Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c6
Storicamente il servizio sociale ha incoraggiato relazioni di dominio tese al mantenimento dello status quo [Lorenz 1994]. All’interno, e come parte, del progetto di modernità dello Stato, i professionisti dell’aiuto hanno promosso pratiche di servizio volte a promuovere la coesione attraverso un processo di «omogeneizzazione» [Dominelli 2002], unificando cioè le diversità delle persone in un «insieme omogeneo» determinato da arbitrarie definizioni e criteri di inclusione ed esclusione. La preoccupazione (politica) che individui e gruppi svantaggiati avrebbero potuto abusare delle risorse disponibili «rifiutando di
¶{p. 170}condurre una vita morale e operosa» [Baumann 1992, in Dominelli 2002, 28], è venuta incorporandosi nelle pratiche e nelle responsabilità degli assistenti sociali, i quali hanno iniziato a separare i richiedenti aiuto in meritevoli e immeritevoli attraverso il loro potere discrezionale per distribuire risorse a beneficio dei primi e negandole ai secondi [ibidem].
Il mandato del servizio sociale come professione di cura ha ruotato, quindi, attorno a delle ambiguità su chi doveva essere o non essere aiutato e sotto quali condizioni [Parton 1998]. La dinamica dell’inclusione/esclusione, contenuta nel mandato, ha fatto degli assistenti sociali degli esecutori del controllo sociale per conto della società e non solo dei professionisti dell’aiuto. Essere coercitivi piuttosto che di aiuto dipendeva, quindi, dalla valutazione sul singolo individuo e sulle sue circostanze e condizioni di idoneità in forza della legge del momento [Dominelli 2002]. Questo ha avuto particolari implicazioni. Applicare contemporaneamente aiuto e controllo da parte degli assistenti sociali ha di fatto limitato
lo sviluppo del servizio sociale come professione impegnata in ideali altruistici focalizzata esclusivamente nell’aiutare le persone e lo ha incorporato invece in un’ideologia di universalismo condizionato che è stato assimilazionista nel suo progetto perché ha presunto che tutti fossero uguali, quando le esperienze quotidiane di molti individui e gruppi hanno svelato questa supposizione come menzogna [ibidem, 29].
Il servizio sociale anti-oppressivo è cresciuto con gli sforzi degli attivisti dei nuovi movimenti sociali degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta – tra questi, il movimento femminista, quello dei black activists e della disabilità – che si chiedevano perché il servizio sociale che avrebbe dovuto sostenerli nei loro bisogni e offrire loro servizi appropriati fosse, invece, spesso oppressivo sia in termini di ciò che veniva offerto sia in termini di modalità di erogazione dell’offerta [Dominelli 1997; 2004; 2010]. Questi movimenti portarono avanti una critica radicale in relazione a tre questioni fondamentali: le relazioni sociali capitalistiche inegualitarie in cui i servizi sono incorporati; le opinioni stigmatizzanti della società nei confronti di persone «fuori» dalla norma dominante del «maschio bianco classe media»; l’accondiscendenza con cui i servizi sono erogati per coloro che sono diversi [Dominelli 2012]. Le loro preoccupazioni su una distribuzione iniqua del potere e delle risorse nella società furono incorporate in una politica identitaria che, a partire dal riconoscimento esplicito dell’esistenza di relazioni di potere basate su attributi identitari, enfatizzava come le relazioni di potere si fossero costruite attorno a divisioni sociali basate su classe, razza, età, genere, disabilità e fossero state usate per «opprimere le persone» o tenerle «al loro posto» quali ricettori passivi di «benevolenza sociale» [ibidem, 333]. Il contributo di questi movimenti è stato cruciale sia per l’indebolimento delle relazioni sociali oppressive esistenti attraverso pratiche di resistenza finalizzate a rivendicare identità marginalizzate, sia per la ¶{p. 171}formulazione di teorie sull’identità e sul riconoscimento, sia per lo sviluppo di servizi promossi in maniera autonoma rispetto alle scelte dei detentori del potere egemonico [ibidem].
L’approccio anti-oppressivo ha trovato un suo più compiuto sviluppo all’interno del radical social work [Bailey e Brake 1975; Corrigan e Leonard 1978] e del critical social work [Allan, Briskman e Pease 2020; Fook 2016], entrambi focalizzati sull’oppressione e sulle modalità attraverso cui le strutture sociali modellano (anche) la pratica del servizio sociale e, soprattutto, interessati a «obiettivi di liberazione personale e cambiamento sociale» [Fook 1993, 7]. Le critiche mosse da questi nuovi approcci al servizio sociale tradizionale riguardavano il fatto che quest’ultimo avrebbe continuato a mantenere e rinforzare l’oppressione e le diseguaglianze e a considerare i problemi sociali come effetto della mancanza della capacità dell’individuo di affrontare la vita quotidiana. Nel dominante approccio del «mantenimento» [Davies 1994], infatti, la principale preoccupazione degli assistenti sociali era quella di assicurare che le persone potessero affrontare nel miglior modo possibile la propria vita quotidiana; il loro intervento era molto pragmatico, guidato da una «saggezza pratica» [Dominelli 2009, 51]. Il focus dell’intervento era, quindi, sulle micro-abilità a livello individuale, mentre venivano ignorate le forze strutturali e di livello macro che determinano le circostanze degli individui: «consentire alle persone di adattarsi allo status quo in modo più significativo è una delle loro principali preoccupazioni. Essi non considerano l’avvio di cambiamenti nell’ordine sociale esistente come un comportamento professionale adeguato» [Dominelli 2002, 61].
Per il critical social work in particolare, molto ispirato dalle idee post-moderniste, il servizio sociale deve essere una pratica che ambisce a sfidare le disuguaglianze, l’emarginazione e l’oppressione a livello strutturale usando una lente, appunto, «strutturale» per la comprensione dei problemi sociali [Adams, Dominelli e Payne 2009; Bailey e Brake 1975; Dominelli 2002; Pease e Fook 1999; Sakamoto e Pitner 2005a]. Qui è riconosciuta la «natura politica della professione» [Dominelli 2002, 61] e l’importanza della pratica anti-oppressiva come fondamento su cui costruire il cambiamento sociale attraverso una maggiore promozione di giustizia sociale: la preoccupazione è sugli effetti deleteri dei cambiamenti a livello macro che possono impattare sulla vita quotidiana delle persone e l’obiettivo è «dare potere alle persone collegando la loro situazione personale alle disuguaglianze strutturali e provando a cambiarle entrambe» [ibidem].
Lena Dominelli colloca la pratica anti-oppressiva nell’ambito degli approcci emancipatori del servizio sociale. L’approccio emancipatorio è fondato su un esplicito impegno nella realizzazione della giustizia sociale attraverso il principio-obiettivo dell’empowerment che modifica la relazione persona-professionista allontanando il professionista da un orientamento professionale di esperto neutrale per: a) analizzare l’impatto delle relazioni di potere sugli ¶{p. 172}aspetti della vita quotidiana delle persone; b) valutare le risorse delle persone e le loro conoscenze esperienziali; c) esplorare le situazioni e permettere alle persone di acquisire conoscenze e abilità nel controllare le proprie vite; d) comprendere le connessioni tra le posizioni nella struttura sociale e le opportunità disponibili; e) connettere la propria condizione a quella degli altri.
Dentro questo frame concettuale, la pratica anti-oppressiva mira a promuovere l’equità, l’inclusione, la giustizia sociale come aspetti fondamentali nella pratica del servizio sociale; figlia di un approccio che immagina un mondo caratterizzato dalla libertà da tutte le strutture di dominio e privilegio [Bishop 1994], vuole comprendere le cause strutturali dei problemi sociali e agire per sradicare le molteplici manifestazioni dell’oppressione [Campbell 2003; Dominelli 2002; Mullaly 2002] alterando le relazioni sociali a tutti i livelli, dal livello micro al livello macro. Il suo obiettivo è, quindi, duplice: offrire sostegno pratico a coloro che sono feriti dall’ordine sociale oppressivo e, nello stesso tempo, promuovere e facilitare il cambiamento dei sistemi oppressivi esistenti.
Nelle parole di Dominelli [1993, 24] la pratica anti-oppressiva è:
Una forma di pratica di servizio sociale che affronta le divisioni sociali e le diseguaglianze strutturali nel lavoro con i «clienti» (utenti). La pratica anti-oppressiva mira a fornire servizi più appropriati e sensibili rispondendo ai bisogni delle persone indipendentemente dal loro status sociale. La pratica anti-oppressiva incarna una filosofia centrata sulla persona, un sistema di valori egalitario che si occupa di ridurre gli effetti deleteri delle diseguaglianze strutturali sulla vita delle persone; una metodologia incentrata sul processo e sul risultato; e una modalità di relazioni sociali strutturali tra individui che mira a dare potere agli utenti riducendo gli effetti negativi della gerarchia nella loro interazione immediata e nel lavoro che svolgono.
Questa definizione mette in evidenza il presupposto della pratica anti-oppressiva secondo cui la società è oppressiva e l’oppressione è la principale fonte dei problemi sociali, ma rivela anche la sua natura «trasformativa» per la sua vocazione al cambiamento sociale attraverso: la pratica olistica, l’eliminazione delle diseguaglianze strutturali, le relazioni sociali, la centratura su obiettivi, processi e risultati, il lavoro collaborativo [Dominelli 1993; 2002; Ferguson 2008].
Dominelli [2012, 331] ricorda che la pratica anti-oppressiva
è basata sui diritti umani e sulla cittadinanza; considera le persone come protagonisti della propria vita valorizzando la loro unicità; affronta le diseguaglianze strutturali e redistribuisce risorse da coloro che le posseggono a coloro che non le posseggono; promuove forme di pratica capaci di «dare potere»; facilita la crescita individuale assieme allo sviluppo della comunità; incoraggia innovazioni pratiche e teoriche; mette al centro le relazioni di potere egemonico; sostiene interventi olistici.
Operare secondo i suoi valori (uguaglianza, agency, interdipendenza, solidarietà, reciprocità, empowerment, diritti umani, giustizia sociale) significa quindi [ibidem, 337]:¶{p. 173}
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comprendere le dinamiche di oppressione nella loro produzione e riproduzione dentro un sistema di credenze personale e di forme di comportamento e nella loro incorporazione nelle pratiche istituzionali e culturali;
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riconoscere le persone nella loro totalità, cioè come esseri umani che vivono in contesti storici, culturali, sociali, politici ed economici;
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lavorare con le persone per affrontare in modo olistico i problemi che vivono e coinvolgendoli nella ricerca delle soluzioni;
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comprendere le connessioni tra i propri sistemi di credenze personali e la propria posizione nella stratificazione sociale e come questo sia il risultato di politiche istituzionali e pratiche culturali che hanno un impatto sulla relazione con le persone che usufruiscono dei servizi;
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riconoscere le complesse connessioni tra le diverse forme di oppressione e come le dinamiche dell’oppressione interagiscono tra loro, si nutrono a vicenda, e cambiano a seconda di come le persone negoziano le proprie interazioni;
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costruire alleanze dentro e fuori il servizio sociale per cambiare le esistenti relazioni sociali oppressive a livello personale e strutturale;
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sostenere le rivendicazioni di coloro che cercano giustizia sociale e promuovono l’affermazione dei diritti umani.
4. Il servizio sociale è davvero anti-oppressivo?
Nella pratica del servizio sociale, l’approccio olistico ed egalitario di cui è portatrice la pratica anti-oppressiva si traduce nel considerare la persona nella sua totalità e nello shift di ruolo del professionista da esperto neutrale a facilitatore delle strategie di coping e di cambiamento a livello individuale (micro), organizzativo (meso) e sociale (macro).
Nell’ambito delle riflessioni sulla praticabilità della pratica anti-oppressiva, la questione spinosa su cui il dibattito si è concentrato è se il servizio sociale possa dirsi realmente basato su una relazione equa, in termini di potere, tra professionista e persona [Dalrymple e Burke 2006; Sakamoto e Pitner 2005a; Danso 2009].
Il servizio sociale, come tutte le professioni di aiuto, è per sua natura top-down [Sakamoto e Pitner 2005a]. Top-down indica la posizione di esperto dell’assistente sociale che trasmette conoscenze e abilità alla persona-utente (inesperta). Questo differenziale di potere è qualcosa che l’assistente sociale acquisisce già durante la sua formazione e, nonostante sia diffusa la riluttanza a riconoscerlo, è incontrovertibile che questa dinamica di potere sia radicata nella professione [Dominelli 1997; 2002; Payne 2005; Piven e Cloward 1993; Sakamoto 2003; Thompson 1997]. La pratica anti-oppressiva è, pertanto, vulnerabile alla «trappola insegnante/studente» [Sakamoto e Pitner 2005a; Wilson e Beresford 2000] in cui la persona è vista come lo studente e l’as¶{p. 174}sistente sociale come l’insegnante. Per cogliere questo squilibrio si possono ricordare le parole di Freire [1997, 54]:
l’insegnante insegna e gli studenti sono istruiti; l’insegnante sa tutto e gli studenti non sanno nulla; l’insegnate parla e gli studenti ascoltano docilmente; l’insegnante sceglie e impone la sua scelta e gli studenti hanno l’illusione di agire attraverso l’azione dell’insegnante; l’insegnante sceglie il contenuto del programma e gli studenti (che non sono stati consultati) vi si adeguano; l’insegnante confonde l’autorità della conoscenza con la propria autorità professionale che contrappone alla libertà degli studenti.
Da questa prospettiva, gli assistenti sociali sono in una posizione dalla quale possono «insegnare» alle persone qualcosa del loro problema, e ciò implica che la comprensione del problema si basi fortemente sulle percezioni che essi hanno del problema per comprendere la persona. Questo evidenzia come esista il rischio reale che anziché muoversi verso la giustizia sociale, la trappola insegnante/studente porti il professionista a perpetuare differenze di potere e, paradossalmente, ingiustizia sociale. Quando gli assistenti sociali inquadrano i problemi delle persone in termini di oppressione (ad es., razzismo, classismo, sessismo) possono, inavvertitamente, farlo a scapito dei loro bisogni; loro stesse, infatti, potrebbero non definire i loro problemi allo stesso modo. In altri termini, i problemi delle persone vengono trasmutati in una missione che gli assistenti sociali accettano per affrontare l’ingiustizia sociale. Ma, come è stato segnalato, se questi trasmettono le loro conoscenze sull’oppressione alla persona «non istruita», la domanda che emerge è «chi ne sa di più sull’oppressione? Chi la insegna o chi la vive?» [Sakamoto e Pitner 2005a, 439]. Come ha segnalato Freire [1997, 36]: «una pratica dell’aiuto che inizi con gli interessi egoistici degli oppressori e fa degli oppressi l’oggetto del suo mantenimento, incarna e mantiene essa stessa l’oppressione».
La domanda è, quindi, come può l’assistente sociale evitare la trappola insegnante/studente e lavorare in un modo che sia il più anti-oppressivo possibile?
4.1. Dare voce alle persone. Decostruire il «socialmente costruito» attraverso la consapevolezza critica e una nuova cultura organizzativa
La pratica anti-oppressiva richiede agli assistenti sociali di lavorare per processi di autoriflessione e autoanalisi critica [Dalrymple e Burke 1995; Mullaly 2002]. Questi processi aiutano l’assistente sociale ad apprendere come la propria identità, il proprio universo valoriale e simbolico e le proprie prospettive sul ruolo professionale e sulle persone che usufruiscono dei servizi siano contestualizzate ovvero plasmate dall’ideologia dominante. La «riflessione critica» [Askeland e Fook 2009] contribuisce allo sviluppo di una
¶{p. 175}«consapevolezza critica» definita come «processo di riflessione e disamina continua su come i nostri pregiudizi, assunti culturali e visioni del mondo influenzano il modo con cui percepiamo la differenza e le dinamiche di potere» [Sakamoto e Pitner 2005a, 441].