Alessandro Sicora, Silvia Fargion (a cura di)
Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c5
Quell’uomo sta dicendo che le donne hanno bisogno di essere aiutate a salire su delle carrozze, a uscire dai fossati, per trovare un posto migliore dove vivere. Non mi ha aiutata mai nessuno a salire su una carrozza, o a uscire dalle pozze di fango, e nessuno mi ha mai offerto un posto migliore (…). E non sono forse una donna? Guardatemi. Guardate le mie braccia! Ho lavorato nelle piantagioni e ho coltivato i campi mettendo il fieno nei fienili e nessun uomo mi ha mai aiutata! E non sono, forse, una donna? (…). Ho arato, e piantato, e raccolto in granai, e nessun uomo potrebbe tenermi testa! Potrei lavorare e mangiare – se avessi [cibo] a sufficienza – quanto un uomo, e sopportare anche la frusta! E non sono, forse, una donna? Ho
{p. 136}dato alla luce tredici bambini e visto la maggior parte di loro essere venduta come schiava, e quando ho gridato il dolore di una madre nessuno mi ha ascoltato, tranne Gesù. E non sono, forse, una donna? [traduzione nostra].
Attraverso le sue parole Truth ha dapprima esposto la credenza secondo cui le donne debbano essere trattate come persone più deboli degli uomini, per poi mostrare la fallacia di questa convinzione nella sua contrapposizione con l’idea – allora diffusa – secondo cui le schiave non siano «vere donne». Si tratta di una chiara denuncia sociale volta non solo a scardinare alcuni stereotipi associati ai generi, ma anche a sottolineare le disuguaglianze che esistono tra donne, mostrando la complessità delle identità.
In una fase successiva, con l’affermazione degli studi e dei movimenti sulle disabilità e la diffusione di un numero significativo di produzioni scientifiche entro la cornice degli studi di genere (finalizzate a decostruire le tradizionali visioni di «maschile» e «femminile») l’intersezionalità ha iniziato ad assumere tratti ancora più definiti.
Nell’ambito delle scienze sociali, è all’attivista e giurista statunitense Kimberlé Crenshaw che viene riconosciuto il merito di aver delineato in maniera maggiormente dettagliata il concetto di «intersezionalità» nel 1989, chiarendo in maniera puntuale come varie categorie biologiche, sociali e culturali siano capaci di interagire a molteplici livelli, il più delle volte simultanei [Chang e Culp 2002]. Con esplicito riferimento alle donne nere, la studiosa ha sottolineato come le forme di oppressione che talvolta queste esperiscono non possono essere pienamente comprese considerando soltanto la lente del genere o quella dell’etnia, dal momento che gli effetti della discriminazione non si sommano tra loro, ma si moltiplicano.
Per rendere più chiare ed esaustive tali considerazioni, Crenshaw [1989, 149] ha utilizzato la metafora del crocevia, ossia dell’incrocio stradale, sostenendo che:
Se un incidente si verifica in corrispondenza di un incrocio, può essere stato causato dalle auto che viaggiavano in una qualsiasi delle direzioni e, qualche volta, da tutte. Allo stesso modo, se una donna nera viene ferita, la sua lesione potrebbe derivare dalla discriminazione sessuale o dalla discriminazione razziale… Ma non è sempre facile ricostruire un incidente: a volte i segni della frenata e le lesioni semplicemente stanno a indicare che questi due eventi sono avvenuti simultaneamente, dicendo poco su quale conducente abbia causato il danno [traduzione nostra].
Partendo da tali argomentazioni, molti altri studiosi hanno incoraggiato l’adozione di una lettura della realtà sociale e dei principali fenomeni che in essa si animano capace di incorporare la prospettiva intersezionale.
Tra gli altri, Helma Lutz [2004] ha elaborato complessi schemi multidimensionali, che considerano più «livelli di differenza». I principali tratti individuati dalla sociologa come fattori capaci di accrescere la vulnerabilità {p. 137}dei soggetti nel loro intersecarsi sono: genere, sesso, etnia, colore della pelle, nazione di appartenenza, classe, condizioni economiche, livello di istruzione, abilità, età e religione.
In una fase successiva, Greenwood [2008] ha individuato alcuni dei principali elementi che, pur essendo esterni all’individuo, concorrono in maniera combinata nella definizione del sé come singolo e come membri di gruppi e della collettività, al fine di offrire una lettura intersezionale dei processi identitari individuali e interpersonali. In linea con la sua visione, insieme alle caratteristiche individuali specifiche, di natura inestricabilmente complessa, le identità sociali sarebbero condizionate dai domini ideologici, dai sistemi simbolici di rappresentazione storicamente e territorialmente situati e dalle diverse strutture di potere vigenti. Tale angolazione analitica consente dunque di comprendere come, a seconda del tempo, del territorio, della cornice normativa e del contesto culturale specifico, le intersezioni necessitano di un’attenzione diversa e di azioni mirate di prevenzione e contrasto sociale e culturale delle pratiche escludenti.
Tale consapevolezza è stata avvertita anche a livello istituzionale. Nel 2022 le Nazioni Unite hanno pubblicato delle linee guida e un Toolkit per accompagnare i paesi del mondo nella progettazione, attuazione e valutazione di politiche, azioni di policy e progetti volti a tutelare le persone in ottica intersezionale [UNPRPD e UNWOMEN 2022]. Allo stesso modo, il Parlamento europeo, con la risoluzione del 6 luglio 2022, si è espresso sull’urgenza di combattere le discriminazioni intersezionali, sottolineando la necessità della
creazione di un meccanismo condiviso per la cooperazione e il coordinamento delle politiche di uguaglianza dell’UE e nazionali, garantendo che tutti i tipi di discriminazione, in particolare quelli che si intersecano, siano presi in considerazione nella revisione e nell’adozione delle politiche, anche attraverso valutazioni sistematiche dell’impatto di genere e di uguaglianza [European Parliament 2022].
Si tratta di una posizione che sottolinea quanto sia importante integrare strutturalmente l’intersezionalità a livello europeo, incoraggiando gli Stati membri ad adottare o rafforzare il diritto penale e civile che proibisce sia la discriminazione intersezionale sia quella multipla. Tale obiettivo può essere perseguito insistendo sullo sviluppo di linee guida dell’UE, compreso lo scambio di buone pratiche sull’adozione di un approccio intersezionale nella definizione delle politiche.

3.2. Applicazione della teoria intersezionale alla genitorialità

A caratterizzare la variabilità tra famiglie ci sono non soltanto le specificità identitarie dei singoli membri (come il genere, l’età o l’etnia, ecc.), ma anche {p. 138}altri elementi, come l’organizzazione familiare o fattori esterni, tra cui rientrano, a titolo esemplificativo e non esaustivo, le possibilità economiche, l’attività lavorativa o la collocazione geografica. La letteratura scientifica è concorde nel sostenere che, al di là dell’armonia e del clima familiare, il benessere dei singoli nuclei risulta influenzato anche da tali componenti, che sono di fatto in grado di incidere sulla vita quotidiana delle famiglie, accrescendo o meno il loro senso di vulnerabilità sociale [De Reus, Few e Blume 2005; Lloyd, Few e Allen 2009; Parent, DeBlaere e Morandi 2013; Perrin et al. 2013]. Di conseguenza, anche quando si è di fronte a genitori che si trovano a fare i conti con sfide comuni, bisogna tener presente che questi vivono in realtà situazioni specifiche, risultanti proprio dall’intersezione tra la loro condizione familiare e gli altri elementi sociodemografici e di contesto [Hochreiter 2011; McCall 2005; Moore 2012]. Più nello specifico, i gruppi che fanno esperienza di forme di oppressione e incertezza non sono omogenei, in quanto il modo di subire le conseguenze delle condizioni di svantaggio è intrinsecamente legato alle variabili strutturali che si sovrappongono tra loro.
Tale angolazione analitica consente di comprendere come, per cogliere tale complessità e riuscire a orientarsi in questo scenario, sia necessaria l’assunzione di una prospettiva che possa dirsi pertinente, cioè capace, da un lato, di catturare dinamiche e processi all’interno delle famiglie e, dall’altro, di rivelare l’influenza delle complesse interazioni di disuguaglianze sociali e strutturali – nascoste e palesi – andando oltre teorizzazioni prescrittive [Dilworth-Anderson, Burton e Klein 2005]. In tal senso, l’intersezionalità può e deve configurarsi come un utile quadro teorico proprio per esaminare criticamente i processi attraverso i quali gli attori sociali in generale, e i membri delle famiglie in particolare, esperiscono la sovrapposizione di più identità sociali. L’adozione di tale prospettiva, inoltre, consente anche di analizzare i modi in cui le identità intersecanti sono conflittuali o armoniose tra e all’interno dei gruppi, e la loro collocazione nei contesti sociali e istituzionali [Choo e Ferree 2010; Few-Demo 2014; Hancock 2007; Thompson e Walker 1995].
Si tratta di un proposito tanto ambizioso quanto necessario per poter conseguire un’analisi più inclusiva dei processi familiari. Secondo Ferree [2010], nello studio delle famiglie, l’approccio intersezionale può risultare particolarmente efficace per guidare alla comprensione del modo in cui i singoli membri negoziano i conflitti, cooperano con altri soggetti e fronteggiano le sfide radicate nei discorsi e nelle pratiche culturali, il più delle volte espresse nelle strutture istituzionali.
Un ulteriore valore insito nell’analisi intersezionale per lo studio delle famiglie è rappresentato dal suo carattere applicativo. Infatti, il fine ultimo della ricerca intersezionale è promuovere la giustizia sociale, incentivando inclusione e cambiamento [Oswald et al. 2009]. In tal senso, l’adozione di questo approccio critico non è soltanto orientata a offrire una lettura chiara e comprensibile dei sistemi di potere e privilegio che caratterizzano le espe{p. 139}rienze e i processi quotidiani, ma è anche animata dalla volontà di individuare possibili strade per decostruire visioni normative o prescrittive.
Un chiaro esempio di analisi delle famiglie in chiave intersezionale è lo studio qualitativo condotto da Moore [2010] sui nuclei guidati da donne lesbiche nere. La ricerca, che ha coinvolto 32 madri, ha inteso indagare che cosa significa fare famiglia sfidando contestualmente le aspettative etnocentriche, eteronormative e patriarcali, dentro e fuori le mura domestiche. Con questo lavoro, Moore ha introdotto nell’ambito delle scienze sociali esperienze e modelli di comportamento che contraddicono le ipotesi più comuni diffuse nella letteratura su maternità, identità, sistemi di allocazione finanziaria e divisione del lavoro familiare. Di fatto, partendo dal racconto delle donne intervistate, il suo studio ha analizzato criticamente le influenze del pensiero normativo sullo sviluppo dell’identità sessuale e sul processo di coming out, offrendo un quadro afrocentrico complesso della vita delle donne lesbiche nere come madri e partner. A livello micro, il lavoro ha fatto luce sull’esperienza familiare di un gruppo di soggetti appartenenti a una minoranza sessuale, considerando contestualmente elementi di «alterità» razziale e di classe, sotto l’influenza di fattori culturali e di domini ideologici e simbolici. A livello macro, lo studio ha contribuito a comprendere le dinamiche di (ri)produzione dei privilegi e dell’emarginazione create e imposte dalle istituzioni sociali.

4. Una lettura intersezionale del vissuto dei genitori

Da un punto di vista metodologico, la teoria intersezionale parte dall’assunto che non esiste una «ricetta» unica per studiare e analizzare il vissuto delle persone e le conseguenze della sovrapposizione di più variabili strutturali che determinano una condizione di vulnerabilità sociale amplificata. Al contrario, a seconda degli obiettivi conoscitivi, alcune metodologie possono rivelarsi più appropriate rispetto ad altre [Fotopoulou 2012]. Elemento imprescindibile, però, è la necessità di accogliere il punto di vista dei e delle partecipanti che prendono parte allo studio, dialogando con loro per co-costruire la conoscenza, superando le tradizionali differenze di ruolo tra chi conduce la ricerca e i soggetti della stessa [Collins et al. 2021; Corbisiero e Nocenzi 2022; Tavory e Timmermans 2014]. Per questo motivo, nell’ambito della ricerca CoPInG i genitori sono stati incoraggiati a raccontare il proprio vissuto e le loro esperienze liberamente, utilizzando, all’occorrenza, delle domande sonda con il fine di chiarire alcuni aspetti o di aggiungere ulteriori particolari.
Con l’obiettivo di individuare i principali rischi di discriminazione intersezionale differenziati, in fase di analisi, sono state messe in luce alcune forme specifiche di incertezza percepite dai genitori, risultanti proprio dall’intreccio tra la condizione di vulnerabilità generica e altri fattori sociodemografici e di contesto.{p. 140}

4.1. Genere

Secondo alcuni studiosi [Bonati 2022; Morris e Willson 2018; Saraceno 2016], in Italia è ancora molto diffusa l’idea secondo cui maternità e paternità sarebbero costrutti diversi, nonostante la letteratura scientifica, attraverso studi comparativi, abbia documentato a più riprese che il modo di fare i genitori prescinda dall’identità sessuale dei soggetti [Kurdek 2006]. Questo tipo di visione della realtà sociale è la base di quello che Park [2013] ha definito «monomaternalismo», ovverosia una visione ideologica, risultato dell’intersezione tra patriarcato (secondo il quale le donne sono responsabili della riproduzione sociale e biologica), eteronormatività (che considera socialmente accettabili solo le relazioni intime tra un uomo e una donna), capitalismo (che ritiene i figli di proprietà di chi li genera) ed eurocentrismo (che nega la possibilità che possano esistere più modelli di genitorialità).
Nell’ambito della ricerca, non sono mancate testimonianze che hanno posto in luce come nella società contemporanea essere uomini o donne venga avvertito come un fattore capace di fare la differenza e di condizionare i comportamenti e le scelte dei genitori, accrescendo o attenuando le difficoltà.
Ad esempio, nel processo separativo, molte intervistate hanno sottolineato di aver sentito il peso del mancato riconoscimento di disuguaglianze strutturali che assegnano alla madre maggiori responsabilità sul piano della cura e dell’educazione dei figli. È il caso, tra gli altri, di una madre residente nel Nord Italia, che ha fatto presente più volte che, a seguito della separazione e dell’affido, i compiti legati all’educazione sono stati tutti caricati su di lei, a discapito della sua vita lavorativa:
Dal momento in cui io ho preso il part time era chiaro che avrei fatto tutto io. Era una divisione di competenze, più sbilanciata a mio sfavore. Adesso è veramente ancora più sbilanciato. (…) Nel mio lavoro io non mi prendo più nessun incarico, è un puro mezzo di sostentamento. Anche se io nel mio lavoro ci mettevo l’anima, purtroppo dalla separazione io lo sto trascurando perché tutto non posso prendere.
Il «peso» del genere, che si somma alle altre difficoltà legate a separazioni conflittuali, sembrerebbe essere poco o per nulla avvertito dai padri, che, secondo alcune intervistate, sarebbero socialmente sollevati da compiti di cura e organizzativi. A proposito della propria esperienza, ad esempio, una madre ha dichiarato su questo aspetto:
Ora lui i figli se li può gestire come vuole, responsabilità più di tanto non ne ha, perché sa che alla fine dietro ci sono io. (…) Lui si prende l’aspetto ludico e semplice, si diverte anche di più con i bambini. A me spetta l’aspetto gestionale, difficile e negativo di far fare i compiti, andare a comprare i vestiti, che siano lavati e stirati… perché il padre non lava e non stira nulla.
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