Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c5
Ora lui i figli se li può gestire come vuole, responsabilità più di tanto non ne ha, perché sa che alla fine dietro ci sono io. (…) Lui si prende l’aspetto ludico e semplice, si diverte anche di più con i bambini. A me spetta l’aspetto gestionale, difficile e negativo di far fare i compiti, andare a comprare i vestiti, che siano lavati e stirati… perché il padre non lava e non stira nulla.¶{p. 141}
Essere madre in contesti in cui i servizi di conciliazione mancano o sono carenti comporta non di rado la scelta «obbligata» tra occupazione e lavoro di cura dedicato ai figli, minando l’indipendenza economica. Una madre italiana, cresciuta in un quartiere di una città settentrionale caratterizzato da povertà e devianza, ha raccontato quanto sia difficile crescere da sola la figlia di 5 anni dal momento che, in assenza di reti di sostegno, ha dovuto rinunciare alla sua attività come parrucchiera. La partecipante allo studio ha descritto come una «lotta quotidiana» i sacrifici che affronta per superare le barriere che incontra ogni giorno nei tentativi di accesso alle risorse necessarie a fare piani per sé e la sua famiglia:
Io avevo un’attività di parrucchiera… e sono rimasta incinta e dopo, non avendo un aiuto con la bambina, non avendo la possibilità di pagare una ragazza… io ero da sola, ho dovuto chiudere quando la bimba aveva un anno e mezzo. E quindi poi non ho più trovato, se non dei lavoretti a termine, tra l’altro neanche sul mio… quindi insomma… non so… è proprio difficile la situazione sinceramente.
In molti racconti delle madri che si trovano a dover gestire i propri figli da sole è stata sottolineata, quindi, l’esigenza di individuare soluzioni per conciliare la vita affettiva e quella lavorativa, con la consapevolezza che, in assenza di servizi o reti di sostegno, una delle due dimensioni deve essere «sacrificata»:
(…) Io come donna mi sono completamente annullata… perché anche come vita, mi sono completamente adattata alla sua di vita, non ho più uno spazio per me, se non di giorno quando lei va a scuola, però devo incastrare tutte le altre cose…Io facevo l’agente di commercio… quindi son rimasta incinta… t’arrangi! Perché guadagnavo in base a quello che vendevo (…). In Italia, se tu decidi di fare la mamma, hai finito!
La situazione diventa ancora più gravosa per le donne nelle famiglie in cui è presente un membro con disabilità. Come riportato da una madre separata, residente al Sud, in casi come questi, la scelta tra lavoro e famiglia diviene impossibile:
Non posso andare a lavorare, in primis perché ho un figlio e, secondo, non ho a chi lasciare mio figlio… quindi ammesso e concesso che ora a settembre ricomincia la scuola, non potrei andare a lavorare, anche perché poi c’è pure la terapia il pomeriggio, la mattina scuola e dopo la scuola ho delle commissioni da fare e quant’altro… quindi tempo per andarmene a lavorare non ne ho.
I racconti dei genitori mettono in evidenza gli effetti tangibili della scarsa regolazione a livello nazionale delle politiche sociali, della conseguente variabilità nell’implementazione dei servizi sociali e di altre barriere all’accesso alle prestazioni, che moltiplicano forme di disuguaglianza.¶{p. 142}
L’idea che la cura dei figli sia esclusiva responsabilità della madre talvolta è così radicata da essere interiorizzata dalle stesse donne che, seppur tra mille difficoltà, decidono di farsi carico di questo onere senza chiedere alcun tipo di sostegno. È il caso, ad esempio, di una madre immigrata, rimasta vedova, che ha dichiarato di aver contato soltanto su sé stessa dopo la morte del marito, nonostante la consapevolezza che questo potesse rappresentare un grande fardello:
Mio marito è morto, i miei figli sono senza un padre, faccio io entrambi i ruoli. Quando è morto mio marito mi occupavo da sola per la cura dei bambini, perché io dovevo fare tutto e non mi sono poggiata su nessuno, né fratelli, né cugini perché ho subito interiorizzato che dovevo svolgere entrambi i ruoli. Mi sono trovata in difficoltà e ho avuto paura, piano piano però ho incontrato la buona gente che mi ha aiutato nell’affrontare alcune situazioni. Alla fine, sono riuscita ad andare avanti.
Per quanto riguarda le famiglie omogenitoriali, benché le coppie italiane di uomini e quelle di donne si trovino in termini giuridici nella stessa condizione di parziale riconoscimento [Monaco e Nothdurfter 2021], nella loro vita quotidiana madri e padri incontrano sfide diverse, legate anche al loro genere. Più nello specifico, buona parte degli intervistati ha sostenuto che le coppie di padri avvertono in maniera maggiore intrusioni giudicanti esterne:
Purtroppo, c’è una forma di maschilismo secondo cui è la madre si occupa del bambino. Questo è il vero problema dell’Italia, in particolare dell’Italia. Quindi è chiaro che vedere due papà che cambiano il pannolino, che gli danno la pappa, che… non lo so, fanno qualsiasi cosa… lo vestono, gli danno delle attenzioni, gli fanno il bagnetto… può sembrare strano.Quello che posso aver notato io è che spesso gli operatori sono più ben predisposti verso le donne, verso la genitorialità femminile rispetto alla genitorialità maschile, perché la carenza della mamma ancora viene vista come una privazione di chissà quale tipo.Fare il genitore è già un lavoro difficilissimo, ma forse è più difficile fare il padre, perché comunque purtroppo la società, almeno quella italiana, pensa che sia quasi un dovere delle madri essere genitore, per cui il maschio, il tipico patriarca cisgender bianco, si comporta da padre padrone…
La ricerca sul tema [Pistella et al. 2018; Scandurra et al. 2021] ha posto in risalto che l’atteggiamento negativo verso l’omogenitorialità maschile è più comune in soggetti in cui i livelli di sessismo sono più alti, dal momento che queste persone tendono ad avere una visione rigida e stereotipizzata dei ruoli di genere.
Allo stesso modo, tra i partecipanti transgender, gli uomini più delle donne hanno dichiarato di aver avvertito nella vita di tutti i giorni il peso del pregiudizio per aver intrapreso un percorso di transizione pur essendo genitori:¶{p. 143}
Sembra che noi siamo genitori di serie B solo per l’identità sessuale che abbiamo…Mi è capitato di intercettare il commento negativo ad alta voce di persone oppure il loro sguardo preoccupato. È una cosa a volte talmente marcata che anche mia figlia ci fa attenzione se c’è una persona che mi guarda male.
I dati della ricerca non soltanto restituiscono racconti, narrazioni e riflessioni sul significato del vivere come individui transgender nell’Italia contemporanea, ma danno anche forma a un racconto fatto di sfumature, che mette in luce le difficoltà aggiuntive che queste persone vivono essendo genitori. I partecipanti hanno infatti dichiarato a più riprese di avvertire che in Italia non pare ammissibile che un genitore nel corso della propria vita possa fare una transizione verso il genere opposto (in particolare da quello femminile a quello maschile) senza per questa ragione cambiare la natura e la qualità della relazione con i propri figli.
4.2. Collocazione territoriale
Dalle testimonianze raccolte è emerso con chiarezza che anche la zona di residenza può fungere da elemento capace di incidere significativamente sul benessere e sulla vita delle famiglie. A seconda che ci si trovi al Nord o al Sud, in città o in periferia, la percezione dell’incertezza può cambiare notevolmente. A titolo di esempio, un genitore immigrato che ha preso parte allo studio ha sottolineato come la rete di trasporti della cittadina in cui si è trasferito con la propria famiglia rappresenti una fonte di disagio, che va a sommarsi alle altre problematiche che già vengono affrontate nel quotidiano:
I trasporti sono per noi genitori un problema, abbiamo difficoltà negli spostamenti. La mancanza di trasporti è il problema principale, i nostri figli vivono una routine continua e subiscono uno stress pesante perché internet è l’unico svago che hanno. Questo mi frustra come genitore.
Nelle zone più povere o desolate d’Italia, l’impossibilità di trovare lavoro spesso diviene terreno fertile per la criminalità organizzata, ad esempio nelle terre in cui il caporalato non si è ancora scontrato con una lotta efficace condotta dalle istituzioni. Questo fenomeno coinvolge in maniera più frequente migranti in condizioni di iperprecarietà, che non di rado sono oggetto di ricatto e sfruttamento lavorativo. Tra le partecipanti allo studio, una madre immigrata da un paese dell’Europa orientale ha raccontato la sua passata esperienza nei campi del caporalato, sottolineando come nel contesto territoriale di arrivo condizioni di lavoro e vita degradanti per sé e la propria famiglia sembravano essere la nuova «normalità» a cui doversi adattare:¶{p. 144}
Perché qui non è che ti viene riconosciuto il lavoro come quello che fai, cioè sto parlando dei contributi, dei diritti, non è che ti arrivano queste informazioni (…). Anche se lavoravo senza un contratto per me andava benissimo, basta che c’era il lavoro e basta che mangiamo (…). [Il datore di lavoro] mi ha dato una stanza dove stare con mia figlia e io pensavo che fosse anche troppo… anche i connazionali non riuscivano a vedere oltre.
Si tratta di una delle tante testimonianze che pongono in luce come in alcune aree del territorio nazionale per poter lavorare sembra quasi una condizione imprescindibile dover cedere a compromessi, pur nella consapevolezza che si tratta di ingiustizie: impieghi irregolari, sottopagati, non soggetti alle norme che regolano il diritto del lavoro.
Allo stesso modo, anche l’accesso alle prestazioni sociali e la valutazione della loro qualità appaiono decisamente differenti a seconda del territorio di residenza. In tutte le interviste viene posto in evidenza come i compiti di cura siano considerati intensi e impegnativi. Tuttavia, il peso specifico dei servizi a sostegno dei bisogni speciali dei bambini disabili presenti in alcuni territori rappresenta un elemento centrale nel costruire o mitigare la precarietà lavorativa ed economica. Le parole riportate di seguito, ad esempio, rendono chiaro il peso ulteriore procurato dall’assenza di servizi di cura di bambini con diversa abilità:
Per mia figlia qua non c’è nessuna struttura che magari la puoi portare il pomeriggio, oppure magari a farla stare a contatto con dei bambini… qua non c’è niente per lei. Io mi ricordo, io l’ho portata fino a 6 anni fa in un centro riabilitativo… e quindi lì la portavo tutti i giorni perché giustamente doveva fare delle sedute. Dopo questo, perché ormai abbiamo finito, ormai ha avuto l’età… cioè non c’è un centro adatto a loro, dove possono giocare questi bambini, dove magari fanno dei lavori con loro. Io qua non ho trovato questo… non c’è… tranne un doposcuola che dovrei fare a pagamento, oppure tipo se io la dovessi mandare in piscina, io dovrei pagare, a scuola di ballo non la vogliono perché lei non riesce a seguire i passi, quindi dico, per questa bimba non c’è proprio niente, qua non c’è una struttura adatta per questi bambini.
Per quanto concerne le coppie composte da partner dello stesso sesso, la collocazione geografica rappresenta una variabile importante in termini di possibile riconoscimento giuridico. Infatti, per le coppie omogenitoriali una strada alternativa alla stepchild adoption è stata per molto tempo richiedere al proprio comune la trascrizione di entrambi i genitori sull’atto di nascita. Nonostante la registrazione di due genitori dello stesso sesso sia contraria ai principi dell’ordinamento giuridico italiano, negli ultimi anni alcuni sindaci «arcobaleno» hanno infatti deciso comunque di procedere con la registrazione all’anagrafe di entrambi i partner come genitori [Corbisiero e Monaco 2017]. Le prime trascrizioni di questo tipo si sono avute nelle città di Napoli e Bologna, che hanno fatto da apripista, stimolando altre realtà territoriali a fare ¶{p. 145}lo stesso. Ci sono stati anche casi di amministrazioni, come quelle di Pistoia o Trento, che sono state obbligate dai tribunali a riconoscere la bigenitorialità di coppie dello stesso sesso. Non sono mancate, tuttavia, situazioni in cui le decisioni dei comuni a favore delle famiglie arcobaleno sono state impugnate dalla Procura. Ad esempio, questo è accaduto qualche anno fa a Roma e nel piccolo comune veneto di Mel, su intervento della Procura di Belluno. Più recentemente, l’amministrazione comunale di Torino è stata costretta a interrompere le iscrizioni anagrafiche dei figli di coppie omogenitoriali a seguito delle sentenze della Magistratura e delle comunicazioni della Prefettura di Torino [Corbisiero e Monaco 2021].
Alcuni dei genitori in coppie same-sex hanno sottolineato questo aspetto, dichiarando che il luogo di residenza è un aspetto importante che fa la differenza, mitigando – nei casi di trascrizione anagrafica – quel senso di oppressione e ingiustizia sociale che è avvertito a causa della normativa nazionale:
Noi siamo stati abbastanza fortunati perché la nostra città è molto avanti grazie alla presenza del sindaco, che ha deciso, contrariamente alle indicazioni nazionali, di prendersi la responsabilità e di riconoscere i documenti americani e validarli anche nella nostra città.Vivo con tranquillità la mia vita familiare anche perché vivo nella città più moderna d’Italia.Noi ci siamo rivolte ai vari sindaci che si sono susseguiti in città per il riconoscimento della doppia genitorialità, ma nessuno ci ha aiutato. Ci hanno solo fatto delle promesse, ma alla fine noi non abbiamo ottenuto niente.
Occorre precisare, però, che uno stesso territorio può essere inclusivo o meno a seconda delle specificità dei genitori. A proposito di genere, ad esempio, nella città di Milano l’amministrazione presieduta dal sindaco Sala si era mostrata sin da subito ben disposta a riconoscere la bigenitorialità delle coppie di madri, ma aveva assunto nel corso dello stesso mandato un atteggiamento totalmente diverso nei confronti delle coppie di uomini, a causa delle questioni etiche che ruotano intorno alla pratica della gestazione per altri.
4.3. Appartenenza etnica
L’analisi intersezionale delle interviste ha consentito di porre in luce che i processi di esclusione e discriminazione si intrecciano spesso con quelli determinati dall’appartenenza etnica, dal colore della pelle, dallo status giuridico e civile. Ad esempio, alcuni genitori in percorsi di recente immigrazione hanno raccontato che l’accesso a misure nazionali e locali di sostegno al reddito o l’accesso alla casa è stato loro precluso a causa dell’assenza di requisiti, come
¶{p. 146}il numero minimo di anni di residenza nel territorio. Alcuni intervistati hanno descritto l’esperienza traumatica per sé e per i figli dello sfratto, accentuata dall’assenza di reti di sostegno. Tra gli altri, una madre nigeriana di tre bambini ha raccontato di essersi spostata con la sua famiglia in un dormitorio gestito da un’organizzazione caritatevole a seguito della perdita del lavoro del marito: