Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/p1
La faccia positiva del lavoro va
dalla libertà dell’autorealizzazione nel lavoro cognitivo che secondo Bruno Trentin è
«la libertà e l’autorealizzazione della persona, in tutte le forme di lavoro e attività
in cui viene messo alla prova un progetto personale» (Trentin 1997, p. 228). alla
dimensione spirituale del lavoro come tratteggiato da Mas
¶{p. 11}simo
Cacciari: «l’inarrestabile farsi mondo dello scientiam
facere… è opera di un lavoro, e la forma di tale lavoro non potrà che
essere…lavoro assolutamente libero» (Cacciari 2020, p. 12).
Ebbene, Accornero oppone realismo,
se non proprio scetticismo verso una rappresentazione smaterializzata del lavoro, una
rappresentazione senza effettiva base materiale, appunto: ideologica, chiedendosi: «è
possibile individuare, ed è legittimo privilegiare, la faccia positiva del lavoro
salariato?» (pag. 15). Accornero s’interroga lasciando intendere – citando il Marx de
Il Capitale – che la faccia positiva, il lavoro, l’avrà
soltanto nel «regno della libertà»; invece, nel capitalismo, citando ancora il Marx dei
Grundrisse, «il lavoro non può diventare gioco». La verità – ci
rammenta Accornero – è che «quando le condizioni di lavoro e di paga si confrontano con
il contesto sociale, finiscono per contare più di quanto dentro il contesto aziendale
pesi il senso di realizzazione e di identificazione nel lavoro» (pag. 34). È lo spirito
della «rude razza pagana», quella che – racconta Mario Tronti – ai giovani militanti
operaisti che, davanti ai cancelli delle fabbriche, distribuivano volantini per
sostenere la lotta anticapitalista, rispondeva sempre con una stessa domanda, ridendo:
«che sono, soldi?» (Tronti, 2009, p. 15). Accornero chiede: «come si può dimenticare che
il lavoro rimane uno stato di necessità ben prima che una condizione di libertà?» (pag.
37); e poi ammonisce: «dignità, nobiltà, gioia, gloria: bisognerebbe smetterla» (pag.
38).
Rileggere queste pagine e riproporre
quelle stesse domande appare ancor più pregnante oggi, quando l’ideologia del lavoro
appare ristrutturata da quarant’anni di cultura neoliberista che ha finito per
assolutizzare l’ideologia del lavoro libero, una ideologizzazione da «destra» come da
«sinistra», l’ideologia dell’imprenditore di sé stesso alter ego
della libertà di scelta del lavoro. Invece Accornero rammenta che «il lavoro è tutt’ora
necessità e nient’affatto libertà» e che «sarà sempre un mezzo e mai un fine» (pag.
199). Occorre cioè collocare il lavoro, l’attività che produce valore (economico e
sociale), il mestiere professionale che produce valori d’uso, all’interno del contesto
in cui produce valore e a partire da questo contesto migliorare le
condi¶{p. 12}zioni che allentino la necessità, non potendola eliminare;
almeno hic et nunc. Come ha ben scritto Cristophe Dejours a
proposito di «lavoro vivo», «il lavoro è ciò che implica…: i gesti, il
savoir-faire, l’impegno del corpo, la mobilitazione
dell’intelligenza, la capacità di riflettere, di interpretare le situazioni e reagire,
il potere di sentire, di pensare, di inventare ecc.»; appunto, il lavoro vivo.
Nondimeno, «lavorare è impegnare la propria soggettività in un mondo gerarchizzato,
ordinato e stretto da vincoli, attraversato dalla lotta per il dominio» (Dejours 2020,
p. 7 e p. 20).
Ecco la laicità di cui Accornero è
un interprete: anziché idealizzare il lavoro libero, occorre piuttosto materializzare la
lotta di liberazione dal dominio nella subordinazione gerarchica. Accornero conclude con
chiarezza il suo libro: «il movimento operaio deve tornare alla critica del lavoro.
Critica pratica del lavoro, attraverso la lotta concreta per cambiare l’organizzazione,
la qualità, i contenuti e il senso del lavoro» (pag. 202) a partire dalla considerazione
di ciò che il lavoro è, a partire dalla forza-lavoro, come oggetto,e dalle lavoratrici e
dai lavoratori, come soggetto, della realtà materiale.
Note