Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c6
Capitolo sesto
Lo spazio delle pratiche anti-oppressive nel lavoro con i genitori
di Francesca Falcone e Antonio Samà. Frutto della ricerca e della riflessione comune dei due autori, i paragrafi 3, 4, 4.1, 5.2 sono da attribuirsi a Francesca Falcone; i paragrafi 1, 2, 5, 5.1 ad Antonio Samà. Il paragrafo conclusivo è stato scritto da entrambi gli autori
Notizie Autori
Francesca Falcone insegna Metodi e tecniche del servizio sociale e Metodologia del
servizio sociale presso l’Università della Calabria. È autrice, tra l’altro, di
Programmare al limite. La ricerca azione per il cambiamento sistemico nella
programmazione sociale (Rimini, 2019) e Qui abbiamo sempre fatto
così. Le incertezze organizzative nei servizi per migranti: spunti per una formazione
permanente per gli operatori sociali (Bologna, 2021).
Notizie Autori
Antonio Samà è ricercatore presso l’Università della Calabria dove insegna
Organizzazione dei servizi sociali. È autore, tra l’altro, di Rice, Albert
Kenneth: Forgotten Giant, Shaper of a Field (London, 2020) e curatore di
Ritessere trame. Lavorare con la cultura organizzativa (Cosenza,
2021).
Abstract
Lʼinizio del capitolo è dedicato ai temi delle diseguaglianze, della promozione dei diritti umani e del perseguimento della giustizia sociale quali cardini etici dei servizi assistenziali per le famiglie. Successivamente gli autori si soffermano sui concetti di «oppressione» e «pratiche anti-oppressive», evidenziandone la rilevanza nelle attività svolte dagli assistenti sociali che lavorano con genitori in terreni incerti.
1. Introduzione
Il contesto storico e politico entro cui gli assistenti sociali, i servizi sociali e le politiche sociali esistono e operano è caratterizzato da enormi diseguaglianze. Decenni di globalizzazione e politiche pubbliche neoliberali hanno accentuato e ampliato tali diseguaglianze. In un documento del 2015 del Development Strategy and Policy Analysis Unit della Development Policy and Analysis Division all’interno del Department of Economic and Social Affairs [ONU 2015] si riconosceva come il dibattito sulle diseguaglianze fosse caratterizzato da due specifici approcci che potevano generare confusione: da una parte gli approcci più «economicisti» attenti alle living conditions (qui si ricordano studiosi come Anthony Atkinson, Thomas Piketty, Branko Milanovič), dall’altra quelli più «sociali», più attenti al rights-based, legalistic approach (qui si ricordano Amartya Sen e Martha Nussbaum). Nel sintetizzare lo stato dell’arte, il documento (il primo di una sorta di glossario, curato da Helena Afonso, Marcelo LaFleur e Diana Alarcón, che ha lo scopo di chiarire alcuni concetti usati nel lavoro della Development Policy and Analysis Division e sostenere il dibattito e lo sviluppo di politiche unitarie) indica che [ibidem, 2]:
Molto di questa discussione si riduce a un dibattito tra due prospettive: la prima è principalmente interessata alle diseguaglianze di opportunità, come un diseguale accesso all’occupazione o all’educazione; la seconda con le diseguaglianze dei risultati nelle varie manifestazioni del benessere umano, come il livello di reddito, i traguardi formativi, lo stato di salute e così via. Eguaglianza di opportunità esiste quando i risultati esistenziali dipendono solo da fattori per cui la persona può essere considerata responsabile e non da attributi di svantaggio fuori dal proprio controllo. Afferma che genere, etnia, storia familiare ecc. non determinerebbero i risultati. In termini pratici, l’eguaglianza esiste quando gli individui sono in qualche maniera compensati per le loro circostanze di ¶{p. 166}svantaggio. Eguaglianza di risultati descrive uno stato in cui le persone hanno condizioni economiche similari. Mentre diseguaglianza in termini di opportunità è definita su una base ex ante ed è preoccupata di garantire un punto di partenza comune, la diseguaglianza dei risultati è preoccupata con la linea finale e dipende da entrambe le circostanze sia quelle fuori dal controllo del singolo che talenti e sforzi.
Quale sia l’approccio per studiare e comprendere le diseguaglianze, e ovviamente scegliere uno piuttosto che l’altro non è neutrale (la cui discussione però esula dallo scopo di questo capitolo), le politiche sociali, in generale, e i servizi sociali, in particolare, esistono per dare corpo alle aspirazioni per società e relazioni sociali improntati a principi di eguaglianza ed equità; principi che sostengono il perseguimento dei diritti umani e della giustizia sociale. Le politiche sociali da una parte, il codice deontologico e la pratica professionale e organizzativa dall’altra si fondano sull’assunto che sia moralmente e legalmente corretto, socialmente desiderabile ed economicamente sensibile sfidare e combattere la discriminazione e perseguire la promozione delle pari opportunità e la valorizzazione delle differenze e diversità [Gaine 2010]. È dentro questo quadro che riveste significativa importanza allora comprendere se e come la pratica professionale e organizzativa, piuttosto che l’enunciazione e la promozione di politiche e valori, possano contribuire alle finalità ultime dell’azione dell’assistente sociale.
La professione dell’assistente sociale è intrinsecamente connessa con la promozione e la garanzia dei diritti umani quindi. I suoi doveri e le sue responsabilità, nonché la sua identità e sviluppo professionale sono inseparabili da questo mandato, eticamente fondato. Si pensi, per esempio, alla centralità che i vari dispositivi e convenzioni (sia internazionali che nazionali) sul rispetto dei diritti umani hanno nel codice deontologico della professione. Una centralità esplicitamente espressa e richiamata nel preambolo e che permea l’intero codice, nonché il perseguimento della giustizia sociale ad essa connesso [CNOAS 2020].
È nell’esercizio della responsabilità professionale che questi principi e valori trovano la ricaduta e l’operativizzazione pratica. È quindi la qualità della pratica professionale che invera (o sfida, modifica, ignora e manipola) questi principi. Saranno, quindi, l’indagine e l’esplorazione di questa dimensione, in particolare il processo decisionale, sia nella sua coniugazione individuale che organizzativa, che potrà aiutare a comprendere se e come le finalità etiche siano operativizzate. È questo il luogo in cui, in piena autonomia o in collaborazione con altre professioni, le decisioni degli assistenti sociali riguardano la vita delle persone e da esse possono scaturire cambiamenti decisivi per la loro esistenza, perché «decidono sull’accessibilità alle risorse, sull’attivazione dei servizi, sulle segnalazioni alla magistratura per gli interventi (…), orientano le persone su decisioni importanti per la loro vita e quella dei loro cari» [Bertotti 2016, 30]. ¶{p. 167}
In questa dimensione la relazione tra l’assistente sociale e le persone che sono in carico ai servizi è anche il luogo in cui reciprocamente si esplorano e si costruiscono i margini di libertà – qui responsabilità è sinonimo di libertà. È il luogo della discrezionalità professionale che – traducendo in azioni concrete i valori, i principi, le politiche e i processi in partnership con la persona in carico ai servizi – può contribuire a operativizzare i mandati professionali e istituzionali in pratiche anti-oppressive. La discrezionalità professionale è, quindi, quello spazio organizzativo dove si può sviluppare il metodo e dove si possono applicare gli strumenti professionali, definire i progetti e i contratti con le persone in carico [Fargion 2009].
Il progetto di ricerca di interesse nazionale Constructions of Parenting on Insecure Grounds: What Role for Social Work? (CoPInG) ha indagato le rappresentazioni sulla genitorialità dei genitori in terreni incerti (nello specifico alta conflittualità, povertà, LGBTQ+ e migrazione forzata) e degli assistenti sociali che con questi genitori operano. Dalle interviste ad assistenti sociali (più di 50 in tutta Italia) questi gruppi sociali, più di altri (particolarmente i genitori in migrazione forzata, in condizioni di povertà e LGBTQ+), sembrano essere a rischio di pratiche oppressive. Si vuole dire che dai dati emergerebbe una maggiore visibilità del fenomeno delle pratiche oppressive nel lavoro con questi gruppi di persone, senza per questo escludere una presenza di pratiche oppressive tout court nel lavoro sociale.
2. Oppressione e pratica anti-oppressiva: un’introduzione ai concetti
Gli studiosi e i ricercatori che si occupano di giustizia sociale definiscono l’oppressione in diversi modi.
Spesso è definita come un sistema che preserva vantaggi e svantaggi basati su appartenenze a gruppi sociali stereotipati [Morgaine e Capous-Desyllas 2014]. Quando a gruppi sociali svantaggiati sono attribuiti stereotipi negativi, emerge l’oppressione che può manifestarsi a diversi livelli: a livello individuale attraverso comportamenti e attitudini distruttive da parte di una persona nei confronti di un’altra; a livello istituzionale attraverso politiche, pratiche e norme pericolose; a livello socio-culturale attraverso la promozione di valori e credenze che servono gli interessi del gruppo sociale avvantaggiato e che giustificano l’oppressione sociale.
Secondo Donna Baines [2007, 2]:
L’oppressione si verifica quando una persona agisce, o una politica è emanata, ingiustamente contro un individuo (o un gruppo) a causa della sua affiliazione a un gruppo specifico. Questo include il privare le persone di un modo per guadagnarsi da vivere, di partecipare a tutti gli aspetti della vita sociale o di sperimentare le libertà fondamentali e i diritti umani. Inoltre include l’imporre un sistema di credenze, ¶{p. 168}valori, norme e modi di vivere su altri gruppi attraverso mezzi pacifici o violenti. L’oppressione può essere esterna, o interna quando certi gruppi iniziano a credere e ad agire come se il sistema di credenze dominante, valori e modi di vivere fossero la migliore ed esclusiva realtà. L’oppressione interna spesso comprende il disprezzo di sé, l’autocensura, la vergogna e le realtà individuali e culturali.
Allo stesso modo Mullaly [2010] afferma che vi è oppressione quando alle persone è negato l’accesso alle opportunità per la sopravvivenza, quando è loro negata la partecipazione alla società, quando è loro assegnato uno status inferiore sulla base dell’appartenenza a un gruppo sociale o per questioni di identità, o quando mancano quei diritti che i membri del gruppo privilegiato danno per scontato. Per Adams, Bell e Griffin [2007, 13], il termine oppressione «racchiude la fusione di discriminazione istituzionale e sistematica, pregiudizio personale, pregiudizio sociale e fanatismo in una complessa rete di relazioni e strutture che oscurano la maggior parte degli aspetti della vita nella nostra società».
Lena Dominelli [2002] guarda all’oppressione come una costruzione sociale; l’oppressione è socialmente costruita attraverso le azioni e i comportamenti delle persone verso gli altri e si manifesta in relazioni di dominio che dividono le persone in gruppi dominanti (o superiori) e gruppi dominati (o inferiori). Queste relazioni di dominio si traducono in una svalutazione sistematica degli attributi e del contributo di coloro che sono ritenuti inferiori e nella loro esclusione dalle risorse sociali a diposizione di coloro che appartengono al gruppo dominante. Nel creare relazioni oppressive i gruppi dominanti cercano di negare l’agency di coloro che sono ritenuti inferiori: «essi attingono a meccanismi di normalizzazione che promuovono i valori e le priorità dominanti per imporre una serie di sistemi di controllo sociale volti a limitare le attività dei gruppi subordinati all’interno dei motivi che il gruppo dominante designa come legittimi» [ibidem, 8].
Se l’oppressione è socialmente costruita, la sua natura non è affatto deterministica, ma multidimensionale e fluida. È vero che le relazioni oppressive, nel prendere di mira il senso di sé delle persone, attaccano l’identità presentando uno status socialmente costruito come naturale, quindi immutabile, e inferiore rispetto a quello detenuto dagli oppressori. Ma poiché è nell’interazione sociale che le persone negoziano percezioni, status e posizione nel mondo sociale, accesso alle risorse e aspirazioni personali, le relazioni oppressive non si sviluppano a senso unico dentro un percorso predeterminato dal gruppo dominante; anche coloro che appartengono ai gruppi subordinati sono coinvolti nella loro creazione: questi potrebbero accettare la definizione identitaria da parte del gruppo dominante o potrebbero rifiutarla cercando di stabilire le proprie alternative formulazioni in funzione di ciò che desiderano ottenere.
Le (re)azioni possibili alle relazioni oppressive da parte degli oppressi possono essere tre: accettazione, accomodamento, rifiuto [ibidem, 11]. L’ac¶{p. 169}cettazione si riferisce all’interiorizzazione dei valori e delle norme dominanti: qui le persone assumono un approccio acritico rispetto alla loro posizione, abbracciano i modelli esistenti di relazioni sociali credendo che non esistano per loro altre alternative. L’accomodamento implica un’accettazione utilitaristica dei valori e delle norme dominanti: in questa situazione, nonostante le persone siano in disaccordo con l’ordine sociale prevalente, optano per il compromesso al fine di massimizzare qualsiasi opportunità che sia loro disponibile. Il rifiuto è una forma di resistenza a questa interiorizzazione che è in sé oppressione: la critica al sistema è in questo caso aperta e fondamentale per indebolire l’ordine sociale esistente a cui trovare alternative, l’obiettivo è prendere in considerazione una visione di un più giusto ordine sociale e realizzarlo.
Ognuna di queste reazioni scaturisce dalle esperienze di vita degli individui o dei gruppi oppressi, possono susseguirsi in modo lineare, coesistere o sovrapporsi.
Le relazioni oppressive sono contrastate da iniziative anti-oppressive che hanno l’obiettivo di «sradicare le ingiustizie che queste riproducono nelle routine della vita quotidiana sia nel privato che nel pubblico» [ibidem, 12]. Agire anti-oppressivamente è rifiutare l’oppressione e impegnarsi a decostruirla creando relazioni non oppressive radicate nell’uguaglianza. Ma poiché le relazioni si costruiscono nelle, e attraverso le, interazioni sociali, anche la definizione del concetto di uguaglianza è soggetta a una costante ridefinizione man mano che le persone contribuiscono alla sua definizione; il che implica che il significato di uguaglianza può essere contestato, indebolito o rafforzato. Pertanto, l’obiettivo di passare dall’oppressione all’anti-oppressione è tutt’altro che semplice; comporta una «presa di coscienza» [Freire 1974] riguardo a come l’oppressione funziona e le relazioni di dominio e subordinazione sono prodotte e riprodotte nelle interazioni quotidiane [Essed 1991].
3. La pratica anti-oppressiva nel servizio sociale
L’approccio anti-oppressivo nasce in risposta al servizio sociale tradizionale allo scopo di riconciliare la pratica professionale con i temi della giustizia sociale e dell’empowerment dei beneficiari dei servizi.
Storicamente il servizio sociale ha incoraggiato relazioni di dominio tese al mantenimento dello status quo [Lorenz 1994]. All’interno, e come parte, del progetto di modernità dello Stato, i professionisti dell’aiuto hanno promosso pratiche di servizio volte a promuovere la coesione attraverso un processo di «omogeneizzazione» [Dominelli 2002], unificando cioè le diversità delle persone in un «insieme omogeneo» determinato da arbitrarie definizioni e criteri di inclusione ed esclusione. La preoccupazione (politica) che individui e gruppi svantaggiati avrebbero potuto abusare delle risorse disponibili «rifiutando di
¶{p. 170}condurre una vita morale e operosa» [Baumann 1992, in Dominelli 2002, 28], è venuta incorporandosi nelle pratiche e nelle responsabilità degli assistenti sociali, i quali hanno iniziato a separare i richiedenti aiuto in meritevoli e immeritevoli attraverso il loro potere discrezionale per distribuire risorse a beneficio dei primi e negandole ai secondi [ibidem].