La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c11
Anti-capitalismo,
antri-industrialismo, anti-liberalismo, anti-parlamentarismo, anti-razionalismo, il
tutto accompagnato poi da un altro anti e cioè dall’antisemitismo sono i tratti
distintivi di questa corrente di pensiero. Potremmo chiamare questa una sociologia
anti-weberiana, pensata, esplicitamente in qualche
¶{p. 244}caso, o
implicitamente in molti altri, per marcare la distanza da una sociologia che proponeva
di tenere separati i giudizi di valore dal lavoro scientifico.
Nel 1848 era tramontato il sogno
democratico di una parte della borghesia liberale tedesca, negli anni Venti tramonta il
sogno di una rivoluzione proletaria, ma anche di una «rivoluzione conservatrice»,
lasciando dietro di sé un residuo ideologico chiamato in un caso
Entfremdung di matrice marxiana e nell’altro
Uneigentlichkeit di matrice heideggeriana. Non si può infatti
negare una qualche relazione tra i due concetti e l’attrazione esercitata da entrambi su
quegli intellettuali di origine borghese che esprimevano un oscuro rifiuto della
modernità, dell’industria, del capitalismo, della vita urbana. Non è certo una
coincidenza casuale che, proprio prima dell’inizio dell’esperienza weimariana, esca nel
1918 Der Untergang des Abendlandes di Spengler che tanta influenza
era destinato ad esercitare sulla vita intellettuale della Germania, e non solo, ed
anche sulla cultura sociologica. Si respira un’aria diffusa di decadenza, come se
l’avvento della società di massa che omologa e appiattisce avesse eroso o minacciasse di
erodere il nucleo autentico sia della personalità individuale sia della comunità
organica esaltato dalla cultura romantica. Non è un caso che molti giovani non certo
proletari fossero affascinati dai movimenti dei Wandervogel,
presenti ovunque in Europa, ma particolarmente attivi nella Germania guglielmina e
weimariana per essere infine travolti o, meglio, assorbiti dalla
Hitlerjugend.
Sulla scia della contrapposizione
tönnesiana tra Gemeinschaft e Gesellschaft un
pezzo consistente dell’intellighenzia tedesca, anche ben al di là di coloro che si
identificavano come sociologi, viveva immersa nella nostalgia di un mondo
pre-industriale e proprio per questo incapace di cogliere appieno le novità che
l’industrializzazione stava portando nella società. Sociologi come Othmar Spann o Hans
Freyer, per quanto diverse possano essere considerate le rispettive impostazioni
teoriche, possono senz’altro essere classificati tra gli anticipatori di quanto sarebbe
successo dopo il 1933. La loro impostazione è stata rubricata come «universalistica», ma
nel senso che sostengono che «il tutto viene prima delle parti» e quindi si schierano
contro ¶{p. 245}qualsiasi forma di individualismo e soprattutto di
individualismo metodologico. Il «tutto» si risolve nell’entità mitica del
Volk, la storia non è fatta dagli uomini e dalle donne, ma dai
popoli, nella cui storia è radicata un’anima collettiva profonda e che nel futuro hanno
una loro missione da compiere. In particolare il popolo tedesco è destinato a guidare il
resto dell’umanità verso chi sa quali radiosi destini. Se i protagonisti sono i
Völker, alcuni popoli hanno una missione da compiere e sono
destinati a guidare ed altri ad essere guidati. Non si tratta, è bene sottolinearlo, di
pensatori di levatura modesta, le loro idee hanno una notevole impalcatura teorica, sia
pure fondata sul terreno molto scivoloso di un esasperato nazionalismo. Peraltro anche
alcuni loro allievi, pur collocandosi nel campo conservatore anche dopo la caduta del
regime nazista, come Arnold Gehlen o Helmut Schelsky, nonostante la loro aperta adesione
al nazismo, hanno avuto riconoscimento anche nella sociologia tedesca del dopoguerra
[6]
.
Nonostante l’adesione convinta, e
in certi casi anche la militanza, nelle file del nazionalsocialismo di personaggi come
Hans Freyer, per altri la vicinanza fu meno convinta e talvolta perfino osteggiata dal
regime (Spann fu anche internato per un breve periodo a Dachau). Si può comunque parlare
di una «deutsche Soziologie» che, sostituendo al concetto di «società» il concetto di
«Volk», con tutte le sue implicazioni etnico-razziali, ha anticipato ben prima della
presa del potere hitleriano i temi chiave del futuro regime. Altri intellettuali
¶{p. 246}come Werner Sombart che dall’originaria vicinanza al marx-ismo
e alla socialdemocrazia si era gradualmente convertito al «socialismo tedesco», furono
piuttosto dei fiancheggiatori laterali, talvolta amareggiati dalla piega che aveva preso
il regime, senza tuttavia mai diventare dei veri e propri «esuli interni» e ancor meno
degli oppositori.
Esempi significativi di esilio
interno furono studiosi insigni come Ferdinand Tönnies, Alfred Weber e Leopold von
Wiese. Quest’ultimo fu una figura di grande spicco e di grande importanza sia nel quadro
della sociologia weimariana e post-weimariana, sia per il contributo che diede alla
rinascita della sociologia dopo la fine del regime nazista. Durante gli anni bui del
nazismo si dedicò, nel solco della sociologia simmeliana, all’elaborazione di una
raffinata teoria relazionale della società, troppo astratta per destare i sospetti delle
gerarchie del Reich.
Dopo la guerra e il crollo del
regime l’attenzione per la sociologia praticata in Germania in quegli anni si è
concentrata soprattutto sulla nutrita schiera di coloro che avevano abbandonato il loro
Paese, in grande maggioranza per ragioni razziali: Theodor Geiger in Danimarca, Karl
Mannheim e Norbert Elias in Inghilterra, Siegfried Kracauer, Theodor Adorno, Max
Horkheimer negli Stati Uniti, per nominare solo i più noti.
La sociologia non scomparve dalla
scena, anzi per certi versi si rafforzò durante il regime, almeno come presenza a
livello accademico. In alcuni casi contribuì effettivamente (e non senza entusiasmo)
alla costruzione dell’impalcatura ideologica del nazismo, in altri casi manifestò una
accentuata capacità di adattamento opportunistico al regime, per altri vi fu, come
appena accennato, esilio interno ed esilio esterno. Nessun sociologo compare in primo
piano nella storia, peraltro sporadica e marcatamente elitaria, della resistenza al
regime.
3. Temi di ricerca e strutture istituzionali
Non è però giusto giudicare la
sociologia weimariana soltanto in relazione alla posizione che i sociologi assunsero nei
con¶{p. 247}fronti della brusca conclusione dell’esperienza
repubblicana. È vero che per alcuni vi fu continuità, per altri, come vedremo rottura,
per molti tuttavia il passaggio dalla repubblica al regime nazista segnò l’interruzione
(o forse sarebbe meglio dire la sospensione) di una tradizione riformista che aveva
radici ancor prima nell’epoca guglielmina. Come scrive Stölting, «… la sociologia in
epoca weimariana costituì un osservatorio per persone e tendenze volte a risanare la
società, molto vicine a prospettive riformistiche»
[7]
. Questo vale in particolare per il Verein für Sozialpolitik la cui origine
risale ai cosiddetti «Kathedersozialisten» dell’epoca delle riforme sociali bismarckiane
e che fino allo scioglimento nel 1935 promosse una serie notevole di inchieste e
talvolta delle vere ricerche empiriche su una gamma assai ampia di temi di politica
economica e sociale
[8]
.
Dalla critica weberiana alla
commistione tra lavoro di indagine scientifica e attività di intervento politico nacque
nel 1909-1910, come già notato, la Deutsche Gesellschaft für Soziologie votata, nelle
intenzioni dei suoi fondatori, a mantenere i giudizi di valori al di fuori del lavoro
scientifico. La DGS continuò la sua attività organizzando diversi congressi fino a
quando sotto la presidenza di von Wiese interruppe di fatto (se non di diritto) la sua
attività non particolarmente gradita alle autorità del regime.
Accanto al Verein e alla DGS, una
terza istituzione svolse un ruolo importante nella sociologia di allora: il
Forschungsinstitut für Sozialwissenschaften di Colonia, fondato per iniziativa e con il
sostegno dell’amministrazione comunale il cui sindaco era allora Konrad Adenauer, una
figura destinata nel dopoguerra a svolgere un ruolo decisivo nella ricostruzione della
democrazia in Germania. L’interesse di questa istituzione consiste nel fatto che essa
riflette puntualmente i diversi orientamenti politici allora dominanti: l’organizzazione
era articolata in tre sezioni. La prima, con un’impronta filosofica permeata della
¶{p. 248}cultura della Renania cattolica e diretta fino alla sua morte
nel 1928 da Max Scheler, una figura ancor oggi di grande interesse soprattutto, ma non
solo, per aver aperto la strada di una sociologia del sapere. Una seconda fortemente
indirizzata alla politica sociale e al diritto del lavoro e influenzata dalla
socialdemocrazia ed una terza impostata sulla sociologia relazionale di Leopold von
Wiese, di stampo piuttosto liberale, anch’essa tuttavia aperta verso una sociologia
applicata di orientamento riformista.
A questo punto possiamo chiederci
se e in che misura la sociologia di Weimar fu in grado di dar conto delle dinamiche
della società del tempo, di avvertire i segnali della crisi che si sarebbe di lì a poco
verificata. È difficile rispondere adeguatamente a questa domanda; anche le riflessioni
più recenti di storia della sociologia in Germania non sono di grande aiuto
[9]
, tuttavia non ci si può sottrarre al compito di tentare di dare una
risposta.
In generale è abbastanza deprimente
riconoscere che la sociologia non ha capito molto di quanto stava succedendo. La crisi
ha preso i più alla sprovvista: si era creato troppo disordine, si poteva capire che
sarebbe potuto arrivare qualcuno che mettesse ordine nel caos, anzi, forse era
addirittura necessario che irrompesse sulla scena qualcuno capace di mettere ordine, e
poi, ristabilito l’ordine, si sarebbe potuto riprendere il corso normale della vita
sociale. Così la pensavano in molti e probabilmente anche molti sociologi. Anche Weber
tratteggiando la figura del capo carismatico da un lato ne auspicava la comparsa, ma
dall’altro rivendicava la centralità della funzione del Parlamento. Weber fu quindi
favorevole all’ipotesi di un regime presidenziale in quanto temeva l’effetto devastante
dell’instabilità politica sulla democrazia parlamentare in un sistema preda di
un’eccessiva frammentazione fra i partiti e le
¶{p. 249}fazioni al loro
interno. Forse, di fronte agli effetti che avrebbe prodotto in seguito il combinato
disposto degli articoli 48 e 53 della Costituzione weimariana (rispettivamente sulla
dichiarazione dello stato di emergenza e sui poteri del presidente di nominare e
revocare il capo del governo) avrebbe rivisto la sua posizione
[10]
. Sulla presenza/assenza della figura di Weber nella sociologia weimariana
avrò modo di tornare in seguito.
Note
[6] Gehlen viene considerato un classico dell’antropologia filosofica e nella sua opera maggiore Der Mensch, uscita nel 1940, non vi sono tracce delle teorie della razza. Per Schelsky l’adesione al nazismo si colloca in età molto giovanile. Nel dopoguerra diventò una delle figure più significative della sociologia tedesca, contribuendo, tra l’altro, alla fondazione del famoso Zif (Zentrum für interdisziplinäre Forschung) di Bielefeld. Non si può dire che le conversioni dopo il crollo del regime siano state tutte dettate dalla necessità opportunistica di adeguarsi al nuovo clima politico/culturale della Repubblica federale, anche se resta sorprendente come sia stato possibile per degli studiosi attraversare una fase storica così eccezionale restando apparentemente indenni. Sulla figura di Schelsky si veda anche: A. Gallus (ed), Helmut Schelsky. Der politische Anti-Soziologe: eine Neurezeption, Göttingen, Wallstein, 2013.
[8] F. Boese, Geschichte des Vereins für Sozialpolitik 1872-1932, ripubblicato nel 2013 a Berlino, dall’editore Dunker & Humblot.
[9] Oltre al già citato lavoro di E. Stölting, rinvio allo studio di V. Kruse, Geschichte der Soziologie, Konstanz - München, UTV, 2008, 20183 che vede la sociologia di Weimar nella prospettiva della crisi del dopoguerra lasciando intendere che la crisi del 1933 giunse pressoché inattesa anche per i sociologi.
[10] Sull’interpretazione della concezione weberiana della democrazia plebiscitaria si è aperto un grande dibattito in seguito alla pubblicazione di un celebre saggio di W.J. Mommsen, Max Weber und die deutsche Politik 1890-1920, Tübingen, Mohr, 1959 (trad. it. Max Weber e la politica tedesca, Bologna, Il Mulino, 1993). In questo dibattito la posizione più equilibrata mi sembra quella assunta da R.M. Lepsius, Das Modell der charismatischen Herrschaft und seine Anwendbarkeit auf den ‘Führerstaat’ Adolf Hitlers, in R.M. Lepsius, Demokratie in Deutschland, Göttingen, Vandenhock & Ruprecht, 1993 (trad. it. Il modello del potere carismatico e la sua applicabilità allo «stato dittatoriale» di Hitler, in M.R. Lepsius, Il significato delle istituzioni, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 171-202). Su questo punto si veda anche M. Ponso, Una storia particolare. «Sonderweg» tedesco e identità europea, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 296-300.