Alessandro Sicora, Silvia Fargion (a cura di)
Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c5
La formazione di tutti gli operatori riguardo alle tematiche che riguardano immigrazione è fondamentale.
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6.2. Diversità in altre situazioni di genitori in cammino su terreni incerti

L’unicità della persona (e il suo riconoscimento o mancato riconoscimento) appare rilevante come categoria di analisi anche per le interviste degli assistenti sociali che lavorano negli altri ambiti di intervento sui quali si è focalizzata la ricerca CoPInG. Il materiale così raccolto consente di evidenziare, tra le altre cose, il rischio di ipersemplificazioni che si sostanziano in dicotomizzazioni («loro genitori in condizioni di povertà» vs «noi, tutti gli altri», «persone LGBT» vs «tutti gli altri», «padri» vs «madri» in situazioni di separazioni conflittuali, ecc.) o in omologazioni (nessuna differenza tra persone dello stesso gruppo etnico, tra padri e madri in situazioni di separazioni conflittuali, ecc.) senza riconoscere pienamente le diversità presenti all’interno delle categorie utilizzate.
Un primo esempio di quanto sopra è dato dalla contrapposizione tra «loro» (genitori in condizione di povertà economica) e «noi» che emerge nel seguente ampio estratto:
Io dico che vogliono bene a modo loro, perché effettivamente secondo loro le cure che danno ai bambini o tutto quello che non viene dato, tipo un’educazione alle regole, l’istruzione… non è funzionale per la crescita, perché per loro funzionale per la crescita è garantire un piatto di pasta, una bistecca o i beni di prima necessità e poi magari la bambina o il bambino passano settimane che non si fa la doccia. Ma la doccia non è importante, il piatto di pasta invece è fondamentale. Quindi si concentrano su alcuni aspetti che secondo loro sono più importanti di altri. (…)
Quando ero piccolo i miei genitori facevano così e quindi io rifaccio la stessa cosa, come sono cresciuto io, crescerà anche mia figlia o mio figlio. Quindi alcuni aspetti della genitorialità li disconoscono proprio, io non sono andata a scuola, perché deve andare mia figlia? Se non ci vuole andare, io non ci sono andato e sono andato avanti lo stesso. (…) Non hanno la consapevolezza delle loro negligenze e non c’è il desiderio di cambiamento, perché in realtà siamo noi quelli che siamo andati oltre e loro sono quelli che vivono una situazione di normalità che è quella che gli hanno insegnato i loro genitori. (…) E non si mettono in discussione, perché va bene, è giusto che sia così, non… non… cioè non hanno delle aspettative future, perché per loro l’importante è tirare alla giornata, poi che ci sono delle cose che possono compromettere il futuro dei figli non lo pensano proprio. (…) Il problema è che la mancanza di collaborazione da parte della famiglia e la mancanza di presa di consapevolezza del problema li porta a chiudersi, a non collaborare e ahimè poi si va… è la solita profezia che si auto adempie, che io poi sono costretta a fare la segnalazione; quindi, in realtà diventa una minaccia che loro pensavano che io fossi, ma io in realtà mi sono presentata non come una minaccia, ma come una sentinella che ha valutato le varie aree disfunzionali del nucleo.
La contrapposizione tra due diversi modi di concepire l’essere genitore appare con forza nelle parole dell’assistente sociale sopra riportate. Il «sensibilizzare» i genitori sui propri difetti, oltre che sulle proprie risorse, sembra {p. 152}l’obiettivo corretto per apprendere la giusta prospettiva sull’educazione dei figli e il modo per farlo. Ciò, tuttavia, porta a comportamenti descritti come evitamento, resistenza e mancanza di volontà di cambiare ciò che i genitori considerano «normale». Questo approccio sembra essere costruito sull’opposizione tra due diverse visioni dell’essere un bravo genitore e porta a scontri che rendono ancora più difficile la costruzione di percorsi di aiuto condivisi ed efficaci [Sanfelici e Gui 2021].
Un secondo ambito, quello dell’alta conflittualità tra genitori, fa emergere un ulteriore rischio di ipersemplificazione che può condurre a posizioni gender neutral incapaci di distinguere le diversità di genere insite nell’essere genitore [Moretto e Mauri 2021] o, al contrario, di estremizzare le differenze. Di seguito vengono riportati alcuni esempi in merito, i primi tre sottolineano i comportamenti in comune tra padri e madri, gli altri esempi sono invece costituiti da dichiarazioni che dicotomizzano la descrizione della situazione.
Questi genitori litigano per tutto, su ogni cosa. Sulle decisioni importanti che riguardano i minori ma anche sulle cose banali, su ogni cosa viene creato un conflitto.
L’elemento comune è il disinteressamento. Che venga contestato dall’una o dall’altra parte. Molto spesso ci sono degli uomini che dicono «va beh ma lei si è sempre disinteressata dei figli». Viceversa, insomma «lui non si è mai interessato» ma è un capo d’accusa diciamo abbastanza generalizzato.
Direi che tutti e due combattono veramente per far vedere che loro hanno ragione. Poi ci sono ben, ci sono forse… ma no combattono tutti e due, non direi questo è più femminile e questo più maschile non direi.
Il discorso del ruolo, di attendersi che la mamma deve essere perfetta, che deve fare tutto, che se una volta si dimentica di andare a prendere il bambino a scuola «oddio che mamma è!», mentre il papà può andare in ritardo che «vabbè!».
La tendenza a vedere questi papà come gli orchi di turno. A estrometterli totalmente dalla loro vita perché senza ovviamente riuscire a capire… c’era questo annullamento assoluto di questi papà nell’immaginario delle mamme che o erano papà, io li definivo i papà bancomat cioè quelli che praticamente dovevano solo elargire il mantenimento mensile e non avevano diritto a niente e quindi l’annullamento della persona nella sua dignità di padre.
Ci sono delle mamme che sono terribili. E il potere che queste mamme hanno sui figli è veramente devastante, devastante. E più verbalizzano al figlio e agli operatori, quanto sono propensi perché il figlio abbia un rapporto con il padre e.… fanno di tutto perché lo abbia, e tanto più nascondano un potere esagerato sul figlio perché dietro alle parole di invito c’è un divieto potentissimo.
Le genitorialità delle persone che appartengono a minoranze sessuali o di genere appaiono ulteriormente esemplificative del rischio di parziale {p. 153}riconoscimento dell’unicità delle persone già a partire dal non percepire le diversità insite in un acronimo (LGBT) che etichetta indistintamente situazioni e traiettorie di vita molto eterogenee. Inoltre, la novità del tema mette in difficoltà quei professionisti e quelle professioniste che, come nel caso sotto riportato, lamentano che:
nella mia formazione di base assolutamente non si era mai parlato di genitorialità LGBT a differenza di altre forme di famiglie (…), tenere presente che sono una forma di famiglia e quali possono essere le peculiarità di questa forma di famiglia (…). Ecco, secondo me questo cioè avere una formazione su quali sono gli aspetti di peculiarità? Ci sono degli aspetti uguali, indubbiamente, ma ci sono però anche degli aspetti peculiari diversi e credo che i professionisti non li abbiamo in mente.
Tale aspetto (la novità del fenomeno) accomuna, almeno in parte, queste costellazioni familiari alle genitorialità di persone in migrazione (una presenza visibile in Italia da relativamente più tempo). In entrambi i casi il servizio sociale italiano si trova a dover fare i conti con qualcosa di nuovo che necessita l’acquisizione di modelli teorico-operativi solo in parte disponibili:
Voglio dire, se io sul territorio, come assistente sociale del servizio territoriale, se io sul territorio incontro una famiglia di immigrati, ok?! Ho in mente quali sono gli aspetti di peculiarità che devo tenere in considerazione…? Oltre a tutto il resto. Stessa cosa credo che valga per le coppie omosessuali, o per comunque la genitorialità LGBT in generale, credo che aver presente quelle peculiarità in più, ok?! O altre… che dobbiamo tenere in considerazione e credo che questo sia fondamentale. Perché altrimenti rischiamo di uniformare tutte le famiglie anziché considerare la diversità di ciascuna famiglia, di uniformarle e di riportarle tutte in un modello genitoriale, no?!
È quello che poi si riscontra in termini sull’immigrazione, no? Ne trovo tanti, quindi sì, ma siamo tutti diversi, punto. No, aspetta siamo tutti diversi, andiamo a vedere in che cosa consiste la diversità, perché sennò generalizziamo e appiattiamo tutto su un unico livello, quando in realtà ci sono tante sfumature, ci sono tante sfaccettature a valorizzare quel tipo di diversità e ti permette poi di avere un aggancio con la persona e ti permette anche di andare aldilà della banalizzazione del «siamo tutti uguali», questo fondamentalmente. (…) Su queste tematiche, premetto, però mi avete fatto venire in mente tutto ciò che attiene all’immigrazione… c’è sempre questa forte banalizzazione del «siamo tutti uguali».
Un’altra assistente sociale rimarca la necessità di avere strumenti operativi specifici e adeguati alle situazioni tra loro anche molto diverse che incontra nell’operatività quotidiana:
Cioè non ha… trovo un po’ inutile tra virgolette trovarmi a studiare sì, metodi e le tecniche per poter comunque praticare la professione, però penso che sarebbe anche bello… comunque sarebbe anche il caso di farmi capire quali sono i metodi e {p. 154}le tecniche da applicare nei vari contesti che mi posso trovare ad affrontare perché ogni famiglia, comunque ogni problema, è a sé, cioè non puoi applicare una pratica o delle tecniche uguali per tutti i tipi di problemi o per tutti i tipi di famiglie.

7. Verso una pratica riflessiva rispettosa dell’unicità della persona

Gli estratti delle interviste riportati nei paragrafi precedenti confermano l’utilità della scelta dei due concetti di intersezionalità e superdiversità per comprendere meglio il punto di vista dei genitori e degli assistenti sociali coinvolti nella ricerca CoPInG e, più in generale, per leggere situazioni complesse nelle quali ribadire l’unicità della persona come imperativo etico e teorico-operativo. In altre parole, vi sono delle variabili dominanti (genere, collocazione territoriale, appartenenza etica, situazione-problema, ecc.) che rischiano di «oscurare» le altre in ragione di vincoli cognitivi, amministrativi, organizzativi e di altro tipo che richiedono l’attivazione di adeguati processi riflessivi da parte degli assistenti sociali.
La presenza di bias, distorsioni cognitive e scorciatoie mentali è stata evidenziata anche nei processi valutativi e decisionali propri del servizio sociale [Bertotti 2016; Taylor 2017a; 2017b], al pari dell’impatto del neoliberismo e managerialismo che hanno portato alla diffusa standardizzazione sia delle valutazioni delle situazioni delle persone utenti, sia dell’erogazione di prestazioni e servizi [Fargion 2009; Lorenz 2010; Tousijn e Dellavalle 2017]. Come evidenziato per le persone LGBT [Nothdurfter e Nagy 2016] (ma estensibile a ogni contesto umano), quando i professionisti dell’aiuto non riescono a riconoscere le specificità dei soggetti accomunati da uno o più tratti identitari [Smith e Shin 2014] rischiano di applicare misure generalizzate che portano a trattare tutti allo stesso modo [Fish 2008], annullando le differenze intersoggettive e portando a vedere le persone alla luce di stereotipi e pregiudizi [Mazzara 1997]. Tale rischio è presente in ogni ambito di azione degli assistenti sociali e può essere ridotto da un approccio riflessivo applicato al servizio sociale.
Pray [1991] sostiene che, in tale ambito, l’inserimento delle persone in categorie corrispondenti alle prestazioni disponibili è il risultato dell’applicazione acritica di un approccio scientifico per affrontare la complessità dei comportamenti umani e ridurre l’incertezza mediante processi valutativi di tipo deduttivo. Ciò ha portato a perdere di vista il principio dell’unicità della persona che è anche un elemento cardine del lavoro seminale Il professionista riflessivo di Donald Schön [1983]. L’autore inizia rilevando che circa l’85% dei casi affrontati dai medici è riferibile a una configurazione unica di sintomi non diagnosticabile tramite una mera applicazione di quanto teoricamente già noto ed estende tale considerazione agli ambiti di azione di tutti i professionisti. Solo le situazioni di routine, di fatto non molto frequenti, {p. 155}consentirebbero l’applicazione nella pratica di teorie e tecniche derivate dalla ricerca sistematica con criteri rigorosamente scientifici. In tutti gli altri casi, valutazioni e azioni realmente efficaci richiedono l’impiego di creatività e di processi di verifica continui.
In tale ambito, la conoscenza di cui il professionista ha bisogno viene creata e ricreata senza sosta nel corso dell’azione a seguito di processi riflessivi sviluppati sull’azione e nel corso di questa.
Gli aspetti più importanti dell’applicazione del modello riflessivo al servizio sociale sono [Pray 1991]:
  • la teoria viene criticamente valutata in relazione alla sua capacità di adattarsi alle specificità della persona utente e non impone meccanicamente le alternative di intervento;
  • il comportamento delle persone viene riconosciuto come imprevedibile e fluido. Le peculiarità della persona prevalgono nella fase di valutazione e possono essere fatti rifermenti a situazioni simili solo con grande cautela;
  • la persona utente viene vista come un universo a sé e va compresa all’interno della sua esperienza unica e irripetibile. L’assistente sociale ricerca le eccezioni alle categorie teorico-concettuali utilizzate per comprendere la realtà delle persone;
  • l’assistente sociale e la persona utente sono entrambi impegnati collaborativamente per definire il problema da affrontare. In tale ambito e tramite interazioni continue e sottoposte a possibili cambi di direzione, vengono individuate le azioni a cui l’assistente sociale darà corso.
Il riconoscimento di tre unicità – della persona utente, dell’assistente sociale e della relazione tra i due nell’ambito del processo di aiuto – va di pari passo all’utilizzo di conoscenze provenienti da una pluralità di fonti, quali le teorie scientifiche «ufficiali», l’esperienza professionale maturata dal professionista e la sua «saggezza pratica» [ibidem].
Sempre nel contesto del riconoscimento delle unicità coinvolte nei processi di aiuto, Alvarez-Hernandez e Choi [2017] prendono in considerazione le definizioni dei concetti di cultura, intesa come termine-ombrello che incorpora le visioni del mondo dei soggetti, e competenza culturale, nonché i relativi principali modelli teorici implementati nella pratica e nella formazione del servizio sociale per proporre un nuovo approccio alla competenza culturale, l’approccio di consapevolezza dialettica e dell’unicità (Dialectic and Uniqueness Awareness Approach).
Tale modello ha come pietra fondante l’attenzione all’unicità delle persone e considera la relazione triadica tra l’assistente sociale, la persona utente e l’interazione tra questi come il risultato dell’influenza reciproca di una molteplicità di esperienze e sistemi. L’unicità denota una differenza nelle caratteristiche e nelle esperienze di ciascuno. Nel servizio sociale questa unicità potrebbe essere tradotta nell’intersezionalità delle identità e soprattutto nella «diversità all’interno della diversità».
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