Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c5
Come è noto, le clausole contrattuali per il
controllo del decentramento produttivo mettono in discussione la libertà delle imprese
di fare ricorso al lavoro esterno in generale, e a domicilio in particolare, imponendo
agli imprenditori, che «commettono» parte della produzione fuori della fabbrica, gli
obblighi di informare i sindacati e di applicare il contratto collettivo ai lavoratori
esterni. Tali clausole sviluppano e arricchiscono di contenuti scelte già operate dalla
legge n.
¶{p. 190} 877/1973: una legge a sua volta derivata, in gran
parte, dal contratto dei tessili di qualche mese precedente
[33]
.
Il controllo sindacale sul decentramento (per ora
scritto) e, in altro modo, la legge n. 877 tendono indiscutibilmente a disincentivare il
ricorso al lavoro a domicilio: nell’immediato, rendendo tale forma di lavoro decentrato
più costosa e «protetta» che nel passato.
Se però la legge e i contratti hanno, come
obbiettivo di più lungo respiro, la limitazione assoluta di questo (e di ogni altro)
lavoro esterno e precario, il raggiungimento dell’obbiettivo può essere ostacolato da
modi di protezione dei lavoratori a domicilio che comportino l’estensione ad essi di
garanzie «stabilizzanti»: ivi comprese le norme dello statuto (si pensi all’art. 18 e
all’ipotesi del giustificato motivo oggettivo) e le norme di tutela delle lavoratrici
madri (v. l’art. 1, 2° comma, L. 30 dicembre 1971, n. 1204).
Infatti, fino a che l’estensione delle suddette
garanzie non riesca ad eliminare sia la caratteristica, strutturale flessibilità del
lavoro a domicilio, sia le ragioni della convenienza ‒ economica e politica ‒ per le
imprese di decentrare a domicilio parte della produzione, l’irrigidimento (ovvero
«protezione») sancisce una nuova legittimazione del lavoro a domicilio come tale.
Legittimazione sorretta, questa volta, dall’ingombrante armamentario degli strumenti
giuridici che, tutelando la stabilità dei lavoratori a domicilio, ne corporativizzano
gli interessi
[34]
. Impiego l’abusato aggettivo «corporativo» per designare il blocco di
interessi settoriali; e penso all’eventualità (non remota) di un conflitto di interessi
fra i lavoratori delle fabbriche, la cui occupazione è minacciata dal decentramento
della produzione a domicilio, e le molte donne che, costrette dall’esser donne a restare
fuori delle fabbriche, trovano occupazione (o sottoccupazione) solo
nel lavoro a domicilio.
Avvedersi di una possibile contraddizione fra la
strategia, legislativa e sindacale, di disciplinare il decentramento e limitare il
lavoro a domicilio, e l’esigenza di aumentare la protezione legale dei lavoratori a
domicilio (protezione necessaria anche per disincentivare il
ricorso a questa forma di lavoro decentrato), non vuole dire accantonare la
prospetti¶{p. 191}va di estendere la protezione dei lavoratori a
domicilio. Vuole dire piuttosto che, nell’immediato, quando preme l’urgenza di dare a
questa massa di lavoratori strumenti di difesa contro lo sfruttamento cui sono soggetti,
è necessario scegliere una politica del diritto che non contraddica quel disegno di
trasformazione delle strutture economiche del paese, di cui fa parte la limitazione
massima possibile del lavoro a domicilio.
Alla base delle scelte interpretative sta una
considerazione ovvia, ma che vale la pena di esplicitare: gli strumenti essenziali di
protezione e difesa dei lavoratori a domicilio sono la riaggregazione dei lavoratori tra
di loro e la ricomposizione dell’unità con i lavoratori occupati all’interno delle
fabbriche che commettono lavoro a domicilio. In altre parole: la costruzione del potere
contrattuale. Potere, si badi, non dei lavoratori a domicilio per sé, ma dei lavoratori
delle fabbriche sul decentramento della produzione e sulle condizioni di lavoro per i
lavoratori decentrati: perché il controllo dei lavoratori occupati nelle fabbriche è
l’unica garanzia della parità di trattamento, e quest’ultima è la chiave di
un’efficiente protezione dei lavoratori che, dispersi nel territorio, prestano la loro
opera fuori delle fabbriche.
Contrastare la disgregazione dei lavoratori cui
mira il decentramento è un obbiettivo essenziale di politica sindacale. Spetta dunque al
sindacato la ricerca degli strumenti necessari per realizzarlo. Credo tuttavia che
esistano anche strumenti giuridici da utilizzare, e che spetti al giurista elaborare
interpretazioni degli enunciati normativi che non ostacolino la realizzazione
dell’obbiettivo appena avanzato.
3. La subordinazione nel lavoro a domicilio.
Perno della nuova disciplina del lavoro a
domicilio, e presupposto per la realizzazione di una (relativa) parità di trattamento
fra i lavoratori cosiddetti «esterni» ed i lavoratori «interni», è la qualificazione del
lavoro a domicilio come lavoro subordinato (art. 1 L. n. 877).
Basta citare la parola «subordinazione» per
richiamare¶{p. 192} alla mente di tutti le infinite diatribe e
discussioni che ‒ a partire dalla prima sistemazione teorica del lavoro a domicilio,
operata da Barassi, e poi attraverso l’ambigua formulazione dell’art. 2128 c.c.
[35]
e le incertezze della legge n. 264/1958, non risolte dal D.P.R. del 1959 ‒
si sono trascinate fino alla vigilia dell’entrata in vigore della nuova legge sul lavoro
a domicilio
[36]
.
Tralascio ogni riferimento al passato e faccio
conto che, colla legge n. 877/1973, il dibattito sia ripartito da zero. Il che, per
certi versi, è poi vero: quando la legge n. 877 è entrata in vigore, un primo,
autorevole commento a caldo stabiliva il definitivo tramonto della vecchia querelle
intorno alla natura, autonoma o subordinata, del lavoro a domicilio
[37]
. L’osservazione, fondata sulla complessa e puntigliosa formulazione
dell’art. 1 della nuova legge, è sicuramente esatta
[38]
. Ma il fatto che la legge n. 877 abbia eliminato gli argomenti, che per anni
hanno alimentato il dibattito nella dottrina e le incertezze nella giurisprudenza, non
poteva determinare, e non ha infatti determinato, soluzioni interpretative limpide e
univoche
[39]
.
Sull’impossibilità di configurare, dopo l’entrata
in vigore della legge n. 877, una categoria di lavoro a domicilio autonomo, mi sembra
che vi sia consenso nella dottrina. Del resto, la legge n. 877 non ha cancellato
l’antitesi tra autonomia e subordinazione, ma ha escluso dalla sua sfera di applicazione
(non considerandoli lavoratori a domicilio) solo coloro che, pure svolgendo nel proprio
domicilio un’attività per conto di uno o più imprenditori, utilizzano manodopera
salariata e apprendisti, ovvero il lavoro dei familiari in modo non accessorio (cioè
complementare e saltuario)
[40]
. È certo che in nulla rileva ormai il dato formale dell’iscrizione all’albo
degli artigiani. Dubbi permangono invece sul valore definitorio (o distintivo) da
assegnare alla proprietà esclusiva dei mezzi di produzione. A mio avviso, per quanto il
giallo non sia ancora risolto
[41]
, deve considerarsi un errore materiale la sostituzione avvenuta nel testo
della legge approvato dal senato della congiunzione «e» (mezzi propri e dello stesso
imprenditore) alla disgiunzione «o» (mezzi propri o dello stesso imprenditore) che
compariva nel testo trasmesso dalla ca¶{p. 193}mera. Militano a favore
di questa tesi i lavori preparatori della legge, dai quali traspare la generale
consapevolezza del fatto che il possesso dei mezzi produttivi anche costosi e complessi
è «una condizione strutturale di esistenza del moderno lavoro a domicilio»
[42]
.
Con una prescrizione, che sconvolge il vecchio
assetto della distinzione fra lavoratori a domicilio e artigiani, la legge n. 877 ha
esteso l’area del lavoro a domicilio protetto, guardando non alle forme, ma alla
sostanza della reale subordinazione. Scopo della legge è anzitutto quello di evitare
l’inserimento fra gli artigiani di lavoratori a domicilio effettivamente subordinati
(inserimento che la legge n. 264/1958 aveva invece favorito); ma anche di evitare
l’abuso contrario: consentire cioè al piccolo imprenditore ‒ spesso committente di
lavoro a domicilio ‒ di sottrarsi agli obblighi legali e contrattuali verso i lavoratori
subordinati, interni o esterni, che dei lui direttamente dipendono
[43]
. Sono, questi, modi per fare emergere il lavoro a domicilio dalla
clandestinità e svelare, insieme, le reali dimensioni delle imprese iscritte fra quelle
artigiane.
Problemi di distinzione pratica e giuridica fra
lavoratori a domicilio e artigiani ne esistono ancora, e toccherà alla legge di riforma
dell’artigianato risolverli. Ma si può dire che la non più discutibile attrazione
nell’orbita del lavoro subordinato delle forme di lavoro a domicilio solo formalmente
autonomo, ha tagliato di netto gli spazi della distinzione fra lavoro a domicilio
autonomo e subordinato, non chiusi a suo tempo dalla legge n. 264/1958.
Rimane tuttora aperto invece, e non è di facile
soluzione, il problema di definire con precisione i confini della «subordinazione» del
lavoratore a domicilio. Le divergenze di opinione sono profonde, e le tante definizioni
correnti della «subordinazione» sembrano incoraggiate dalla ricca formulazione dell’art.
1, 1° e 2° comma, della legge n. 877. A me pare tuttavia che il vero nodo della
definizione sia nella difficoltà, che buona parte della dottrina e molti giudici
incontrano, a ricomprendere, in modo integrale ed indistinto, il lavoro a domicilio
nella categoria del lavoro subordinato: difficoltà determinate o da vecchie abitudini,
contratte nella di¶{p. 194}scussione sulla precedente legge, ovvero da
abitudini nuovissime, contratte nella discussione di questi anni
sull’emergenza.
Tengono oggi il campo ricostruzioni diverse della
«subordinazione» del lavoro a domicilio, definita dall’art. 1 della legge n. 877. La più
diffusa è la teoria della specialità della subordinazione (come diversificazione
qualitativa dalla subordinazione ordinaria, di cui all’art. 2094 c.c.), di più antica
tradizione, ma compiutamente rielaborata di recente
[44]
. A questa si contrappone la teoria della piena coincidenza fra
subordinazione nel lavoro a domicilio e subordinazione ordinaria
[45]
. Non intendo qui esaminare tutte le ricostruzioni possibili dell’art. 1 L.
n. 877: mi limito solo ad affermare che, mentre mi convince il risultato della
coincidenza tra subordinazione ordinaria e subordinazione nel lavoro a domicilio, perché
coerente alla funzione disincentivante della legge, ho qualche perplessità sulle strade
seguite per raggiungerlo. Non concordo invece sulla rifondazione di una specialità del
rapporto di lavoro a domicilio, che, accentuando le diversità in senso qualitativo
(nella qualità della subordinazione), vanifica, mi pare, l’intento espresso del
legislatore di ricomporre ad unità, per quanto è consentito dalla peculiarità dello
svolgimento a domicilio, il lavoro esterno ed il lavoro interno che fanno capo alla
stessa impresa
[46]
. La motivazione (sintetica) di queste affermazioni prende le mosse, come
necessario, dal 2° comma, art. 1, legge n. 877, dove si afferma che, in deroga ali art.
2094 c.c., la subordinazione del lavoratore a domicilio ricorre quando questi è tenuto
ad osservare le direttive dell’imprenditore circa le modalità di esecuzione, le
caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere nella esecuzione parziale, nel
completamento o nell’intera lavorazione di prodotti oggetto dell’attività
dell’imprenditore committente.
Ridefinendo la subordinazione del lavoratore a
domicilio ‒ in deroga all’art. 2094 c.c. ‒, il legislatore è stato sicuramente mosso
dalla buona intenzione di risolvere un’altra vecchia questione: quella sollevata in
passato dalla «subordinazione anche solo tecnica», con cui il D.P.R. 16 dicembre 1959,
n. 1289, aveva tentato di dare corpo ad una volontà, di
¶{p. 195}
definire subordinato il lavoro a domicilio, malamente espressa dalla legge n. 264/1958.
Dopo lunghi contrasti, la cassazione aveva finalmente affermato che la subordinazione
«tecnica» non era una nuova e autonoma definizione della speciale subordinazione del
lavoratore a domicilio, ma era invece un aspetto della subordinazione, di cui all’art.
2094 c.c., in essa ricompreso
[47]
. Secondo l’orientamento alla fine prevalso, la subordinazione (tecnica) del
lavoratore a domicilio era dunque una species (o categoria affievolita) del genus
subordinazione giuridica, definita dall’art. 2094 c.c. come caratteristica del lavoro
nell’impresa
[48]
. Ne risultava accentuata la specialità del lavoro a domicilio subordinato:
rispetto alla specialità di cui all’art. 2128 c.c., la definizione si era arricchita dal
dato della subordinazione; ma questa subordinazione speciale e attenuata continuava a
giustificare disparità di trattamento e sottoprotezione.
Note
[33] Cfr. A. Molinari, L’iniziativa contrattuale e legislativa sul lavoro a domicilio dal dopoguerra a oggi, in «Quaderni di rassegna sindacale», 1973, n. 44/45, cit., pp. 67 seg.
[34] Accenna alla contraddizione fra valutazione negativa del lavoro a domicilio, da parte della legge, e sua stabilizzazione Pera, Lezioni di diritto del lavoro, cit., p. 385.
[35] Retro, cap. II, par. 4.
[36] V. l’accurato riepilogo delle definizioni progressivamente date della natura giuridica del rapporto di lavoro a domicilio di De Cristofaro, Il lavoro a domicilio, cit., pp. 41 seg. Sulla elaborazione giurisprudenziale della nozione di subordinazione nel lavoro a domicilio, v. Balandi, op. cit., I, pp. 603 seg.
[37] G. Pera, Sulla tutela dei lavoratori a domicilio, cit., c. 122.
[38] Condivido il giudizio di Mariucci, op. cit., p. 59, secondo cui il legislatore si è preoccupato di eliminare l’alternativa fra lavoro a domicilio autonomo e subordinato.
[39] La legge n. 264/1958 lasciava ampie possibilità di evasione: al di là dell’iscrizione all’albo degli artigiani (art. 1, ult. comma), notoriamente utilizzata come comodo strumento di elusione della disciplina legale del lavoro a domicilio, la definizione della sfera di applicazione della legge (art. 1, I comma, e ivi il riferimento al «lavoro subordinato», inteso da buona parte della dottrina e della giurisprudenza come «tipicamente subordinato»), e l’applicazione della sola assistenza sanitaria ai lavoratori la cui occupazione a domicilio fosse «complementare o accessoria», erano tutti argomenti utilizzati dalla dottrina per ridurre l’ambito di applicazione della legge. V. per tutti G. Mazzoni, La tutela del lavoro a domicilio e il campo di applicazione della legge 13 marzo 1958, n. 264, in «Rivista di diritto del lavoro», 1958, I, pp. 306 seg.; e ora in Manuale di diritto del lavoro, cit., I, pp. 803 seg. Per un’interpretazione meno rigida della subordinazione a fini di applicazione della legge, v. A. d’Harmant François, voce Lavoro a domicilio, in Enciclopedia del diritto, XXIII, Milano, 1973, pp. 440 seg., che esclude tuttavia il lavoro occasionale o saltuario. Sosteneva al contrario che la legge n. 264/1958 avesse sancito una presunzione di subordinazione dei lavoratori a domicilio G. Petraccone, Il lavoro a domicilio e la nuova legge 13 marzo 1958, n. 264, per la sua disciplina, in «Rivista giuridica del lavoro», 1959, I, pp. 157 seg.
[40] Sul punto può farsi rinvio a Mariucci, op. cit., pp. 121-128.
[41] Con ordinanza 14 luglio 1977 (in «Foro italiano», 1978, II, c. 198), la Cass. pen. ha dichiarato non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 1,1 comma, L. n. 877/1973, nella parte in cui, nel testo approvato dal senato in commissione deliberante, diverso dal testo trasmesso dalla camera dei deputati, è stata sostituita la particella congiuntiva «e» a quella originaria «o», in riferimento agli artt. 70, 72, 73 cost. Spetta dunque alla corte costituzionale di decidere se la sostituzione è stata intenzionale o se è avvenuta per errore, e se l’errore (ove di errore si tratti) è rilevante o irrilevante
[42] Così Mariucci, op. cit., p. 107. Ritiene invece che la formula «mezzi propri e dello stesso imprenditore» abbia portata innovativa De Cristofaro, op. cit., p. 277; la proprietà non esclusiva dei mezzi di produzione avrebbe infatti incidenza sui margini di autonomia organizzativa del lavoratore a domicilio, in coerenza con l’ampliamento del concetto di subordinazione. Attribuisce un’immeritata importanza allo «scarso valore» del capitale (tale da non fare venir meno l’assoluta prevalenza del lavoro sul capitale nello svolgimento dell’attività commissionata a domicilio) anche F. Mazziotti, Contenuto ed effetti del contratto di lavoro, Napoli, 1974, p. 176.
[43] Cfr., per qualche osservazione sul punto, M. Napoli, Il decentramento produttivo, cit., pp. 73 seg. Sul ruolo delle piccole imprese nel decentramento produttivo, v. G. Brusco, Organizzazione del lavoro e decentramento produttivo nel settore metalmeccanico, in Sindacato e piccola impresa. Strategia del capitale e azione sindacale nel decentramento produttivo, a cura della F.L.M. di Bergamo, Bari, 1975, pp. 23 seg., e ivi importanti dati sulle strutture salariali e l’evasione contrattuale nelle imprese minori. Ammette l’autonomia tecnico-produttiva, ma sottolinea gli aspetti della dipendenza (commerciale e finanziaria) rispetto alle grandi imprese, L. Frey, Intervento, ivi, pp. 132 seg.
[44] M. De Cristofaro, op. cit., pp. 169 seg. Prendo in considerazione la tesi di De Cristofaro, perché nella sua elaborazione la «specialità», che tradizionalmente connota il rapporto di lavoro a domicilio, acquista significato di subordinazione speciale, in quanto effettivamente derogatoria rispetto alla subordinazione ordinaria. Mi pare che «specialità» abbia lo stesso significato derogatorio per Mazzoni, Manuale di diritto del lavoro, cit., I, pp. 815 seg., che infatti esclude l’applicabilità delle leggi n. 604/1966 e n. 300/1970 ai lavoratori a domicilio. Altri autori definiscono ancora «speciale» il rapporto di lavoro a domicilio, ma assegnano alla specialità il più limitato compito di designare la subordinazione (anche solo tecnico-funzionale) del lavoratore a domicilio e la sua inserzione solo mediata nell’organizzazione aziendale: così Riva Sanseverino, Diritto del lavoro, cit., pp. 72 seg.; Cipressi, La nuova nozione di lavoratore a domicilio, cit., pp. 178 seg., che parla di una nuova specialità del lavoro a domicilio. Dà una definizione ancora più attenuata della specialità del lavoro a domicilio O. Mazzotta, Diritto alla salute e decentramenti produttivi, in Tutela della salute e diritto privato, a cura di F. Busnelli e U. Breccia, Milano, 1978, pp. 179 seg., che attribuisce alla deroga dell’art. 2094 c.c. (art. 1, II comma, L. n. 877/1973) il significato di una norma di chiusura, volta ad impedire che il lavoro a domicilio possa essere qualificato come autonomo, e d’altra parte ritiene che il lavoro a domicilio debba essere tutelato né più né meno che come il lavoro subordinato «interno».
[45] L. Mariucci, op. cit., pp. 61 seg., con una ricostruzione della subordinazione (come alterità del prodotto e dell’organizzazione) che si discosta da quella proposta da Mazziotti, Contenuto ed effetti del contratto di lavoro, cit., pp. 49 seg., secondo cui l’alienazione del lavoro coincide con la subordinazione socioeconomica, ed è propria anche del lavoro autonomo. Balandi, op. cit., I, pp. 614 seg. ritiene che la subordinazione del lavoratore a domicilio sia subordinazione ordinaria, in virtù della presunzione assoluta di subordinazione, di cui all’art. 1, II comma, L. n. 877.
[46] In questa direzione mi pare vada il discorso di Mazzotta, loc. ult. cit.: a dimostrazione del fatto che continuare a definire speciale il rapporto di lavoro a domicilio non implica necessariamente creare distinzioni qualitative rispetto al rapporto di lavoro subordinato. Troppo indistinta invece la nozione di subordinazione costruita da Napoli, op. cit., p. 71,chie la ritiene idonea a «far considerare in termini di lavoro subordinato l’ipotesi in cui l’unità produttiva decentrata esegua lavorazioni inerenti il normale ciclo produttivo dell’impresa committente»: giusta le critiche di Mariucci, op. cit., pp. 100 seg.
[47] Cass. pen., 15 dicembre 1972, in «Foro italiano», Repertorio, 1973, Lavoro (rapporto), nn. 300-301; Cass. pen., 12 febbraio 1973, ivi, 1974, Lavoro (rapporto), n. 322: secondo la cassazione, nell’art. 2094 c.c. è compresa anche la subordinazione tecnica; pertanto l’art. 1 D.P.R. 16 dicembre 1959, n. 1289 (dove si precisava che la subordinazione del lavoratore a domicilio poteva essere anche solo tecnica), doveva ritenersi pienamente legittimo, non avendo introdotto nella materia un concetto nuovo e diverso rispetto a quanto previsto dalla legge n. 264/1958. Per la contraria opinione v. Mazzoni, Manuale di diritto del lavoro, cit., I, pp. 812 seg., secondo il quale la subordinazione tecnica non è vera subordinazione, come non è vera subordinazione la subordinazione economica.
[48] Sulle definizioni della subordinazione «tecnica», v. Balandi, op. cit., I, pp. 595 seg, e ivi riferimenti. Un ampio riepilogo delle vicende interpretative e applicative della legge n. 264/1958 in G. Pellettieri, Il lavoro a domicilio, in Il diritto del lavoro nell’elaborazione giurisprudenziale, vol. XV, Novara, 1973, pp. 440 seg.