la risposta immediata da parte degli assistenti sociali sarebbe quella di «decidere per loro conto» sulla base di ciò che ritengono sia meglio per loro, negando la loro agency e ricreando, inconsapevolmente nel micro, una relazione professionale in cui l’aiuto è promosso attraverso la riproposizione di schemi di relazioni che riflettono (e magari rafforzano) le strutture di potere di livello macro – caring and oppressing [Dominelli 2002].
La pratica anti-oppressiva passa allora attraverso un «decentramento culturale» [Cattaneo e dal Verme 2009] che li porta ad assumere uno sguardo sull’altro che tenti di comprenderlo senza ricondurlo a categorie definite. È la «sospensione del giudizio»; per alcuni professionisti una vera e propria «decolonizzazione delle nostre conoscenze» [Sakamoto 2007] intesa come sforzo a «liberarsi» dalle proprie categorie e abiti mentali per comprendere l’alterità nei suoi propri termini e riconoscerne la legittimità; è aprire uno spazio di dialogo in una posizione che sia per l’assistente sociale one-down.
Questa sembra essere la tensione che vivono costantemente gli assistenti sociali che riescono a risolvere quando ricorrono all’unico strumento loro disponibile, la riflessività, ciò che permette un intervento «trasformativo» piuttosto che di status quo. La «riflessività empatica» [Dominelli 2009] aiuta gli assistenti sociali a superare le attitudini di senso comune sulle differenze attraverso lo sviluppo di una più profonda comprensione della posizione dell’altro mentre riflettono sulla natura privilegiata della propria. Per molti, infatti, ri-conoscere la propria storia e posizionarsi rispetto a essa è condizione necessaria allo sviluppo di una forte «consapevolezza critica» [Dominelli 2002; Freire 1974; Sakamoto e Pitner 2005a] in relazione sia alle origini dell’oppressione e ai meccanismi attraverso i quali funziona e si rigenera nelle relazioni quotidiane, sia all’impatto che l’oppressione può avere nella {p. 184}relazione professionale attraverso il prevalere dei pregiudizi che influenzano la percezione delle differenze e determinano le dinamiche di potere.
Allo stesso tempo, la «flessibilità organizzativa» è l’esplicitazione del bisogno avvertito dagli assistenti sociali di ricercare nuove modalità e processi organizzativi che non «opprimano» e non «costringano» la libertà professionale nel lavoro con i genitori rifugiati. Questo è di estrema importanza perché la realizzazione di pratiche anti-oppressive richiede profondi cambiamenti nella struttura e nella cultura organizzativa dei servizi sociali. Molti assistenti sociali hanno la sensazione che l’ambiente istituzionale e comunitario entro cui essi lavorano non sostenga il carattere etico della loro missione e questo genera conflitti e frustrazioni.
Se la consapevolezza rimanda al lavor(ì)o che l’assistente sociale deve fare per essere un professionista anti-oppressivo, la flessibilità organizzativa garantirebbe le risorse e gli strumenti per poter agire realmente in questo senso. La de-standardizzazione dei processi, accanto a piccole innovazioni organizzative, è vissuta dagli assistenti sociali come condizione necessaria per destrutturare paradigmi, ri-conoscere (nel senso di conoscere di nuovo), incontrare l’altro e creare una relazione di fiducia che permetta la «co-determinazione» [Gui 2004] attraverso la co-costruzione degli interventi [Ferrario 1996; Fargion 2002].
Mi rendo conto che la famiglia fa difficoltà a venire da noi perché siamo troppo chiusi nei nostri uffici, andiamo per appuntamento (…). Dovremmo fare in modo che questi genitori si avvicinino a noi. Da quando io sono lì al Comune non è mai successo. Per questo dico che uscendo fuori, facendoci conoscere e conoscendo, progettando insieme qualcosa di diverso ma ugualmente efficace potremmo avvicinarci di più alle persone (…). La visita domiciliare, per esempio, perché deve essere così istituzionalizzata? Creiamo delle unità di strada.
Forse il problema è che bisognerebbe andare a lavorare nel territorio con le persone, ma non c’è una mentalità all’interno del servizio di un servizio che non sia chiuso dentro le mura. Io a volte ho bisogno di stare fuori, perché il bisogno lo intercetti lì e non dentro l’ufficio. Non c’è proprio la mentalità, anche se non so se è mentalità o modello di lavoro.
Se la consapevolezza dell’impatto dei pregiudizi e delle «correlazioni mentali» [Miller 1990] nella relazione di aiuto rende la pratica professionale anti-oppressiva e «anti-discriminatoria» [Dominelli 2018], il managerialismo «burocratizzato» [Dominelli 1996; 2005] e la cogenza del mandato istituzionale appalesano e operativizzano dinamiche oppressive che sono subite in prima istanza dagli assistenti sociali e, in seconda istanza, a cascata, dai genitori. Le specificità di questi genitori mettono in crisi «modelli organizzativi precostituiti» [Giacalone 2012] e processi organizzativi incoerenti con i contenuti di un lavoro di tipo «non repressivo» [Olivetti Manoukian 1995]: gli assistenti sociali descrivono il mandato istituzionale come una «costrizione»,
{p. 185}un «percorso fatto di strettoie» che spinge paradossalmente verso pratiche oppressive consapevoli, e riconoscono che la relazione con la persona non è indipendente dal contesto, se una cultura oppressiva permea il sistema dei servizi e la relazione tra i servizi e la comunità, essi non riusciranno mai a lavorare in maniera pienamente anti-oppressiva.