Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c6
La pratica anti-oppressiva richiede agli assistenti sociali di lavorare per processi di autoriflessione e autoanalisi critica [Dalrymple e Burke 1995; Mullaly 2002]. Questi processi aiutano l’assistente sociale ad apprendere come la propria identità, il proprio universo valoriale e simbolico e le proprie prospettive sul ruolo professionale e sulle persone che usufruiscono dei servizi siano contestualizzate ovvero plasmate dall’ideologia dominante. La «riflessione critica» [Askeland e Fook 2009] contribuisce allo sviluppo di una
¶{p. 175}«consapevolezza critica» definita come «processo di riflessione e disamina continua su come i nostri pregiudizi, assunti culturali e visioni del mondo influenzano il modo con cui percepiamo la differenza e le dinamiche di potere» [Sakamoto e Pitner 2005a, 441].
Quando gli assistenti sociali entrano nella relazione di aiuto, lo fanno con i propri preconcetti e pregiudizi, con i propri assunti, le proprie rappresentazioni e gli schemi professionali che possono condizionare il modo in cui essi ascoltano i problemi e scelgono le soluzioni per affrontarli. L’esame critico di tutto questo «materiale» conscio e inconscio è, quindi, il primo passo nello sviluppo della consapevolezza, che libera gli assistenti sociali da modi culturalmente determinati di interpretare e intervenire riducendo il rischio di imporre le proprie visioni e i propri valori alle persone per e con cui lavorano.
La consapevolezza critica è, quindi, lo strumento principale per comprendere le differenze e riconoscere l’ingiustizia [Reed, Newman, Suarez e Lewis 1997] e Sakamoto e Pitner [2005b] ne identificano le componenti che si manifestano a livello personale e strutturale. ¶{p. 176}
A livello personale la consapevolezza critica è facilitata dalla comprensione della propria identità, posizionamento e punto di vista, che sono – come mostra la figura 1 – in interazione dinamica continua. Le varie identità sociali (razza, genere, classe sociale, orientamento sessuale) sono fortemente influenzate da fattori storici, politici, sociali e culturali che, a loro volta, influenzano il modo con cui servizi e professionisti processano informazioni e riconoscono diversità, differenza e dinamiche di potere; affinché i professionisti comprendano come le loro identità siano plasmate da questi fattori essi devono esaminare criticamente come si posizionano all’interno di queste diverse identità, un posizionamento che, a sua volta, influenza il modo con cui essi percepiscono sé stessi e gli altri; il punto di vista riguarda le visioni del mondo, le percezioni della realtà e le relative narrazioni che hanno senso all’interno dei contesti in cui la persona si trova. Queste tre componenti della consapevolezza critica aiutano l’assistente sociale a interrogarsi, e apprendere, su come l’ideologia dominante abbia plasmato la propria identità e la propria prospettiva sul ruolo professionale.
A livello strutturale, la consapevolezza critica richiede l’abbandono del potere professionale per collaborare con la persona. Una delle componenti strutturali della consapevolezza critica è quella definita one-down position per indicare un atteggiamento di sospensione del giudizio e degli assunti preconfezionati basati sulle proprie visioni culturali del mondo, e di ascolto e riconoscimento della persona come esperta della propria esperienza [Breton 1989; Laird 1993; Pinderhughes 1989; Thornton e Garret 1995]. Questa posizione paradossale, che incoraggia gli assistenti sociali ad agire come studenti e a guardare alla persona come insegnante, risolve la trappola insegnante-studente facendo dell’assistente sociale un «ricercatore etnografico» [Freire 1997; Green 1999; Holland e Kilpatrick 1993] e della persona l’esperto e il narratore della propria esperienza. Come Holland e Kilpatrick [1993, 304] hanno messo in evidenza «ascoltando la storia del cliente, identificando le questioni alla radice e prestando attenzione al modo con cui questi ha reagito efficacemente al problema, il professionista diventa un collaboratore del cliente, un co-editore di una storia vivente che è in procinto di essere riscritta». Questo momento di collaborazione è stato definito come «momento egalitario» [Hopkins 1986] caratterizzato da un’assenza di controllo da parte del professionista che crea un’atmosfera solidale ed egualitaria in cui la persona si sente libera di segnalare malintesi o la mancanza di conoscenza sui problemi da parte dei professionisti, ma anche di aiutare questi ultimi a capire come essi percepiscono le loro visioni del mondo [Gutiérrez e Lewis 1999].
La pratica anti-oppressiva non è però indipendente dal contesto organizzativo. Richiede che l’organizzazione non abbia sviluppato e sedimentato una cultura opprimente che, a partire dalla relazione tra dirigenti e operatori, si rifletta anche nella relazione tra operatori e persone. Numerosi studi hanno evidenziato come, sull’onda dell’ideologia manageriale, i servizi di welfare ¶{p. 177}non siano più in grado di rispondere ai bisogni dei gruppi più vulnerabili [Payne 2000; Lorenz 2005], diventando sempre più burocratici, deumanizzati e oppressivi [Dominelli 1996; Fook 2002; Nelson, Prilleltensky e McGillivary 2001] e impedendo agli assistenti sociali di adempiere alla loro missione sociale fondamentale: promuovere il cambiamento sociale [Handler e Hasenfeld 2006]. Come ha evidenziato Dominelli [2002, 33]:
le organizzazioni devono impegnarsi ad affrontare le componenti strutturali dell’oppressione radicate nella pratica istituzionale e nelle norme culturali. L’ambiente di lavoro deve essere completamente anti-oppressivo. I datori di lavoro devono trattare i lavoratori, gli assistenti sociali, in modo anti-oppressivo. L’assenza di queste due dimensioni renderà difficile ai professionisti lavorare in modo anti-oppressivo.
Naturalmente questo non è un passaggio scontato, la trasformazione anti-oppressiva dei servizi di welfare non può non includere lo sviluppo di relazioni non gerarchiche, di una cultura non burocratica, di una riflessività tra gli operatori legittimata e promossa dal contesto lavorativo di appartenenza [Strier e Binyamin 2014].
5. «L’anti-oppressività al lavoro». Gli assistenti sociali di fronte alla pratica anti-oppressiva
Dai risultati della ricerca CoPInG (fig. 2) emerge come l’esperienza degli assistenti sociali nel lavoro con i genitori in condizioni di incertezza sembre¶{p. 178}rebbe essere segnata da un’ambivalenza in relazione alla pratica professionale anti-oppressiva. L’analisi dei dati, infatti, ha messo in evidenza la coesistenza di fattori consci e inconsci che producono oppressione e di fattori consapevoli che promuovono pratiche anti-oppressive.
5.1. Fattori di oppressione consci e inconsci
Fattori consci e inconsci sembrano esporre gli assistenti sociali al rischio di pratiche oppressive. In questi fattori rientrano ciò che abbiamo definito: a) fonti di oppressione; b) rappresentazioni mentali; c) pregiudizi; d) auto-rappresentazione del ruolo.
Dalla loro voce e dalla loro esperienza sembrerebbe che essi facciano esperienza di almeno due fonti di oppressione: una fonte «interna», ovvero tutto ciò che dalla persona è interiorizzato come giusto e/o sbagliato, buono e/o cattivo che inconsapevolmente determina attitudini, scelte e comportamenti; una fonte «esterna», riferita alle circostanze presenti nel contesto che impongono ai professionisti certe azioni professionali.
Dato che conferma la fonte interna di oppressione è l’espressione della rappresentazione del buono e del cattivo genitore:
Ci sono donne che nonostante il loro vissuto non hanno capito quali sono i veri valori perché hanno abbandonato i propri figli giustificando l’azione con il voler dare loro un futuro migliore. Sono madri che non hanno il senso materno innato o comunque non sono riuscite a sviluppare la propria genitorialità. Questo comportamento ti porta a dire che questa madre non è un buon genitore. Poi ci sono le madri che lottano per i figli, accettano la permanenza in struttura e l’intromissione nell’educazione dei propri figli e per questo sono delle buone madri.Le madri non lasciano il tempo ai papà di imparare a fare le cose, perché se loro hanno sempre gestito tutto, hanno sempre organizzato tutto e si sono sostituite, è una corresponsabilità. Non si può dire «il papà non ha mai fatto», sì, ma quanto spazio ha avuto questo papà?I bambini erano trascurati, c’era una grave forma di trascuratezza sia nell’igiene personale sia a livello della casa, quindi degli ambienti. Ad esempio, dovevo andare ogni giorno a controllare la stanza, cercavo di seguirli anche in questo, perché loro comunque mangiavano per terra e non pulivano, questo tira fuori sporcizia.
Esempi di fonte esterna di oppressione sono sia il contesto italiano, in particolare la legislazione sulla protezione del minore e l’approccio culturale alla genitorialità, che il mandato istituzionale che spingono gli assistenti sociali a lavorare con questi genitori in un modo che è molto spesso consapevolmente oppressivo. ¶{p. 179}
Ad accrescere le difficoltà è anche la normativa italiana sulla tutela del minore. Ad esempio, lasciare a casa da solo un bambino di 10 anni in Italia è abbandono di minori mentre in molti paesi è normale, perché a 10 anni si è considerati quasi adulti. Questi sono fattori che determinano una vulnerabilità genitoriale che mette a rischio la responsabilità genitoriale.Lo considero un lavoro difficile perché lavoro in un servizio pubblico. È capitato di una bambina affidata ad una famiglia. A quel punto cosa fai? Fossi stata nella situazione di un centro di accoglienza avrei detto «Vabbè, monitoriamo la situazione, non inneschiamo altre situazioni, gestiamola». In un servizio pubblico non è così perché hai altre responsabilità e la prima cosa che devi fare è segnalare il tutto al tribunale. Lavorando nel pubblico sento di avere una responsabilità maggiore perché significa interfacciarsi con tante altre realtà, il tribunale per i minori, il giudice tutelare, o magari la questura che ti segnala la situazione (…) si subiscono pressioni e tu sei nella condizione di dover rispondere prontamente a quello che ti viene chiesto.Ho cercato di essere il più leggera possibile perché vivevo personalmente e professionalmente una sensazione di ingiustizia. In quella situazione ho speso un quarto d’ora iniziale nel dire «mi rendo conto che forse questa cosa è faticosa e ingiusta, ma purtroppo, come dire, s’ha da fare, io ho un mandato del tribunale (…) al di là del fatto che credo profondamente che un’adozione in questo caso sia ingiusta, l’articolo 44 sia ingiusto».
La stessa relazione tra assistente sociale e persona è fonte di oppressione quando i reciproci pregiudizi si manifestano e, soprattutto da parte degli assistenti sociali, non sono consapevolizzati.
Ho molto spesso la resistenza dei genitori che associano il servizio agli italiani, e loro non essendo italiani assumono un atteggiamento di autodifesa. Quello che ci dicono spesso è «io per te sono un genitore sbagliato perché non sono italiano, non sono italiano e non sono un buon genitore» (…). Per noi professionisti le differenze non dovrebbero esistere, ma in alcuni servizi questo succede… spesso sento dire «vabbè tanto loro…!».C’è un pregiudizio reciproco, nel senso che da una parte c’è il pregiudizio degli operatori (…) e che anche io che ti posso dire avrò i miei paraocchi in certe cose, o avrò un impulso a rispondere, o ad agire, o a pensare secondo un mio schema mentale e culturale che però cerco di riconoscere e affrontare.Ci sono delle mamme che sono terribili. E il potere che queste mamme hanno sui figli è veramente devastante, devastante. E più verbalizzano al figlio e agli operatori quanto siano propense a che il figlio abbia un rapporto con il padre, e fanno di tutto perché lo abbia, più nascondono un potere esagerato sul figlio perché dietro alle parole di invito c’è un divieto potentissimo.
Il tema delle rappresentazioni mentali è particolarmente significativo se contestualizzato nella relazione professionista-genitore. Queste, infatti,
¶{p. 180}influenzano il pensiero secondo un carattere descrittivo (definiscono ciò che le persone sono) e prescrittivo (come dovrebbero essere) stabilendo quale comportamento (genitoriale) sia più desiderabile, o socialmente accettabile. Danno forma a giudizi che precedono l’esperienza e che hanno il potere di influenzare inconsapevolmente le modalità di relazione. La forza delle rappresentazioni mentali è emersa dall’esperienza degli assistenti sociali attraverso ciò che abbiamo definito «genitorialità nella mente» che evidenzia come ogni professionista abbia una propria idea di cosa sia genitorialità, un’idea che precede l’incontro con i genitori (la «genitorialità reale»).