Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c5
Ridefinendo la subordinazione del lavoratore a
domicilio ‒ in deroga all’art. 2094 c.c. ‒, il legislatore è stato sicuramente mosso
dalla buona intenzione di risolvere un’altra vecchia questione: quella sollevata in
passato dalla «subordinazione anche solo tecnica», con cui il D.P.R. 16 dicembre 1959,
n. 1289, aveva tentato di dare corpo ad una volontà, di
¶{p. 195}
definire subordinato il lavoro a domicilio, malamente espressa dalla legge n. 264/1958.
Dopo lunghi contrasti, la cassazione aveva finalmente affermato che la subordinazione
«tecnica» non era una nuova e autonoma definizione della speciale subordinazione del
lavoratore a domicilio, ma era invece un aspetto della subordinazione, di cui all’art.
2094 c.c., in essa ricompreso
[47]
. Secondo l’orientamento alla fine prevalso, la subordinazione (tecnica) del
lavoratore a domicilio era dunque una species (o categoria affievolita) del genus
subordinazione giuridica, definita dall’art. 2094 c.c. come caratteristica del lavoro
nell’impresa
[48]
. Ne risultava accentuata la specialità del lavoro a domicilio subordinato:
rispetto alla specialità di cui all’art. 2128 c.c., la definizione si era arricchita dal
dato della subordinazione; ma questa subordinazione speciale e attenuata continuava a
giustificare disparità di trattamento e sottoprotezione.
Colla buona intenzione di risolvere ogni
possibile equivoco, la legge n. 877 non contrappone più subordinazione giuridica e
subordinazione tecnica. Afferma invece che il lavoro a domicilio (colle esclusioni di
cui al 1° e 3°comma, art. 1) deve essere in ogni caso qualificato come subordinato
(pienamente, cioè giuridicamente, secondo la vecchia terminologia): malgrado che, in
ragione del luogo dell’adempimento, delle modalità di esecuzione della prestazione,
della precarietà del lavoro, obblighi e doveri del prestatore di lavoro non
corrispondano sempre ed esattamente a quelli delineati dall’art. 2094 c.c.
[49]
.
Questo mi pare, riassuntivamente, il senso della
ridefinizione della subordinazione nel lavoro a domicilio, in deroga all’art. 2094. Ma,
poiché sulla deroga molto si è scritto e argomentato, vale la pena di fare qualche
precisazione ulteriore, svolgendo il coordinamento del 2° comma, art. 1, della legge n.
877 con altre norme, interne ed esterne alla legge.
Deve anzitutto essere sottolineata la connessione
tra l’art. 1 (1° e 2°comma) e l’art. 11: dalla lettura congiunta di queste, che possono
essere considerate più parti di una stessa norma, emerge una definizione della
subordinazione articolata nei vari aspetti di cui essa si compone, secondo il modello
disegnato dal codice civile. Nei commi 1° e 2°dell’art. 1, il¶{p. 196}
lavoratore a domicilio è definito subordinato perché la sua prestazione, pure eseguita
in un luogo di cui l’imprenditore non ha la disponibilità, si inserisce organicamente
nell’attività organizzata dall’imprenditore committente
[50]
. La legge infatti, con qualche insistenza, precisa che la prestazione
consiste nell’eseguire la lavorazione di prodotti oggetto dell’attività
dell’imprenditore, per conto del quale il lavoratore a domicilio esegue lavoro
retribuito.
Primo momento della nuova definizione della
subordinazione (giuridica) nel lavoro a domicilio è dunque quella alienità del prodotto
e dell’organizzazione del lavoro, che è certamente, come ha scritto Mariucci
[51]
, un dato comune a tutto il lavoro subordinato. L’alienità giustifica
l’assimilazione, operata dal legislatore, fra lavoro a domicilio e lavoro subordinato
ordinario: una assimilazione prescritta, non per presunta identità
[52]
, ma per constatata identità di un carattere proprio (e sostanziale) del
lavoro subordinato.
Ciò premesso, la ridefinizione della
subordinazione del lavoratore a domicilio procede oltre (art. 1, 2° comma), col
riferimento alle caratteristiche soggezioni del lavoratore subordinato nell’impresa:
cioè l’assoggettamento ai poteri direttivo e di controllo dell’imprenditore. In questo,
che è il secondo momento della ridefinizione, la legge n. 877 marca le differenze
(segnalate dalla deroga dell’art. 2094) fra lavoro a domicilio e lavoro subordinato
ordinario; ma si preoccupa di sottolineare che la nuova definizione della subordinazione
(per il lavoro a domicilio) entra sempre nel quadro della subordinazione definita dal
codice civile. Così la legge n. 877 precisa che l’assoggettamento al potere direttivo
sussiste nel lavoro a domicilio, e non è attenuato, ma ha la caratteristica di
concentrarsi in alcuni momenti (normalmente precedenti l’esecuzione della prestazione:
sono le direttive e le istruzioni di cui agli artt. 1, 2° comma, e 11, 1° comma),
anziché essere «diffuso », come abitualmente avviene nel lavoro che si svolge nei locali
di pertinenza dell’imprenditore. Discorso analogo vale per l’assoggettamento del
lavoratore a domicilio al potere di controllo, che sussiste, ma si concentra ‒ di regola
‒ nel momento della verifica sulla conformità alle istruzioni dell’imprenditore, e si
realizza ‒ di regola ‒ all’atto della¶{p. 197} riconsegna del lavoro
eseguito
[53]
.
La definizione si chiude con un richiamo ancora
al modello di subordinazione del codice civile, dai più giudicato superfluo
[54]
. L’art. 11, legge n. 877, riformula per il lavoro a domicilio gli obblighi
di diligenza e fedeltà propri del prestatore di lavoro subordinato (artt. 2104 e 2105
c.c., che ampliano e chiarificano l’enunciato dell’art. 2094). Diligenza e fedeltà
obbligano il lavoratore a domicilio, come ogni lavoratore subordinato. L’unica
differenza di rilievo concerne l’obbligo di non concorrenza, che subisce un’attenuazione
motivata dalla strutturale flessibilità, o precarietà, del lavoro a domicilio. Il
lavoratore a domicilio è infatti tenuto al pieno rispetto dell’obbligo di non
concorrenza, solo quando l’imprenditore gli assicuri un’occupazione piena e
continuativa: vale a dire quando il lavoro a domicilio si svolge in condizioni di
relativa stabilità.
Un’analisi non viziata da preconcetti della nuova
definizione della subordinazione del lavoratore a domicilio consente di pervenire al
risultato di qualificare il lavoro a domicilio come rapporto di lavoro subordinato
ordinario (e non speciale). E tuttavia un’altra precisazione merita di essere fatta.
Premetto che condivido l’opinione secondo cui la nozione di subordinazione ha subito una
serie tale di modificazioni ed erosioni, da perdere gran parte della sua tradizionale
funzione discretiva
[55]
. Se così non fosse, il legislatore del 1973 avrebbe incontrato maggiori
difficoltà ad inquadrare il lavoro a domicilio nella categoria del lavoro subordinato.
Ma, se è corretto dire che la nozione di subordinazione si riduce ormai a pochi tratti
essenziali, non è ugualmente corretto dire che, usando l’espressione «in deroga», e
malgrado la confusione terminologica, il legislatore abbia inteso affermare che nel
lavoro a domicilio è presente l’essenza del vincolo di subordinazione
[56]
. A me pare che le parole abbiano un senso, e che la legge n. 877,
menzionando l’art. 2094, abbia tenuto presente non i più recenti risultati raggiunti
dalla dottrina lavoristica, quanto piuttosto le interpretazioni utilizzate in passato
per escludere la subordinazione del lavoratore a domicilio, cioè il complesso degli
indici della subordinazione giuridica, che fatalmente non potevano essere
ri¶{p. 198}scontrati nel lavoro a domicilio, pure sostanzialmente
subordinato
[57]
.
A quelle interpretazioni il legislatore si è
preoccupato di «derogare»: e perciò ha prescritto che l’assenza di alcuni dei
tradizionali indici o requisiti della subordinazione (costruiti dalla dottrina) non
escluda più la qualificazione del lavoro a domicilio come lavoro subordinato ordinario.
La «deroga» consente di togliere ogni rilievo al requisito della continuità; sempre
ammesso che la continuità debba effettivamente ritenersi un requisito della
subordinazione. Il risultato trova conferma nell’intero testo della legge n. 877, che, a
differenza della legge precedente, non classifica più i tipi del lavoro a domicilio, né
menziona il lavoro a domicilio occasionale: coll’evidente intento di unificare nel
regime protettivo tutte le forme di lavoro a domicilio svolte per conto di uno o più
imprenditori, da quello più stabilmente inserito nel ciclo produttivo dell’impresa
committente, al lavoro più discontinuo e precario
[58]
.
Dare un peso alla «deroga» menzionata nel 2°
comma, art. 1, legge n. 877, non significa giustificare la costruzione di una nuova
specialità del lavoro a domicilio. Questa costruzione si avvale, a mio avviso, di
argomenti testuali fragili
[59]
, ma costituisce, come ho detto all’inizio, lo svolgimento coerente di una
premessa politica. Secondo l’autore della più recente formulazione della specialità, la
«disciplina del lavoro a domicilio [...] è improntata, con riferimento sia al fattore
capitale sia al fattore lavoro, ad una valutazione globalmente positiva della funzione
che può essere correttamente assegnata a questa forma di decentramento nell’ambito di
una strategia d’impresa rivolta a conseguire margini di flessibilità della capacità
produttiva»
[60]
. È evidente il collegamento tra flessibilizzazione della capacità produttiva
e specialità del rapporto di lavoro a domicilio: se il legislatore voleva incentivare
l’uso elastico della manodopera, doveva necessariamente dettare una disciplina del
rapporto di lavoro a domicilio che tale uso elastico legittimasse; perciò il legislatore
doveva separare il trattamento dei lavoratori decentrati, rendendo inapplicabili
(attraverso la specialità) le norme che rendono rigido il lavoro che si svolge
all’interno dell’impre¶{p. 199}sa, lasciando ampi i poteri
dell’imprenditore di aumentare la flessibilità (intensificando i ritmi, ad esempio), e
negando, alla fine, ogni rilevanza all’interesse di questi lavoratori precari ad una
maggiore stabilità. Ma l’autore non ci offre alcuna consistente verifica della premessa
politica, da cui la costruzione muove; proprio perché premesse di questo tipo non sono
verificabili. Tuttavia, indizi di un certo peso inducono a pensare che la «speciale
protezione» del lavoro a domicilio (legge n. 877/1973) abbia il diverso significato di
una disciplina disincentivante: così le norme che introducono limiti o manifestano
accentuato sfavore verso il decentramento tramite lavoro a domicilio; così la funzione
di superare, o almeno ridurre, il lavoro a domicilio, che il legislatore dell’epoca
espressamente assegnava alla legge
[61]
. Ed era un’epoca in cui la legislazione del lavoro mirava ancora a costruire
garanzie di stabilità per i lavoratori subordinati, e i sindacati pensavano che la
rigidità nell’uso della forza lavoro fosse una conquista da difendere.
4. Emarginazione e discriminazione del lavoro femminile. Il dibattito sulla parità.
Questo decennio si è aperto con la
riforma delle leggi sulle lavoratrici madri e sul lavoro a domicilio: due buone leggi
protettive, nuove nei contenuti, ma legate, quanto ai modi di intervento, alla
tradizione della legislazione sociale italiana. Nel giro di pochi anni tutta la
disciplina giuridica del lavoro femminile, anche la più recente, sarà oggetto di
polemiche e critiche radicali. Gli argomenti per discutere non mancano: alla vigilia
della riapertura del dibattito, provocata dalla crescita impetuosa del movimento
femminista e dall’intensificarsi delle iniziative parlamentari che questa crescita ha
prodotto, molti problemi, e gravi, restano da risolvere. Primo fra tutti quello di dare
compiuta attuazione all’art. 37 cost.
[62]
. L’attenzione si concentra sul problema della parità di
diritti: finalmente, perché a differenza di quanto era avvenuto per la parità salariale,
le questioni della parità normativa erano state, nel passato, poco dibattute ed avevano
scar
¶{p. 200}samente impegnato (talla eccezione per qualche problema
occasionale) le lavoratrici ed il movimento sindacale. Ancora diversamente dalla parità
salariale, la cui piena attuazione era stata rimessa, nei suoi aspetti fondamentali e
per i maggiori settori produttivi, alla contrattazione collettiva (sugli sviluppi e le
insufficienze della quale tornerò più avanti: infra, cap. VI)
[63]
, le questioni principali, ancora aperte, della parità di diritti dovevano
essere affrontate e risolte necessariamente in sede legislativa.
Note
[47] Cass. pen., 15 dicembre 1972, in «Foro italiano», Repertorio, 1973, Lavoro (rapporto), nn. 300-301; Cass. pen., 12 febbraio 1973, ivi, 1974, Lavoro (rapporto), n. 322: secondo la cassazione, nell’art. 2094 c.c. è compresa anche la subordinazione tecnica; pertanto l’art. 1 D.P.R. 16 dicembre 1959, n. 1289 (dove si precisava che la subordinazione del lavoratore a domicilio poteva essere anche solo tecnica), doveva ritenersi pienamente legittimo, non avendo introdotto nella materia un concetto nuovo e diverso rispetto a quanto previsto dalla legge n. 264/1958. Per la contraria opinione v. Mazzoni, Manuale di diritto del lavoro, cit., I, pp. 812 seg., secondo il quale la subordinazione tecnica non è vera subordinazione, come non è vera subordinazione la subordinazione economica.
[48] Sulle definizioni della subordinazione «tecnica», v. Balandi, op. cit., I, pp. 595 seg, e ivi riferimenti. Un ampio riepilogo delle vicende interpretative e applicative della legge n. 264/1958 in G. Pellettieri, Il lavoro a domicilio, in Il diritto del lavoro nell’elaborazione giurisprudenziale, vol. XV, Novara, 1973, pp. 440 seg.
[49] La dottrina ha invece sostenuto che l’art. 1,1 e II comma, L. n. 877, ha dato una ridefinizione della subordinazione del lavoratore a domicilio come subordinazione solo tecnica: così Riva Sanseverino, Diritto del lavoro, cit., p. 72. Secondo Pera, Lezioni di diritto del lavoro, cit., p. 380, la nuova legge fotografa le caratteristiche reali del lavoro a domicilio: «la subordinazione c.d. tecnica emerge in sede definitoria, col vantaggio di sbarazzarsi della falsa e impossibile alternativa lavoro autonomo o subordinato». Anche E. Ghera, Diritto del lavoro, Bari, 1978, p. 252, ritiene che, con la formulazione dell’art. 1, II comma, il legislatore abbia voluto configurare un’ipotesi tipica di subordinazione tecnico-funzionale. Per questo, secondo l’a., «appare solo superfetazione tecnica, che dà esclusivamente esca a diatribe dottrinali, l’inciso (in verità non certo felice) contenuto nello stesso secondo comma: “in deroga a quanto stabilito dall’art. 2094 c.c.”». A proposito dell’ancora perdurante confusione tra subordinazione tecnica e subordinazione giuridica, merita di essere segnalata la sentenza Pret. Pistoia, 15 ottobre 1976, in «Giurisprudenza di merito», 1978,1, p. 824, con nota di C. Belfiore, Lavoro a domicilio e subordinazione. Secondo il pretore, il concetto di subordinazione, che caratterizza il lavoro a domicilio nella legge n. 877, ha sempre e comunque carattere economico ed eventualmente anche tecnico, ma non personale e giuridico: di conseguenza, in presenza dei requisiti, di cui al I comma, è riconducibile a tale concetto di subordinazione anche il lavoro autonomo.
[50] Secondo De Cristofaro, op. cit., pp. 173 seg., il lavoro a domicilio è lavoro nell’impresa (e come tale differenziato dal lavoro autonomo), ma separato dall’unità produttiva (cioè dall’azienda). «Per effetto della dislocazione, il lavoro a domicilio appare come un nucleo organizzativo a sé stante, comprensivo di entrambi i fattori della produzione» (ivi, p. 175).
[51] L. Mariucci, op. cit., p. 97.
[52] G. G. Balandi, op. cit., I, p. 620.
[53] Cosí Cass. pen., 1 aprile 1976, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1977, p. 418; Cass. pen., 2 marzo 1973, in «Foro italiano», Repertorio, 1974, Lavoro (rapporto), nn. 320-321.
[55] L. Mariucci, op. cit., p. 97. Per quanto mi riguarda, ho già avuto occasione di esprimere la mia opinione in proposito, in I licenziamenti, cit., p. 344 seg.; e in Nuove prospettive nel diritto del lavoro, in «Democrazia e diritto», 1975, pp. 105 seg.
[57] Gli indici della subordinazione sono elencati e discussi da Balandi, op. cit., I, pp. 595 seg., cui può farsi rinvio. Un esempio (aberrante) di disconoscimento della subordinazione dei lavoratori a domicilio a fini di applicazione della L. n. 264/1958 è la sent. Trib. Palermo, 27 luglio 1978, in «Foro italiano», 1978, I, c. 2883; secondo questi giudici non ricorre la subordinazione, quando l’ingerenza del datore di lavoro si limita al controllo sull’osservanza delle prescritte tecniche; ma, nella specie, i lavoratori a domicilio provvedevano alla confezione di capi di abbigliamento per conto di un sarto committente, dopo avere ritirato la stoffa già tagliata, attenendosi nella confezione alle prescrizioni ricevute e rispettando il minimo giornaliero pattuito. Il committente liquidava il compenso solo dopo avere effettuato il controllo sulla qualità dei capi confezionati a domicilio.
[58] Contra: P. Cipressi, La nuova nozione di lavoratore a domicilio, cit., pp. 179 seg., che ritiene il lavoro a domicilio occasionale escluso dalla protezione legale. Secondo il Pret. Carpi, 30 maggio 1977, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1977, p. 1085, per potere configurare il rapporto di lavoro a domicilio subordinato, di cui all’art. 1 L. n. 877, è necessario che il lavoratore si sia obbligato a svolgere un’attività sistematica e continuativa nei confronti del committente. La sentenza è commentata favorevolmente da G. Stufler, Qualificazione del lavoro a domicilio. Un contributo decisivo alla soluzione del problema da una sentenza del pretore di Carpi, ivi, pp. 1086 seg. Parzialmente conforme Pret. S. Caterina Villermosa, 20 dicembre 1976, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, IV, p. 79; il pretore ha ritenuto infatti sufficiente, per la sussistenza della subordinazione nel lavoro a domicilio, che la prestazione si svolga con carattere di regolarità, anche se intervallata da pause.
[59] L’uso che M. De Cristofaro, Il lavoro a domicilio, cit., pp. 193 seg., fa degli argomenti testuali (specialmente la «deroga» e la distinzione fra «ordini» e «istruzioni») è criticato da L. Mariucci, op. cit., p. 61, di cui condivido il giudizio.
[60] M. De Cristofaro, op. cit., p. 151.
[61] Di tali intenzioni si trova espressa conferma negli interventi di Tina Anselmi, Luciana Sgarbi, Maria Magnani Noya, nella tavola rotonda Dopo la legge sul lavoro a domicilio, in «Quaderni di rassegna sindacale», 1973, n. 44/45, Il lavoro a domicilio, pp. 6 seg.
[62] Sono numerosi i disegni e le proposte di legge presentati dalle varie forze politiche; domina tutti il tema delle discriminazioni, ispirato dalla legislazione antidiscriminatoria inglese e nord-americana. Solo il disegno di legge governativo (la cui responsabilità va a Tina Anselmi, allora ministro del lavoro) si caratterizza per la delimitazione del suo ambito alla parità in materia di lavoro. I disegni e le proposte di legge sono stati raccolti e commentati da F. Albisinni, Verso una legge italiana per l’effettiva eguaglianza fra i sessi, in «Rivista giuridica del lavoro», quad. n. 1, luglio 1977, Questione femminile e legislazione sociale, pp. 103 seg.; le leggi inglesi, statunitensi e francesi sono riportate da T. Treu, Lavoro femminile e uguaglianza, cit., appendice 2, pp. 198 seg. Per un aggiornamento del dibattito in Francia, v. il numero speciale di «Droit social», gennaio 1976, Lesfemmes et le droit social, e ivi specialmente i contributi di E. Sullerot, J.M. Combette, M. Devaud, pp. 20 seg.
[63] Prima dell’entrata in vigore della legge n. 903/1977 molte questioni erano ancora aperte nel pubblico impiego; per qualche ragguaglio v. A. Saracina, La donna nel pubblico impiego, in La donna e il diritto, cit., pp. 147 seg.