Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c5
Invece, è dubbio se queste giuste osservazioni
valgano come critica interna alla legge n. 1204. Ad una analisi men che approfondita le
obiezioni rivelano di essere dirette non tanto alla legge, quanto all’insieme della
politica legislativa sul lavoro femminile. Se le critiche avessero come unico e reale
obbiettivo la legge n. 1204, non avrebbero infatti gran
¶{p. 185} peso.
In primo luogo, perché sarebbe facile replicare che il legislatore non avrebbe potuto
non tenere conto ‒ nel tutelare le lavoratrici madri ‒ della realtà dei rapporti sociali
e familiari e delle esigenze che, in queste condizioni, la maternità pone alla donna
occupata nel lavoro extra-domestico; disconoscere tutto ciò avrebbe significato rendere
ancor più gravoso il doppio ruolo che le donne (e soprattutto le madri)
indiscutibilmente svolgono. In secondo luogo, perché ci sarebbe da chiedersi se la
promozione del rinnovamento (dell’emancipazione) sarebbe dovuta (o potuta) passare
attraverso la legge sulle lavoratrici madri.
A me pare che la tutela delle lavoratrici madri
non possa essere che un provvedimento settoriale, poiché interviene prevalentemente nel
rapporto (privatistico) fra datore di lavoro e lavoratrice, in occasione della maternità
di quest’ultima, e vi interviene con finalità di restrizione dei poteri del datore di
lavoro (o di introduzione di rigidità nell’uso della manodopera femminile). Al di là
dell’introduzione di qualche norma, diretta a promuovere una nuova parità uomo-donna di
fronte ai compiti familiari, non riterrei opportuno assegnare alla legge sulle
lavoratrici madri altro compito che non sia la garanzia della stabilità nel posto di
lavoro (sorretta da quell’apparato di prescrizioni limitative e assistenziali, che
rendono effettiva la stabilità).
Le garanzie per le donne (per tutte le donne) del
diritto al lavoro (che è anche possibilità di riprendere la propria attività
extradomestica dopo la maternità, e di continuare a svolgere il lavoro in condizioni di
parità con l’uomo) devono risiedere al di fuori della legge di tutela; a questa è
opportuno conservare il valore di protezione specifica, in funzione del ristabilimento
di condizioni di eguaglianza menomate di fatto dalle esigenze fisiche, psichiche ed
economiche, che la maternità fa sorgere. Del resto, ciò che consente di dare (o non
dare) alla legge sulle lavoratrici madri il significato di una tutela, che non si
esaurisca nella mera protezione della donna dal lavoro (a vantaggio della famiglia), è
la presenza (o la assenza) di un tessuto connettivo di riforme, che abbiano ad oggetto,
insieme, lo sviluppo dell’occupazione femminile ed il valore sociale della maternità,
nelle quali la legge di¶{p. 186} tutela della maternità possa
organicamente inserirsi.
2. La legge 18 dicembre 1973, n. 877: protezione delle lavoratrici e disincentivazione del lavoro a domicilio.
La legge n. 1204/1971 per la tutela delle
lavoratrici madri ha segnato il primo, ma fondamentale, passo sulla strada della
revisione della politica legislativa verso il lavoro femminile. Espressione di un
intento, che potremmo sinteticamente definire «garantista», la legge ha subito ‒ come ho
segnalato (retro, par. 1) ‒ delle modifiche che ne hanno aggiornato
i contenuti all’orientamento antidiscriminatorio proprio della più recente legislazione
sul lavoro delle donne. Ma si tratta di qualche ritocco. Malgrado il significato
riduttivo di talune disposizioni del regolamento di esecuzione
[24]
, la legge n. 1204/1971 mantiene nella sostanza intatto il suo originario
carattere protettivo: intendendo per «protezione», questa volta, l’allargamento dei
diritti fondamentali delle lavoratrici madri (stabilità nel posto di lavoro, mansioni
adeguate, riposi, assenze) e la contestuale limitazione dei poteri del datore di
lavoro.
Della stessa volontà di riforma, che, a partire
dall’emanazione dello statuto dei lavoratori, caratterizza tutta la legislazione sul
lavoro dei primi anni settanta, è espressione la legge 18 dicembre 1973, n. 877, sul
lavoro a domicilio. Nata sulle ceneri della legge 13 marzo 1958, n. 264, rimasta
ingloriosamente e inutilmente in vigore per quindici anni, la nuova legge rappresenta il
primo serio tentativo di disciplinare il fenomeno del decentramento produttivo,
cresciuto in modo abnorme a partire dalle ristrutturazioni industriali della
«congiuntura»
[25]
. La legge n. 877/1973, che investe con una normativa rigorosa la realtà,
spesso drammatica e per lo più oscura, del lavoro a domicilio, non riguarda
specificamente il lavoro femminile; tuttavia è anche una legge sul lavoro delle donne,
che sono la parte maggiore dei suoi destinatari: si stima infatti che siano a tutt’oggi
più di un milione le donne che trovano nel lavoro a domicilio protetto, ma specialmente
«nero», l’unica forma di occupazione (rectius,
sottoccu¶{p. 187}pazione) possibile
[26]
.
È questa «femminilizzazione» del lavoro a
domicilio la ragione per cui mi occupo, in questa sede, della legge n. 877/1973: non per
descrivere le sue norme, o per fornire soluzioni interpretative ai molti problemi che
l’applicazione di queste norme pone; coll’intento, invece, di verificare la coerenza
della legge sul lavoro a domicilio rispetto a quella strategia di intervento protettivo
sul lavoro femminile, che bene si esprime nella legge del 1971 sulle lavoratrici
madri.
Tutto il discorso sulla legge n. 877/1973
potrebbe anche esaurirsi in una sola osservazione: la riforma è rimasta nelle
intenzioni, perché la legge, pochissimo applicata, non è riuscita né a modificare le
condizioni di lavoro, né a ridurre il numero delle donne coinvolte nel lavoro a
domicilio. Eppure è necessario non fermarsi a questa scoraggiante constatazione. Se,
malgrado l’esistenza della legge, l’intervento sul lavoro a domicilio, come ultimo
anello della catena del decentramento produttivo, continua ad essere questione
squisitamente politica (di politica economica e di politica sindacale insieme), il
concreto funzionamento della legge, come strumento di «protezione» dei lavoratori, è
anche problema tecnico che spetta ai giuristi, e specialmente a chi si occupa del lavoro
femminile, risolvere.
La legge n. 877/1973 è, secondo la terminologia
tradizionale, una legge speciale: nel senso che dà al lavoro a domicilio una disciplina
particolare, e dunque separata da quella generale del lavoro subordinato nell’impresa. I
contenuti della legge possono essere schematicamente ridotti a tre nuclei normativi: un
primo gruppo di norme regola le condizioni di lavoro degli addetti e pone limiti all’uso
del lavoro a domicilio (artt. 1, 2, 8, 9, 10, 11); un secondo gruppo di norme predispone
gli strumenti e le strutture di controllo sul lavoro a domicilio, cioè sulle imprese
decentranti e sui lavoratori (artt. 3, 4, 5, 6, 7, 12); un terzo gruppo, infine, detta
le sanzioni per la violazione della legge (art. 13)
[27]
.
Come ho accennato, all’interno del primo gruppo
(l’unico che mi interessa in questa sede) si possono distinguere le norme che regolano
le condizioni di lavoro degli occupati nel lavoro a domicilio dalle norme che limitano,
per le im¶{p. 188}prese, la libertà di fare ricorso a questa forma di
decentramento produttivo. Le prime sono dirette a realizzare (mediante la definizione di
subordinazione, di cui parlerò tra un momento) la massima possibile parità di
trattamento economico e normativo fra lavoratori «esterni» (cioè a domicilio) e
lavoratori interni all’impresa, estendendo a quelli le garanzie legali e contrattuali
che assistono questi. Tali norme hanno essenzialmente la funzione di ricomporre l’unità
giuridica del lavoro subordinato e di disincentivare il lavoro a domicilio, aumentandone
i costi e diminuendone la naturale flessibilità. La stessa logica sorregge le norme che
limitano la libertà delle imprese di decentrare il lavoro a domicilio: per quanto,
questa volta, non si tratti di disincentivazioni ma di divieti.
È del tutto evidente che sia l’applicazione delle
norme che regolano le condizioni di lavoro dei lavoratori a domicilio e, insieme, la
parità di trattamento, sia il rispetto dei divieti dipendono dal funzionamento delle
strutture di controllo, e, di conseguenza, dal sistema sanzionatorio. Ora, a giudicare
dai dati relativi alle iscrizioni nei registri previsti dalla legge
[28]
, il controllo non ha funzionato. Ma non è questo il solo problema: se si
guarda alle controversie (non molte) che sono finite davanti ai giudici, ci si rende
conto che le uniche questioni a porsi concretamente sono state quelle della clamorosa
violazione della legge, o meglio dell’elusione completa di essa.
La scarsa rilevanza, nella pratica giudiziaria,
delle questioni che attengono alla realizzazione della parità di trattamento ed
all’estensione ai lavoratori a domicilio delle garanzie proprie dei lavoratori
subordinati occupati all’interno delle imprese, non implica che tali questioni non
possano o non debbano presentarsi. Vuole solo dire che per i lavoratori a domicilio si
pongono ancora oggi problemi di più grave, elementare ed immediata tutela; ovvero che il
garantismo meno elementare (poggiato com’è sulla vigilanza e sull’azione dei sindacati)
pretende una normalità di relazioni industriali civili e avanzate, alla quale resta
estranea, nel nostro paese, la realtà sommersa del decentramento produttivo.
L’indifferenza, non voluta ma oggettivamente
esistente,¶{p. 189} verso l’estensione al lavoro a domicilio delle
garanzie fondamentali (si pensi allo statuto dei lavoratori)
[29]
, è dunque l’ennesima spia delle gravi storture, cui dà
luogo il dualismo del sistema produttivo. Peraltro, il fatto che dalle regole che
governano le relazioni industriali sia per buona parte tagliato fuori il lavoro
decentrato rende equivoca ogni contrapposizione fra rigidità e mobilità della forza
lavoro: almeno ove si ometta di dire che dietro i lavoratori protetti dalle leggi e
dalla sempre più estesa e capillare contrattazione collettiva sta un esercito
industriale di riserva, un serbatoio di flessibilità entro cui penetrano a stento le
norme elementari di tutela contro gli eccessi dello sfruttamento, ma non le moderne
regole del gioco industriale
[30]
.
Queste affermazioni sembreranno eccessivamente
drastiche ai molti interpreti (e talvolta apologeti) della contrattazione collettiva di
questi anni. Mi pare tuttavia necessario sottolineare che i significativi risultati
contrattuali ottenuti sul piano aziendale, quando è stata ricostruita l’unità negoziale
tra lavoratori occupati nelle aziende e lavoratori decentrati, hanno il limite
dell’ancora modesta portata quantitativa del lavoro a domicilio
ufficiale.
Il rilievo, che altri ha già fatto
[31]
, non vale a negare l’importanza delle cosiddette parti politiche dei
contratti collettivi nazionali di lavoro (e particolarmente dei contratti dei tessili,
dell’abbigliamento e delle calzature del 1976), le quali parti estendono sul
decentramento della produzione il controllo e l’intervento sindacale
[32]
.
Se mai, la riflessione sulla contrattazione del
decentramento serve a mettere in evidenza che, fra la strategia implicita nelle parti
politiche dei contratti collettivi e la logica sottesa all’intervento protettivo sul
lavoro a domicilio, possono crearsi delle contraddizioni.
Come è noto, le clausole contrattuali per il
controllo del decentramento produttivo mettono in discussione la libertà delle imprese
di fare ricorso al lavoro esterno in generale, e a domicilio in particolare, imponendo
agli imprenditori, che «commettono» parte della produzione fuori della fabbrica, gli
obblighi di informare i sindacati e di applicare il contratto collettivo ai lavoratori
esterni. Tali clausole sviluppano e arricchiscono di contenuti scelte già operate dalla
legge n.
¶{p. 190} 877/1973: una legge a sua volta derivata, in gran
parte, dal contratto dei tessili di qualche mese precedente
[33]
.
Note
[24] Oltre le disposizioni segnalate retro, par. 1, deve essere menzionato l’art. 10 D.P.R. n. 1026/1976; il regolamento prevede che la distribuzione nell’orario di lavoro dei riposi c.d. per allattamento (di cui all’art. 10 della L. n. 1204/1971) sia concordata fra datore di lavoro e lavoratrice «tenendo conto anche delle esigenze del servizio». Tale previsione mal si concilia con la funzione dei riposi, concessi alla lavoratrice madre perché possa provvedere alle esigenze del neonato; esigenze, la cui scadenza non può essere subordinata ai ritmi dell’organizzazione del lavoro.
[25] La bibliografia sulla legge n. 264/1958 è vasta. Più oltre farò riferimento alle opere di maggiore rilievo scientifico. Sulla L. n. 877/1973, oltre le recenti monografie di M. De Cristofaro, Il lavoro a domicilio, Padova, 1978, e L. Mariucci, Il lavoro decentrato. Discipline legislative e contrattuali, Milano, 1979, v.: A. Culotta e C. Filadoro, Il lavoro a domicilio, Milano, 1977; G. Mannacio e G. Marzorati, Il lavoro a domicilio (legge 18 dicembre 1973, n. 877), Milano, 1974; G. G. Balandi, La vecchia e la nuova legge sul lavoro a domicilio, in «Rivista giuridica del lavoro», 1975,1, pp. 581 seg., e 1976, I, pp. 17 seg.; P. Cipressi, La nuova nozione di lavoratore a domicilio, in «Il diritto del lavoro», 1974, I, pp. 168 seg.; L. Ficari, Le nuove norme per la tutela del lavoro a domicilio, ivi, 1974, I, pp. 241 seg.; G. Mazzoni, Manuale di diritto del lavoro, cit., pp. 815 seg.; M. Napoli, Il decentramento produttivo alla luce della nuova legge sul lavoro a domicilio, in « Prospettiva sindacale», n. 14, 1974, pp. 65 seg.; G. Pera, Sulla tutela dei lavoratori a domicilio, in «Foro italiano», 1973, V, cc. 116 seg.; Id., Lezioni di diritto del lavoro, cit., pp. 376 seg.; L. Riva Sanseverino, Diritto del lavoro, cit., pp. 71 seg. Un ampio panorama del dibattito politico e sindacale sulla nuova legge è in «Quaderni di rassegna sindacale», 1973, n. 44/45, Il lavoro a domicilio, e ivi un’accurata bibliografia
[26] Cfr. F. Padoa Schioppa, La forza lavoro femminile, cit., pp. 105 seg.; L. Frey, Analisi economica della sottoccupazione femminile in Italia, in Occupazione e sottoccupazione femminile in Italia, cit., pp. 22 seg.
[27] Per un’analisi approfondita delle singole parti di cui si compone la legge n. 877/1973, v. Mariucci, Il lavoro decentrato, cit.
[28] V. ancora Padoa Schioppa, op. cit., pp. 105 seg.
[29] L’unico autore che dedica attenzione, e qualche pagina, al problema è Mariucci, Il lavoro decentrato, cit., pp. 142 seg. Cenni in Balandi, La vecchia e la nuova legge sul lavoro a domicilio, cit., I, pp. 611 seg., e in F. Mazzetti, Diritto del lavoro, Napoli, 1976, pp. 149 seg.
[30] Un esempio delle ancora attuali condizioni di supersfruttamento dei lavoratori a domicilio ci viene dall’indagine condotta da C. De Marco e M. Talamo, Lavoro nero. Decentramento produttivo e lavoro a domicilio, Milano, 1976, su Napoli e la Campania. V. anche Aa. Vv., Il lavoro a domicilio. Il caso dell’Umbria, Bari, 1975. L’iniziativa sindacale è ancora carente, specie nell’Italia meridionale, e la contrattazione collettiva investe fasce ancora ristrette di lavoro a domicilio, buona parte del quale è ancora «nero».
[31] L. Mariucci, Il lavoro decentrato, cit., pp. 224 seg.
[32] Su cui v. U. Carabelli, Struttura sindacale ed evoluzione della contrattazione collettiva nell’industria tessile, in B. Veneziani (a cura di), La contrattazione collettiva in Italia. 1945-1977, Bari, 1978, pp. 149 seg.; L. Mariucci, op. cit., pp. 234 seg.
[33] Cfr. A. Molinari, L’iniziativa contrattuale e legislativa sul lavoro a domicilio dal dopoguerra a oggi, in «Quaderni di rassegna sindacale», 1973, n. 44/45, cit., pp. 67 seg.