Note
  1. V. Trent’anni di lotte, cit. Consenso la legge ha incontrato anche fra i giuristi che l’hanno commentata: v. ad es. R. Pessi, Orientamenti legislativi, cit.; G. Cottrau, La tutela della donna lavoratrice e la legge 30 dicembre 1971, n. 1204, cit.; V. Romano, Osservazioni sulla nuova legge per la tutela delle lavoratrici madri, in «Giurisprudenza agraria italiana», 1972, I, pp. 463 seg. Riferimenti (sommari) alla legge in G. Mazzoni, Manuale di diritto del lavoro, cit., I, pp. 387 seg.; G. Pera, Lezioni di diritto del lavoro,cit., pp. 561 seg.; più ampio il commento di L. Riva Sanseverino, Diritto del lavoro, XIII ed., Padova, 1978, pp. 336 seg.
  2. La legge 31 dicembre 1971, n. 1403 prevede l’estensione alle collaboratrici domestiche, aventi rapporto di lavoro saltuario, degli obblighi assicurativi, compresa la maternità. Per le lavoratrici familiari «autonome», v. l’art. 14 L. 9 dicembre 1977, n. 903 e, in proposito, le osservazioni di G. Cian, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903. Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro. Commentario, a cura di T. Treu, sub art. 14, in «Le leggi civili commentate», 1978, pp. 825 seg.
  3. Sulla nuova definizione della subordinazione del lavoratore a domicilio. infra, par. 2.
  4. Sulla funzione di disincentivare il lavoro a domicilio, propria della legge n. 877/1973, v. infra, par. 2 e ivi riferimenti bibliografici.
  5. Cfr. Riva Sanseverino, op. cit., p. 336. Esprime dubbi sull’opportunità della soluzione adottata C. Assanti, La disciplina del lavoro femminile,cit., p. 30.
  6. La facoltà di licenziare la lavoratrice gestante per esito negativo della prova consente praticamente di eludere il divieto (ex art. 8 L. 20 maggio 1970, n. 300) di accertare prima dell’assunzione, mediante colloqui informativi e simili, lo stato di gravidanza della lavoratrice. La nullità del licenziamento di una lavoratrice, che all’atto dell’assunzione aveva occultato il proprio stato di gravidanza, è stata giustamente affermata dal Pret. Milano, 10 dicembre 1974, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, II, p. 236.
  7. Gli adattamenti riguardano la diversa situazione della madre adottiva, alla quale non è ovviamente concessa l’astensione obbligatoria prima dell’effettivo ingresso del bambino nella famiglia. I limiti concernono l’età dell’adottato o adottando: i sei anni sono considerati dalla legge il massimo, superato il quale la madre adottiva non è più considerata «lavoratrice madre» a fini di applicazione della L. n. 1204/1971.
  8. Nel senso della legittimità dell’estensione analogica della legge n. 1204 alla madre adottiva: Roma, 17 gennaio 1973, in «Foro italiano», 1973,1, c. 1278; Pret. Bologna, 24 maggio 1973, ivi, 1973, I, c. 2280; Pret. Milano, 17 dicembre 1975, in «Rivista giuridica del lavoro», 1975, II, p. 1080; Pret. Milano, 23 settembre 1975, ivi; Pret. Milano, 31 ottobre 1975, ivi; Trib. Milano, 29 aprile 1976, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1976, p. 359; Pret. Bologna, 18 gennaio 1977, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, II, p. 276; Pret. Bologna, 25 gennaio 1977, ivi, p. 277. In dottrina: Borgogelli, Note in tema di applicazione alle madri adottive della normativa di tutela delle lavoratrici madri, ivi, 1975, II, pp. 1082 seg.; A. Maresca, Legittimità e limiti dell’estensione analogica della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, ivi, 1975, II, pp. 1092 seg.; Galoppini, Affidamento temporaneo preadottivo e tutela della lavoratrice madre, ivi, 1974,1, pp. 161 seg.; F. Giampietro, Tutela delle lavoratrici madri e adozione speciale, in «Foro italiano», 1975, V, cc. 85 seg.
  9. Ministero del lavoro, circolare del 18 gennaio 1974, cit. da R. Bortone, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 6, p. 809. In senso sfavorevole all’applicazione dell’art. 4, lett. c, L. n. 1204/1971, v. Pret. Bologna, 26 gennaio 1977, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, II, p. 277, colla motivazione che il principio dell’astensione obbligatoria post-partum è prioritariamente diretto a favorire il ripristino delle energie psico-fisiche della puerpera.
  10. Così anche R. Bortone, op. cit., p. 810.
  11. Per superare i limiti della L. n. 903/1977, dove riconosce alla sola madre adottiva o affidataria il diritto all’astensione dal lavoro di cui all’art. 4, lett. c, L. n. 1204/1971, occorre coordinare gli artt. 6 e 7 della legge n. 903 e dedurre, dal coordinamento, l’estensione di quel diritto anche al padre adottivo o affidatario. È questa l’interpretazione proposta da Bortone, op. cit., sub art. 7, p. 811. L’operazione è indubbiamente sorretta dalla logica di porre padre e madre adottivi sullo stesso piano, ma i lavori preparatori e la lettera della legge mostrano che il legislatore, in questo caso, non si è posto il problema della parità, ritenendo probabilmente essenziale l’opera della madre adottiva al momento dell’ingresso del bambino nella famiglia.
  12. Pret. Milano, ord. 30 ottobre 1978, in «I diritti dei lavoratori», marzo 1979, n. 30, p. 30.
  13. Cfr. G. Cottrau, La tutela della donna lavoratrice, cit.; dello stesso a. v. anche Alcune considerazioni sul regolamento di esecuzione alla legge di tutela delle lavoratrici gestanti e madri, in «Notiziario giuridico del lavoro», 1977, pp. 712 seg.
  14. In base alla legge n. 1204/1971 e al regolamento (D.P.R. n. 1026/1976) l’autonomia funzionale del reparto lo definisce come unità produttiva; ma non è sempre facile rilevare l’autonomia di questo nucleo minore dell’azienda. Secondo M. Biagi, La dimensione deli impresa nel diritto del lavoro, Milano, 1978, pp. 168 seg., occorre verificare caso per caso, oltre l’importanza delle funzioni, la complessiva autosufficienza dei mezzi.
  15. Il divieto di licenziamento è ancora sorretto dalla sanzione (art. 31 L. n. 1204). Quanto alle dimissioni volontarie della lavoratrice presentate durante il periodo di divieto di licenziamento, l’art. 11 D.P.R. n. 1026/1976 ha stabilito che debbano essere comunicate all’ispettorato del lavoro, che le convalida: la risoluzione del rapporto di lavoro è condizionata alla convalida. La procedura è diversa, ma la ratio della norma regolamentare è la stessa dell’art. 1, III comma, L. n. 7/1963 (retro, cap. IV, par. 4).
  16. Ma v. l’art. 3 D.P.R. n. 1026/1976 e l’art. 2, IV comma, L. n. 1204/1971 per le addette ad industrie e lavorazioni stagionali.
  17. Retro, cap. IV, par. 3.
  18. Esprime dubbi sulla legittimità dell’art. 4, ult. comma, D.P.R. n. 1026/1976 C. Assanti, La disciplina del lavoro femminile, cit., p. 30. Per la ricostruzione della disciplina dei licenziamenti, contenuta nell’art. 18 statuto dei lavoratori, rinvio a quanto ho scritto in I licenziamenti, cit., pp. 76 seg., e ivi specialmente la critica all’opinione che spiega retribuzione e risarcimento dei danni dovuti al lavoratore illegittimamente licenziato come risarcimento dei danni derivanti dalla mora del creditore (pp. 104 seg.). Seguendo l’indirizzo criticato, e vigente la legge n. 860/1950, la mancata corresponsione della retribuzione alla lavoratrice ripristinata (ai sensi dell’art. 13 del regolamento) era giustificata da F. Carinci, In tema di «divieto di licenziamento» della lavoratrice gestante, cit., p. 1626, con la inesistenza del dovere del datore di lavoro creditore di cooperare, prima della presentazione del certificato medico, e cioè quando ignorasse lo stato di gravidanza della lavoratrice. Alla luce della nuova disciplina del divieto di licenziamento, la mancata corresponsione della retribuzione non trova più una spiegazione credibile. Infatti, se il divieto opera con lo stato oggettivo di gravidanza della lavoratrice, la conoscenza (soggettiva) che il datore di lavoro abbia della gravidanza medesima è irrilevante: del resto, la presentazione del certificato nei termini previsti dalla legge produce senz’altro l’annullamento del licenziamento e il ripristino del rapporto. Poiché allora la mancata prestazione lavorativa consegue ad un licenziamento, e l’annullamento di questo prescinde dalla considerazione delle intenzioni del datore di lavoro, dalla sua buona fede (e persino dai suoi giustificati motivi), la situazione della lavoratrice madre non è diversa da quella di ogni altro lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo (art. 18 st. lav.). Pertanto, appare ingiustificato il peggior trattamento che l’art. 4 ult. comma D.P.R. n. 1026/1976 riserva alla lavoratrice.
  19. Il periodo di assenza facoltativa è frazionabile: lo ha stabilito l’art. 8 D.P.R. n. 1026/1976, che ha imposto alla lavoratrice che intende assentarsi il dovere di dare comunicazione al datore di lavoro e all’ente assicuratore tenuto al pagamento dell’indennità, precisando il periodo dell’assenza.
  20. Cfr. R. Bortone, op. cit., sub art. 7, p. 812.
  21. La ragione di questo ulteriore requisito formale sta nel fatto che l’assenza è compensata con un’indennità, e che esiste quindi il rischio che ambedue i genitori beneficino dell’indennità medesima.
  22. Sulla legge n. 1044/1971, v. le osservazioni di T. Treu, Lavoro femminile e uguaglianza, cit., p. 58.
  23. In «Rivista giuridica del lavoro», 1977, II, p. 304 e ivi la nota di commento di G. D.
  24. Oltre le disposizioni segnalate retro, par. 1, deve essere menzionato l’art. 10 D.P.R. n. 1026/1976; il regolamento prevede che la distribuzione nell’orario di lavoro dei riposi c.d. per allattamento (di cui all’art. 10 della L. n. 1204/1971) sia concordata fra datore di lavoro e lavoratrice «tenendo conto anche delle esigenze del servizio». Tale previsione mal si concilia con la funzione dei riposi, concessi alla lavoratrice madre perché possa provvedere alle esigenze del neonato; esigenze, la cui scadenza non può essere subordinata ai ritmi dell’organizzazione del lavoro.
  25. La bibliografia sulla legge n. 264/1958 è vasta. Più oltre farò riferimento alle opere di maggiore rilievo scientifico. Sulla L. n. 877/1973, oltre le recenti monografie di M. De Cristofaro, Il lavoro a domicilio, Padova, 1978, e L. Mariucci, Il lavoro decentrato. Discipline legislative e contrattuali, Milano, 1979, v.: A. Culotta e C. Filadoro, Il lavoro a domicilio, Milano, 1977; G. Mannacio e G. Marzorati, Il lavoro a domicilio (legge 18 dicembre 1973, n. 877), Milano, 1974; G. G. Balandi, La vecchia e la nuova legge sul lavoro a domicilio, in «Rivista giuridica del lavoro», 1975,1, pp. 581 seg., e 1976, I, pp. 17 seg.; P. Cipressi, La nuova nozione di lavoratore a domicilio, in «Il diritto del lavoro», 1974, I, pp. 168 seg.; L. Ficari, Le nuove norme per la tutela del lavoro a domicilio, ivi, 1974, I, pp. 241 seg.; G. Mazzoni, Manuale di diritto del lavoro, cit., pp. 815 seg.; M. Napoli, Il decentramento produttivo alla luce della nuova legge sul lavoro a domicilio,in « Prospettiva sindacale», n. 14, 1974, pp. 65 seg.; G. Pera, Sulla tutela dei lavoratori a domicilio, in «Foro italiano», 1973, V, cc. 116 seg.; Id., Lezioni di diritto del lavoro, cit., pp. 376 seg.; L. Riva Sanseverino, Diritto del lavoro, cit., pp. 71 seg. Un ampio panorama del dibattito politico e sindacale sulla nuova legge è in «Quaderni di rassegna sindacale», 1973, n. 44/45, Il lavoro a domicilio, e ivi un’accurata bibliografia
  26. Cfr. F. Padoa Schioppa, La forza lavoro femminile, cit., pp. 105 seg.; L. Frey, Analisi economica della sottoccupazione femminile in Italia, in Occupazione e sottoccupazione femminile in Italia, cit., pp. 22 seg.
  27. Per un’analisi approfondita delle singole parti di cui si compone la legge n. 877/1973, v. Mariucci, Il lavoro decentrato, cit.
  28. V. ancora Padoa Schioppa, op. cit., pp. 105 seg.
  29. L’unico autore che dedica attenzione, e qualche pagina, al problema è Mariucci, Il lavoro decentrato, cit., pp. 142 seg. Cenni in Balandi, La vecchia e la nuova legge sul lavoro a domicilio, cit., I, pp. 611 seg., e in F. Mazzetti, Diritto del lavoro, Napoli, 1976, pp. 149 seg.
  30. Un esempio delle ancora attuali condizioni di supersfruttamento dei lavoratori a domicilio ci viene dall’indagine condotta da C. De Marco e M. Talamo, Lavoro nero. Decentramento produttivo e lavoro a domicilio, Milano, 1976, su Napoli e la Campania. V. anche Aa. Vv., Il lavoro a domicilio. Il caso dell’Umbria, Bari, 1975. L’iniziativa sindacale è ancora carente, specie nell’Italia meridionale, e la contrattazione collettiva investe fasce ancora ristrette di lavoro a domicilio, buona parte del quale è ancora «nero».
  31. L. Mariucci, Il lavoro decentrato, cit., pp. 224 seg.
  32. Su cui v. U. Carabelli, Struttura sindacale ed evoluzione della contrattazione collettiva nell’industria tessile, in B. Veneziani (a cura di), La contrattazione collettiva in Italia. 1945-1977, Bari, 1978, pp. 149 seg.; L. Mariucci, op. cit., pp. 234 seg.
  33. Cfr. A. Molinari, L’iniziativa contrattuale e legislativa sul lavoro a domicilio dal dopoguerra a oggi, in «Quaderni di rassegna sindacale», 1973, n. 44/45, cit., pp. 67 seg.
  34. Accenna alla contraddizione fra valutazione negativa del lavoro a domicilio, da parte della legge, e sua stabilizzazione Pera, Lezioni di diritto del lavoro, cit., p. 385.
  35. Retro, cap. II, par. 4.
  36. V. l’accurato riepilogo delle definizioni progressivamente date della natura giuridica del rapporto di lavoro a domicilio di De Cristofaro, Il lavoro a domicilio, cit., pp. 41 seg. Sulla elaborazione giurisprudenziale della nozione di subordinazione nel lavoro a domicilio, v. Balandi, op. cit., I, pp. 603 seg.
  37. G. Pera, Sulla tutela dei lavoratori a domicilio, cit., c. 122.
  38. Condivido il giudizio di Mariucci, op. cit., p. 59, secondo cui il legislatore si è preoccupato di eliminare l’alternativa fra lavoro a domicilio autonomo e subordinato.
  39. La legge n. 264/1958 lasciava ampie possibilità di evasione: al di là dell’iscrizione all’albo degli artigiani (art. 1, ult. comma), notoriamente utilizzata come comodo strumento di elusione della disciplina legale del lavoro a domicilio, la definizione della sfera di applicazione della legge (art. 1, I comma, e ivi il riferimento al «lavoro subordinato», inteso da buona parte della dottrina e della giurisprudenza come «tipicamente subordinato»), e l’applicazione della sola assistenza sanitaria ai lavoratori la cui occupazione a domicilio fosse «complementare o accessoria», erano tutti argomenti utilizzati dalla dottrina per ridurre l’ambito di applicazione della legge. V. per tutti G. Mazzoni, La tutela del lavoro a domicilio e il campo di applicazione della legge 13 marzo 1958, n. 264, in «Rivista di diritto del lavoro», 1958, I, pp. 306 seg.; e ora in Manuale di diritto del lavoro, cit., I, pp. 803 seg. Per un’interpretazione meno rigida della subordinazione a fini di applicazione della legge, v. A. d’Harmant François, voce Lavoro a domicilio, in Enciclopedia del diritto, XXIII, Milano, 1973, pp. 440 seg., che esclude tuttavia il lavoro occasionale o saltuario. Sosteneva al contrario che la legge n. 264/1958 avesse sancito una presunzione di subordinazione dei lavoratori a domicilio G. Petraccone, Il lavoro a domicilio e la nuova legge 13 marzo 1958, n. 264, per la sua disciplina, in «Rivista giuridica del lavoro», 1959, I, pp. 157 seg.
  40. Sul punto può farsi rinvio a Mariucci, op. cit., pp. 121-128.
  41. Con ordinanza 14 luglio 1977 (in «Foro italiano», 1978, II, c. 198), la Cass. pen. ha dichiarato non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 1,1 comma, L. n. 877/1973, nella parte in cui, nel testo approvato dal senato in commissione deliberante, diverso dal testo trasmesso dalla camera dei deputati, è stata sostituita la particella congiuntiva «e» a quella originaria «o», in riferimento agli artt. 70, 72, 73 cost. Spetta dunque alla corte costituzionale di decidere se la sostituzione è stata intenzionale o se è avvenuta per errore, e se l’errore (ove di errore si tratti) è rilevante o irrilevante
  42. Così Mariucci, op. cit., p. 107. Ritiene invece che la formula «mezzi propri e dello stesso imprenditore» abbia portata innovativa De Cristofaro, op. cit., p. 277; la proprietà non esclusiva dei mezzi di produzione avrebbe infatti incidenza sui margini di autonomia organizzativa del lavoratore a domicilio, in coerenza con l’ampliamento del concetto di subordinazione. Attribuisce un’immeritata importanza allo «scarso valore» del capitale (tale da non fare venir meno l’assoluta prevalenza del lavoro sul capitale nello svolgimento dell’attività commissionata a domicilio) anche F. Mazziotti, Contenuto ed effetti del contratto di lavoro, Napoli, 1974, p. 176.
  43. Cfr., per qualche osservazione sul punto, M. Napoli, Il decentramento produttivo, cit., pp. 73 seg. Sul ruolo delle piccole imprese nel decentramento produttivo, v. G. Brusco, Organizzazione del lavoro e decentramento produttivo nel settore metalmeccanico, in Sindacato e piccola impresa. Strategia del capitale e azione sindacale nel decentramento produttivo, a cura della F.L.M. di Bergamo, Bari, 1975, pp. 23 seg., e ivi importanti dati sulle strutture salariali e l’evasione contrattuale nelle imprese minori. Ammette l’autonomia tecnico-produttiva, ma sottolinea gli aspetti della dipendenza (commerciale e finanziaria) rispetto alle grandi imprese, L. Frey, Intervento, ivi, pp. 132 seg.
  44. M. De Cristofaro, op. cit., pp. 169 seg. Prendo in considerazione la tesi di De Cristofaro, perché nella sua elaborazione la «specialità», che tradizionalmente connota il rapporto di lavoro a domicilio, acquista significato di subordinazione speciale, in quanto effettivamente derogatoria rispetto alla subordinazione ordinaria. Mi pare che «specialità» abbia lo stesso significato derogatorio per Mazzoni, Manuale di diritto del lavoro, cit., I, pp. 815 seg., che infatti esclude l’applicabilità delle leggi n. 604/1966 e n. 300/1970 ai lavoratori a domicilio. Altri autori definiscono ancora «speciale» il rapporto di lavoro a domicilio, ma assegnano alla specialità il più limitato compito di designare la subordinazione (anche solo tecnico-funzionale) del lavoratore a domicilio e la sua inserzione solo mediata nell’organizzazione aziendale: così Riva Sanseverino, Diritto del lavoro, cit., pp. 72 seg.; Cipressi, La nuova nozione di lavoratore a domicilio, cit., pp. 178 seg., che parla di una nuova specialità del lavoro a domicilio. Dà una definizione ancora più attenuata della specialità del lavoro a domicilio O. Mazzotta, Diritto alla salute e decentramenti produttivi, in Tutela della salute e diritto privato, a cura di F. Busnelli e U. Breccia, Milano, 1978, pp. 179 seg., che attribuisce alla deroga dell’art. 2094 c.c. (art. 1, II comma, L. n. 877/1973) il significato di una norma di chiusura, volta ad impedire che il lavoro a domicilio possa essere qualificato come autonomo, e d’altra parte ritiene che il lavoro a domicilio debba essere tutelato né più né meno che come il lavoro subordinato «interno».
  45. L. Mariucci, op. cit., pp. 61 seg., con una ricostruzione della subordinazione (come alterità del prodotto e dell’organizzazione) che si discosta da quella proposta da Mazziotti, Contenuto ed effetti del contratto di lavoro,cit., pp. 49 seg., secondo cui l’alienazione del lavoro coincide con la subordinazione socioeconomica, ed è propria anche del lavoro autonomo. Balandi, op. cit., I, pp. 614 seg. ritiene che la subordinazione del lavoratore a domicilio sia subordinazione ordinaria, in virtù della presunzione assoluta di subordinazione, di cui all’art. 1, II comma, L. n. 877.
  46. In questa direzione mi pare vada il discorso di Mazzotta, loc. ult. cit.: a dimostrazione del fatto che continuare a definire speciale il rapporto di lavoro a domicilio non implica necessariamente creare distinzioni qualitative rispetto al rapporto di lavoro subordinato. Troppo indistinta invece la nozione di subordinazione costruita da Napoli, op. cit., p. 71,chie la ritiene idonea a «far considerare in termini di lavoro subordinato l’ipotesi in cui l’unità produttiva decentrata esegua lavorazioni inerenti il normale ciclo produttivo dell’impresa committente»: giusta le critiche di Mariucci, op. cit., pp. 100 seg.
  47. Cass. pen., 15 dicembre 1972, in «Foro italiano», Repertorio, 1973, Lavoro (rapporto), nn. 300-301; Cass. pen., 12 febbraio 1973, ivi, 1974, Lavoro (rapporto), n. 322: secondo la cassazione, nell’art. 2094 c.c. è compresa anche la subordinazione tecnica; pertanto l’art. 1 D.P.R. 16 dicembre 1959, n. 1289 (dove si precisava che la subordinazione del lavoratore a domicilio poteva essere anche solo tecnica), doveva ritenersi pienamente legittimo, non avendo introdotto nella materia un concetto nuovo e diverso rispetto a quanto previsto dalla legge n. 264/1958. Per la contraria opinione v. Mazzoni, Manuale di diritto del lavoro, cit., I, pp. 812 seg., secondo il quale la subordinazione tecnica non è vera subordinazione, come non è vera subordinazione la subordinazione economica.
  48. Sulle definizioni della subordinazione «tecnica», v. Balandi, op. cit.,I, pp. 595 seg, e ivi riferimenti. Un ampio riepilogo delle vicende interpretative e applicative della legge n. 264/1958 in G. Pellettieri, Il lavoro a domicilio, in Il diritto del lavoro nell’elaborazione giurisprudenziale, vol. XV, Novara, 1973, pp. 440 seg.
  49. La dottrina ha invece sostenuto che l’art. 1,1 e II comma, L. n. 877, ha dato una ridefinizione della subordinazione del lavoratore a domicilio come subordinazione solo tecnica: così Riva Sanseverino, Diritto del lavoro, cit., p. 72. Secondo Pera, Lezioni di diritto del lavoro, cit., p. 380, la nuova legge fotografa le caratteristiche reali del lavoro a domicilio: «la subordinazione c.d. tecnica emerge in sede definitoria, col vantaggio di sbarazzarsi della falsa e impossibile alternativa lavoro autonomo o subordinato». Anche E. Ghera, Diritto del lavoro, Bari, 1978, p. 252, ritiene che, con la formulazione dell’art. 1, II comma, il legislatore abbia voluto configurare un’ipotesi tipica di subordinazione tecnico-funzionale. Per questo, secondo l’a., «appare solo superfetazione tecnica, che dà esclusivamente esca a diatribe dottrinali, l’inciso (in verità non certo felice) contenuto nello stesso secondo comma: “in deroga a quanto stabilito dall’art. 2094 c.c.”». A proposito dell’ancora perdurante confusione tra subordinazione tecnica e subordinazione giuridica, merita di essere segnalata la sentenza Pret. Pistoia, 15 ottobre 1976, in «Giurisprudenza di merito», 1978,1, p. 824, con nota di C. Belfiore, Lavoro a domicilio e subordinazione. Secondo il pretore, il concetto di subordinazione, che caratterizza il lavoro a domicilio nella legge n. 877, ha sempre e comunque carattere economico ed eventualmente anche tecnico, ma non personale e giuridico: di conseguenza, in presenza dei requisiti, di cui al I comma, è riconducibile a tale concetto di subordinazione anche il lavoro autonomo.
  50. Secondo De Cristofaro, op. cit., pp. 173 seg., il lavoro a domicilio è lavoro nell’impresa (e come tale differenziato dal lavoro autonomo), ma separato dall’unità produttiva (cioè dall’azienda). «Per effetto della dislocazione, il lavoro a domicilio appare come un nucleo organizzativo a sé stante, comprensivo di entrambi i fattori della produzione» (ivi, p. 175).
  51. L. Mariucci, op. cit., p. 97.
  52. G. G. Balandi, op. cit., I, p. 620.
  53. Cosí Cass. pen., 1 aprile 1976, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1977, p. 418; Cass. pen., 2 marzo 1973, in «Foro italiano», Repertorio, 1974, Lavoro (rapporto), nn. 320-321.
  54. G. Pera, op. cit., p. 382; L. Mariucci, op. cit., p. 142.
  55. L. Mariucci, op. cit., p. 97. Per quanto mi riguarda, ho già avuto occasione di esprimere la mia opinione in proposito, in I licenziamenti, cit., p. 344 seg.; e in Nuove prospettive nel diritto del lavoro, in «Democrazia e diritto», 1975, pp. 105 seg.
  56. Così ancora L. Mariucci, loc. ult. cit.
  57. Gli indici della subordinazione sono elencati e discussi da Balandi, op. cit., I, pp. 595 seg., cui può farsi rinvio. Un esempio (aberrante) di disconoscimento della subordinazione dei lavoratori a domicilio a fini di applicazione della L. n. 264/1958 è la sent. Trib. Palermo, 27 luglio 1978, in «Foro italiano», 1978, I, c. 2883; secondo questi giudici non ricorre la subordinazione, quando l’ingerenza del datore di lavoro si limita al controllo sull’osservanza delle prescritte tecniche; ma, nella specie, i lavoratori a domicilio provvedevano alla confezione di capi di abbigliamento per conto di un sarto committente, dopo avere ritirato la stoffa già tagliata, attenendosi nella confezione alle prescrizioni ricevute e rispettando il minimo giornaliero pattuito. Il committente liquidava il compenso solo dopo avere effettuato il controllo sulla qualità dei capi confezionati a domicilio.
  58. Contra: P. Cipressi, La nuova nozione di lavoratore a domicilio, cit., pp. 179 seg., che ritiene il lavoro a domicilio occasionale escluso dalla protezione legale. Secondo il Pret. Carpi, 30 maggio 1977, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1977, p. 1085, per potere configurare il rapporto di lavoro a domicilio subordinato, di cui all’art. 1 L. n. 877, è necessario che il lavoratore si sia obbligato a svolgere un’attività sistematica e continuativa nei confronti del committente. La sentenza è commentata favorevolmente da G. Stufler, Qualificazione del lavoro a domicilio. Un contributo decisivo alla soluzione del problema da una sentenza del pretore di Carpi, ivi, pp. 1086 seg. Parzialmente conforme Pret. S. Caterina Villermosa, 20 dicembre 1976, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, IV, p. 79; il pretore ha ritenuto infatti sufficiente, per la sussistenza della subordinazione nel lavoro a domicilio, che la prestazione si svolga con carattere di regolarità, anche se intervallata da pause.
  59. L’uso che M. De Cristofaro, Il lavoro a domicilio, cit., pp. 193 seg., fa degli argomenti testuali (specialmente la «deroga» e la distinzione fra «ordini» e «istruzioni») è criticato da L. Mariucci, op. cit., p. 61, di cui condivido il giudizio.
  60. M. De Cristofaro, op. cit., p. 151.
  61. Di tali intenzioni si trova espressa conferma negli interventi di Tina Anselmi, Luciana Sgarbi, Maria Magnani Noya, nella tavola rotonda Dopo la legge sul lavoro a domicilio, in «Quaderni di rassegna sindacale», 1973, n. 44/45, Il lavoro a domicilio, pp. 6 seg.
  62. Sono numerosi i disegni e le proposte di legge presentati dalle varie forze politiche; domina tutti il tema delle discriminazioni, ispirato dalla legislazione antidiscriminatoria inglese e nord-americana. Solo il disegno di legge governativo (la cui responsabilità va a Tina Anselmi, allora ministro del lavoro) si caratterizza per la delimitazione del suo ambito alla parità in materia di lavoro. I disegni e le proposte di legge sono stati raccolti e commentati da F. Albisinni, Verso una legge italiana per l’effettiva eguaglianza fra i sessi, in «Rivista giuridica del lavoro», quad. n. 1, luglio 1977, Questione femminile e legislazione sociale, pp. 103 seg.; le leggi inglesi, statunitensi e francesi sono riportate da T. Treu, Lavoro femminile e uguaglianza,cit., appendice 2, pp. 198 seg. Per un aggiornamento del dibattito in Francia, v. il numero speciale di «Droit social», gennaio 1976, Lesfemmes et le droit social, e ivi specialmente i contributi di E. Sullerot, J.M. Combette, M. Devaud, pp. 20 seg.
  63. Prima dell’entrata in vigore della legge n. 903/1977 molte questioni erano ancora aperte nel pubblico impiego; per qualche ragguaglio v. A. Saracina, La donna nel pubblico impiego, in La donna e il diritto, cit., pp. 147 seg.
  64. È questa la strada imboccata dal disegno di legge governativo e poi dalla L. 9 dicembre 1977, n. 903, sia pure con le cautele di cui parlerò più avanti. Infra, VI.
  65. Le leggi emanate nel dopoguerra riportano, per quanto riguarda il trattamento delle lavoratrici, pressoché integralmente le disposizioni risalenti al periodo fascista. Ricostruisce accuratamente la situazione legislativa T. Tranquillo, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903. Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., sub artt. 9, 10, 11, 12, pp. 813 seg., cui può farsi rinvio.
  66. G. Pera, La condizione della donna lavoratrice, cit., c. 67; l’a. riformula, come ragionamento giuridico, una concezione molto diffusa sulla divisione dei ruoli maschile e femminile nella famiglia e nella vita sociale.
  67. L’espressione è di G. Pera. loc. ult. cit.
  68. Corte cost., 11 luglio 1969, n. 123, in «Foro italiano», 1969, I, c. 1626; qualche osservazione critica sulla sentenza è formulata da E. Grassi, Collocamento a riposo ed art. 37 cost.: un problema ancora aperto, in «Giurisprudenza costituzionale», 1970, pp. 1701 ss. La corte costituzionale (15 luglio 1969, n. 137) ha affrontato il problema del pensionamento anticipato anche sotto il profilo della diversa valorizzazione percentuale dei contributi assicurativi versati ai fini della misura della pensione spettante alle donne; la soluzione è stata negativa, come nel primo caso.
  69. L’anticipato pensionamento delle donne si rivela, inoltre, utile, poiché consente il riciclaggio della lavoratrice anziana in funzione di asilo nido (gratuito) per i nipoti; di assistenza, gratuita e domiciliare ai vecchi, ecc. Tutte cose che fanno risparmiare allo stato e agli enti locali parte dei fondi necessari a impiantare e far funzionare questi servizi sociali.
  70. A proposito dell’art. 2 L. 4 aprile 1952 (che modifica l’art. 9 R.D.L. n. 636/1939) il relatore di maggioranza aveva affermato che, nella fissazione del limite di età per il collocamento a riposo, si era tenuto conto della situazione economico-sociale del paese, influenzata dalla permanenza di una forte disoccupazione; lo scopo era quello di ridurre il numero dei lavoratori già occupati, a favore delle nuove leve giovanili. Sottolinea giustamente la funzione della norma sul pensionamento anticipato G. Cottrau, La tutela della donna lavoratrice, cit., p. 173.
  71. V. Kart. 4 L. 9 dicembre 1977, n. 903, e il commento di S. Sciarra, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903. Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., sub art. 4, pp. 802 seg. L’art. 4 della legge n. 903 crea un’indubbia situazione di vantaggio per la lavoratrice, che può scegliere se continuare o meno a prestare la propria opera oltre il 55° e fino al 60° anno di età (o fino ad un’età intermedia, se crede). Qualcuno ha già dubitato della costituzionalità della norma, che non offre agli uomini le chances che offre invece alle donne: così C. Filadoro (a cura di), Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, Milano, 1978, p. 23. Le ragioni per cui la questione di costituzionalità mi pare del tutto infondata le ho spiegate nel testo.
  72. V. le ordinanze: Pret. Milano, 3 dicembre 1977, in «Rivista giuridica del lavoro», 1978, II, p. 1012; Pret. Genova, 18 novembre 1977, e Pret. Bologna, 21 ottobre 1977, ivi, 1978, II, pp. 13 seg.; Pret. Voltri, 1° settembre 1977; Pret. Napoli Barra, 30 maggio 1977; Pret. Pavia, 14 marzo 1977; Pret. Milano, 17 dicembre 1976, ivi, 1977, II, pp. 639 seg. Di contrario avviso la Cass., 8 gennaio 1977, n. 58, ivi, p. 639. Le ordinanze cit. dei pretori di Pavia, Voltri, Bologna, pongono il problema della possibilità di emanare il provvedimento d’urgenza contestualmente all’ordinanza di rimessione alla corte costituzionale: v., in proposito, S. Vacirca, “Licenziamento anticipato” della donna, questione di costituzionalità e provvedimento ex art. 700 c.p.c., ivi, 1977, II, pp. 652 seg.
  73. Per il commento a queste norme v. T. Tranquillo, loc. ult. cit.
  74. Il lavoro dei fanciulli è stato regolato con la legge n. 977/1967, e relativo regolamento di esecuzione (D.P.R. 20 gennaio 1976, n. 432). La legge introduce (ma meglio conferma le passate) diseguaglianze nel trattamento delle donne, quali: la superiore età (18 anni) per il divieto di adibizione a lavori pesanti, pericolosi e insalubri e, inoltre, i lavori di pulizia e servizio dei motori; diversi livelli di età nel trasporto e sollevamento dei pesi. Tali diseguaglianze, già segnalate da C. Assanti, La disciplina del lavoro femminile,cit., p. 28, sono state eliminate dalla legge n. 903/1977: ad avviso del ministero del lavoro, circolare n. 92/78 del 29 dicembre 1978, in «Rivista giuridica del lavoro», 1978,1, pp. 933 seg., tutte le citate disposizioni della legge sul lavoro dei fanciulli devono ritenersi applicabili fino a sedici anni di età per i giovani di ambo i sessi. Secondo l’interpretazione ministeriale, l’eguagliamento avviene a vantaggio delle adolescenti, fino ad ora discriminate in base al sesso. Trattandosi però di norme che, secondo lo stesso ministero, sono dettate a tutela dello sviluppo fisico e psichico dei giovani, c’è da chiedersi se il risultato sia effettivamente vantaggioso, per la salute delle giovani lavoratrici.
  75. Come ho ricordato (retro, IV, par. 4) qualche dubbio solleva G. Pera, La condizione della donna lavoratrice, cit., che ritiene eccessivamente drastico il rimedio adottato dal legislatore.
  76. R. Bortone, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903. Parità di trattamento ira uomini e donne in materia di lavoro, cit., sub art. 7, p. 811.
  77. C. Assanti, I principi costituzionali per la tutela del lavoro femminile e minorile, cit., pp. 365 seg.; l’a. critica la tendenza della legislazione a considerare unitariamente il lavoro femminile e quello minorile, e ad imporre limitazioni di attività alle donne.
  78. G. Pera, op. ult. cit., aveva sostenuto cose analoghe a quelle dette più recentemente da T. Treu, Lavoro femminile e uguaglianza, cit., pp. 91 seg. Qualche accenno anche in G. Cottrau, op. cit., p. 124, che esclude il carattere discriminatorio delle norme limitative del lavoro femminile solo quando rispondano ad esigenze di carattere fisiologico della donna.
  79. T. Treu, loc. ult. cit. La tesi è condivisa da F. Padoa Schioppa, La forza lavoro femminile, cit.; la dimostrazione fornita da questa a. mi pare eccepibile almeno sotto il profilo dell’ipervalutazione della tutela legislativa del lavoro femminile.
  80. A mio avviso, l’intervento di maggior rilievo fino al 1971 è la legge del 1963 sui licenziamenti per causa di matrimonio. Si tratta di un provvedimento diretto a reprimere abusi che i mutamenti intervenuti nel quadro politico e nell’organizzazione sociale dei primi anni sessanta avevano reso intollerabili. Tuttavia la legge è stata emanata quando i problemi dell’occupazione femminile erano divenuti piuttosto che problemi di selezione, problemi di espulsione.
  81. Retro, IV, par. 2; v. anche F. Padoa Schioppa, La forza lavoro femminile, cit., pp. 27 seg. a proposito della tesi di M. De Cecco.
  82. Sono infatti noti gli studi sull’andamento dell’occupazione femminile e, in particolare, sull’emarginazione che ha colpito le donne a partire dal 1963. Oltre ai già cit. lavori di M. Paci, G. Mottura, E. Pugliese, L. Frey, v. C. D’Apice, Mercato del lavoro e occupazione fra congiuntura e crisi. La flessione dei tassi di attività, cit., pp. 55 seg. V. anche in «Inchiesta», i nn. 25 del 1977, e 32, 34 del 1978: ivi interessanti ricerche sul mercato del lavoro e sul doppio lavoro (o doppia presenza) femminili.
  83. G. Mottura e E. Pugliese, Agricoltura, mezzogiorno e mercato del lavoro, cit., pp. 256 seg.
  84. G. Mottura e E. Pugliese, loc. ult. cit. Gli aa. sottolineano come il lavoro a domicilio e il lavoro nero costituiscano uno dei modi in cui viene recuperata e reinserita nell’esercito operaio attivo parte della forza lavoro messa in soprannumero; un modo vantaggioso per i capitalisti, perché consente l’utilizzazione flessibile della forza lavoro (con conseguente basso costo). Secondo le stime di L. Frey, Analisi economica della sottoccupazione femminile in Italia, cit., pp. 12 seg., alla caduta ufficiale del saggio di attività femminile avrebbe corrisposto, nella realtà dei diversi settori, un costante aumento dell’offerta (cioè del saggio di attività), che si è però in larghissima misura tradotto in una crescita costante della sottoccupazione.
  85. Op. cit., pp. 256 seg.
  86. Mettono particolarmente in evidenza questo aspetto ideologico nell’espulsione della manodopera femminile G. Mottura e E. Pugliese, loc. ult. cit. Per il dibattito fra i giuristi, retro, IV, par. 2.
  87. G. Mottura e E. Pugliese, op. cit., p. 318.
  88. Differenziali salariali, flessibilità del lavoro e occupazione femminile, in AA. VV., Occupazione e sottoccupazione femminile in Italia, cit., pp. 129 seg.
  89. R. Livraghi, op. cit., p. 145.
  90. Come già risultava dall’analisi di G. Ricoveri, Mercato del lavoro e occupazione tra congiuntura e crisi. Le conseguenze della ristrutturazione, in «Quaderni di rassegna sindacale», 1975, n. 54/55, Donna, società, sindacato, pp. 62 seg.
  91. Obbiezioni, senz’altro giuste, si muovevano alla legge del 1934, giudicata inidonea a tutelare la salute delle lavoratrici. È tuttavia necessario ricordare che le inchieste svolte, anche recentemente, sulle condizioni di lavoro delle donne, hanno messo in rilievo resistenza di aspetti particolari della patologia professionale che riguardano specificamente le lavoratrici, e che sono legati all’ambiente di lavoro nel suo complesso, ma anche a singoli fattori nocivi e, in generale, alla condizione di lavoro delle donne, «fatta di miseria, di sfruttamento, di abbrutimento, di relegazione di fatto a un ruolo subalterno e condizionato»: F. D’Ambrosio e M. A. Buscaglia, Ambiente di lavoro e condizione femminile, in «Quaderni di rassegna sindacale», 1975, n. 54/55, Donna, società, sindacato, pp. 94 seg.; v. anche C.G.I.L.-C.I.S.L.-U.I.L., federazione provinciale di Milano, Per la salute delle lavoratrici, Milano, 1975.