Aris Accornero
Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/p1
Accornero richiama la cultura operaista a una certa maggiore sobrietà nell’immaginare un lavoro salariato che non c’è e che non ci può essere; tuttavia, non può immaginare che quella stessa cultura sarebbe stata assunta e metabolizzata nella trasformazione del modo di lavorare del post-fordismo capitalista. Luc Boltansky ed Ève Chiapello, in Le nouvel esprit du capitalism, parlano di «critica artistica» (Boltansky, Chiapello 2012, pp. 417-418), usando un aggettivo che ha la stessa radice etimologica di «artigiano» e che allude a una critica «progressista» dell’irreggimentazione sociale di cui il taylorismo è stata espressione, soprattutto nel lavoro. Ebbene, questa critica artistica rivendica autonomia, creatività, autenticità, libertà nel lavoro; il fatto è che essa è stata incorporata dal nuovo spirito capitalistico assumendo il «feticcio della libertà individuale» (Chicchi, 2012, p. 10), incorporandolo nel lavoro post-
{p. 6}fordista e producendo così un «comando che si esprime attraverso la produzione di libertà» [2]
.
Invece, ben più del taylorismo, proprio nel contemporaneo «lavoro cognitivo-digitale» può annidarsi l’ideologia dell’assoggettamento della persona che lavora; assoggettamento non solo del lavoro come oggetto ma anche del lavoratore come soggetto: questa è, in fin dei conti, la «soggettivazione del lavoro». Lo scetticismo di Accornero sembra riecheggiare nelle parole di chi ha riproposto un discorso critico sulla libertà nel lavoro come niente altro che «un nuovo modello di potere che si pone come coerente e consustanziale alla crescente complessità del capitalismo flessibile: volto non più solo a predisporre e disciplinare (subordinare) i soggetti produttivi all’interno di rigidi ruoli operativi, secondo un preciso e rigido piano organizzativo cui corrisponde una ferrea disciplina operativa (…) ma piuttosto a stimolare, formare e quindi controllare degli spazi di «libertà» di azione produttiva all’interno dei quali le condotte soggettive possano plasmarsi in conformità con le esigenze di continua e imperante innovazione dei processi e dei prodotti» (Chicchi 2012, p. 78).

3. La crisi del lavoro come «identità»: sui lavori nei mercati transizionali

C’è un secondo angolo visuale da cui Accornero coglie segnali di crisi della concezione novecentesca del lavoro: il lavoro come identità. Egli denuncia il venir meno del presupposto «secondo il quale è il ruolo lavorativo a determinare l’identità sociale» (pag. 49); l’altra faccia della crisi del lavoro è «una minore identificazione di sé nel lavoro, una minore legittimazione del lavoro a connotare il proprio essere» (pag. 52). C’è dunque una doppia faccia della crisi di identità nel lavoro: da una parte, una crisi dell’identità politico-culturale, dall’altra, una crisi dell’identità personale come leva di emancipazione sociale.{p. 7}
Accornero ha l’acume di cogliere i primi segnali di una crisi sindacale, politica e culturale del Lavoro che coincide con la crisi dell’operaismo: Egli osserva che, «se il formarsi di una identità operaia reca con sé un’aspirazione all’egemonia, ciò si deve al fatto che è tutt’uno col formarsi di una coscienza antagonistica» (pag. 54); ma è proprio quella coscienza antagonistica ad andare in crisi come – ripeto – simboleggiato dalla conclusione della vertenza Fiat del 1980. Al di là delle cause di questo mutamento, ciò che si coglie nelle pagine di questo libero è la preoccupazione di adeguare le forme della rappresentanza politico-sociale del lavoro (a cominciare dalla rappresentanza sindacale) a una nuova composizione sociale del lavoro. D’altronde, non mancavano voci (per esempio Bruno Trentin) che sollecitavano il movimento sindacale a mettere in atto una nuova strategia «in cui potesse esprimersi appieno il ruolo dirigente di nuove forze motrici (l’operaio dequalificato, il tecnico parcellizzato, le forze sociali marginalizzate)» (Trentin 1977, p. VIII).
Si tratta di un tema che ancora oggi impegna una parte del dibattito sulle relazioni industriali postfordiste e che ha trovato nella vicenda dei c.d riders il suo emblema: l’identità collettiva delle nuove forme di lavoro. Per certi versi la vicenda ci rimanda alla «stessa vecchia storia» (Voza 2017) dei pony express, venuta alla ribalta a metà anni ’80 accomunati dalla (non ben definita) richiesta di tutele e protezione del lavoro subordinato. La differenza è che la vicenda dei pony express si esaurì presto perché quel fenomeno sociale non assunse mai una dimensione sociale e collettiva. Invece, l’azione di autotutela collettiva sindacale dei riders, oggi, ci riporta alla mente i setaioli di Lione degli anni ’30 dell’800, o i battellieri di Carloforte di fine ’800 o tutti i movimenti sindacali nelle loro origini (Rigola 1947), confermando che la rivendicazione sociale di protezione da parte di un segmento di lavoro salariato, qualunque sia la sua forma, nasce da una condizione in cui matura una identità sociale materiale di un segmento di lavoro [3]
. {p. 8}
Ma la condizione materiale, da sola, non è sufficiente: occorre una coscienza di sé che implica anche l’altra faccia della medaglia identitaria: la dimensione identitaria personale nel lavoro. Qui Accornero pone una questione di straordinaria attualità cogliendo una mutazione socioculturale nel lavoro: non si tratterebbe più (per fortuna, si poterebbe dire) di cercare nel lavoro soltanto l’«emancipazione» sociale, forse proprio in ragione delle conquiste della lotta operaia novecentesca, bensì di fare i conti col lavoro come mezzo di «promozione» sociale, cioè di mobilità sociale. Accornero sembra puntare lo sguardo proprio sulle nuove generazioni, sui giovani e il lavoro, giovani sempre più istruiti, non più rappresentabili soltanto come giovani braccianti del Sud emigrati nelle fabbriche metropolitane del Nord. Sennonché, proprio per i figli di quella classe operaia industriale, cui si è potuto garantire studi e istruzione, «l’istruzione è promozione, sì, ma in un crescente distacco dal lavoro» (pag. 66).
Ben prima della migliore letteratura contemporanea, Accornero intravede «l’ideologia della promozione attraverso i lavori, l’escalation delle professioni anziché nella professione. È l’americanismo come mobilità, che rompe l’etica del lavoro intesa quale mezzo statico per la promozione sociale, per la conquista dell’identità. È l’esaltazione del geniaccio poliedrico, è la retorica del «farsi da sé», certo» (pag. 67). Il fatto è che i lavori, a differenza del Lavoro, presuppongono temporaneità, mobilità, flessibilità e quindi implicano una transitorietà. Dopo quarant’anni abbiamo letteratura che ci parla oggi dei mercati transizionali del lavoro: un mondo contemporaneo fatto di mobilità, in cui i diritti del lavoro sono i diritti della mobilità del lavoro, i diritti del mercato del lavoro, più che della condizione al lavoro, più che diritti nel lavoro. Il modello di mobilità sociale, dunque, per riprendere le superlative parole di Accornero non è più tanto una «una ascesa nel lavoro» quanto «una arrampicata coi lavori» (pag. 68) ammettendo, con un certo grado di sconforto, che «l’ideale di una nuova forza-lavoro flessibile, versatile, mobile e sempre adattabile, che piace a destra come a sinistra, potrebbe essere una ulteriore ma illusoria scalata dell’americanismo…» (pag. 71).{p. 9}
Dopo più di quarant’anni, possiamo certamente confermare che è questo il modello sociale dominante nel quale è difficile pretendere l’identificazione personale con lavori privi di forma e contenuti che possa conferire una qualche identità professionale, ossia – per tornare all’altro fattore di crisi – una qualche identità come mestiere. Senza discutere in questo momento se si tratta di causa oppure effetto, certo è che la condizione strutturale di transitorietà nel lavoro impedisce un radicamento e una correlativa identificazione. D’altronde, è pur vero che questa continua transizione non è soltanto imposta dai nuovi modelli di organizzazione (tramite la dottrina della flessibilità in uscita ed entrata del lavoro) ma diventa anche cercata dai lavoratori, soprattutto dalla forza-lavoro giovanile. Si tratta di una ricerca voluta obtorto collo, una ricerca di migliori condizioni di lavoro, di crescita professionale da un «lavoretto» all’all’altro, cercando una realizzazione di sé quasi sempre in un altro lavoro rispetto a quello eseguito, perché quello eseguito è lavoro privo di tutele, protezione sociale, condizioni accettabili di crescita professionale, insomma lavori con i quali è difficile identificarsi.
Oggi, la percezione di Accornero trova conferma nelle più recenti ricerche sui nuovi modelli manageriali neoliberali che ci pongono il seguente interrogativo: «il nuovo modello manageriale si impegnerà a gestire una fase di transizione, puntando sui giovani che, portatori di nuovi valori compatibili e in armonia con le esigenze del modello manageriale moderno giungeranno a generalizzarli? O si condannerà piuttosto a funzionare basandosi su flussi costantemente rinnovati di giovani, i soli capaci di sopportare o di ricercare il nomadismo professionale, residenziale, l’incertezza e le sfide?» (Linhart 2021, p. 105).
La questione del lavoro come identità rimanda proprio alla idea del lavoro come strumento di autorealizzazione della persona e che – paradossalmente – accomuna una certa cultura operaista del lavoro come mestiere professionale con la cultura (contemporanea o post-fordista) del lavoro come libera scelta di autorealizzazione [4]
. Su questo {p. 10}punto, potremmo azzardarci a dire che Accornero mostrerebbe anche verso la cultura del lavoro neoliberale lo stesso scetticismo che mostrò verso la cultura operaista taylor-fordista a proposito del lavoro come autorealizzazione della persona allorché ribadì «per onestà che l’esaltazione del lavoro che piace è individualistica, è elitaria; è perfino estetizzante» (pag. 111). Ma questo aspetto della crisi rimanda alla questione di fondo della concezione ideologica del lavoro come strumento di libertà.

4. La crisi del lavoro come ideologia: sull’ideologia della libertà del lavoro

La crisi del lavoro come mestiere, come identità, come autorealizzazione di sé, rimanda alla crisi di fondo del lavoro alla fine del secolo del lavoro e all’inizio dell’età del lavoro neoliberale: la crisi del lavoro come ideologia. Si tratta di una crisi della concezione liberatrice, emancipatoria, più semplicemente, della «faccia positiva» del lavoro. Una faccia positiva del lavoro che, secondo Accornero, ancora nel 1997, accomuna «l’ideologia borghese dell’operosità e l’ideologia operaia del riscatto» (Accornero 1997, p. 193).
Una ideologia della «faccia positiva» del lavoro che accomuna una svariata gamma di orientamenti politico-culturali del lavoro, un idealismo dei valori che accomuna il cattolicesimo sociale espresso nella Rerum Novarum e la filosofia antiborghese rappresentata nell’Operaio di Ernst Junger secondo cui «all’interno di un mondo in cui il nome di operaio significa un distintivo di grado sociale, e il lavoro è concepito come intima necessità di quel mondo, la libertà si configura proprio come espressione di questa necessità; o, in altre parole, ogni esigenza di libertà appare qui come un’esigenza di lavoro» (Junger (1932) 1991, p. 61).
La faccia positiva del lavoro va dalla libertà dell’autorealizzazione nel lavoro cognitivo che secondo Bruno Trentin è «la libertà e l’autorealizzazione della persona, in tutte le forme di lavoro e attività in cui viene messo alla prova un progetto personale» (Trentin 1997, p. 228). alla dimensione spirituale del lavoro come tratteggiato da Mas
{p. 11}simo Cacciari: «l’inarrestabile farsi mondo dello scientiam facere… è opera di un lavoro, e la forma di tale lavoro non potrà che essere…lavoro assolutamente libero» (Cacciari 2020, p. 12).
Note
[2] Chicchi, Leonardi, Lucarelli 2016, p. 9. Cfr. anche Chicchi, Simone, 2017.
[3] Sul fenomeno dei riders, per tutti Recchia, 2018; Lassandari 2018; Marrone 2018.
[4] La più recente e chiara espressione di questo filone di pensiero la si può ritrovare in Mari 2019.