La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c7
D’altro canto le difficoltà che i
liberali di sinistra e i socialdemocratici dovettero affrontare non sono puramente e
semplicemente riconducibili alle loro rispettive piattaforme politico-ideologiche ma
avevano cause più profonde. Come ha sottolineato Thomas Mergel, un tratto caratteristico
della Repubblica di Weimar è consistito nel fatto che le aspettative nei confronti della
politica erano estremamente alte e conseguentemente sfociarono spesso in grandi
delusioni. Ciò vale anche per la spinta all’autonomia che si espresse in modo impaziente
e irruente ma si scontrò con strutture percepite come molto rigide. Dal momento però che
queste stesse strutture erano anche instabili, la spinta all’autonomia andava di pari
passo con una aspettativa non meno marcata nei confronti del ruolo assistenziale dello
Stato. Molti tedeschi si sentivano bloccati nella loro aspirazione all’autonomia, altri
si consideravano vittime non adeguatamente assistite di circostanze avverse – e
¶{p. 183}alcuni vivevano entrambe queste condizioni. Spesso ci si
accusava a vicenda di aspirare ad una falsa forma di autonomia, e quindi di perseguire
scopi «egoistici» senza riguardo per nessuno. Tutto ciò non poteva che ridurre
pericolosamente i margini di azione di un governo democratico, soprattutto quando questo
si fondava su fragili coalizioni e disponeva di limitate risorse finanziarie. In tale
contesto si intensificarono e divennero sempre più radicali gli attacchi ad un «sistema»
considerato impersonale, che frenava i singoli nel loro sviluppo e li lasciava soli alle
prese con i loro problemi.
Attacchi che, mette conto
sottolinearlo, crearono difficoltà anche a quei partiti che erano ostili in linea di
principio alla Repubblica di Weimar. In fin dei conti perseguivano anch’essi scopi
collettivi, sia per la società nel suo complesso che per i propri sostenitori. L’esempio
dei comunisti è, al riguardo, emblematico. Dopo i disordini e i falliti tentativi
rivoluzionari dei primi anni Venti essi insistettero in particolare sulla disciplina
interna e sulla fedeltà alla linea ideologica. Ma questa linea fece emergere crescenti
tensioni con quegli iscritti che non intendevano rinunciare ad esprimersi liberamente
sulle questioni politiche o erano perfino inclini a forme di «terrore individuale» e
quindi a condurre attacchi non coordinati contro le SA, i primi gruppi paramilitari del
partito nazista. Ma c’è di più: sorsero anche dubbi in merito al fatto se la rigida
cultura politica del partito potesse veramente corrispondere ai desideri dell’elettorato
proletario e sottoproletario.
Di questo problema era ben
consapevole il comunista non ortodosso Willi Münzenberg quando nell’ultima fase della
Repubblica weimariana cominciò a far uscire a Berlino quotidiani con un formato e un
linguaggio più popolari rispetto a quelli del sobrio e freddo organo ufficiale del
partito («Die Rote Fahne»). I nuovi giornali contenevano numerose storie di persone che
avevano perso la vita, avevano subito un brutale trattamento da parte degli organi di
polizia o di funzionari della pubblica assistenza e alla fine si erano per questo
suicidati o avevano fatto proprio il principio della solidarietà rivoluzionaria. Il
messaggio che se ne ricavava era che in una economia capitalistica difesa da istituzioni
autoritarie e solo ¶{p. 184}apparentemente democratiche l’autonomia
individuale era inevitabilmente destinata a rimanere una pia illusione.
Nella futura società comunista,
invece, i proletari avrebbero potuto liberamente realizzarsi, come del resto stava già
avvenendo nell’Unione Sovietica – nelle fabbriche, nella vita culturale e, con il
talento e l’impegno adeguati, nelle università. «Credo che Berlino non mi piaccia più,
qui la vita è molto più libera, qui ognuno è veramente una ‘persona’», così un
lavoratore emigrato in Unione Sovietica citato sul «Berlin am Morgen». Per parte sua, la
redazione della «Welt am Abend» sottolineò come anche per lo stesso Stalin fosse
importante il principio della responsabilità personale
[10]
.
Come stavano le cose sul versante
di destra dello spettro politico? I tedesco-nazionali erano ambivalenti nella misura in
cui da un lato rifiutavano molte varianti dell’aspirazione all’autonomia, dalla
consapevole entrata in scena dei lavoratori alla emancipazione femminile, ma dall’altro
si presentavano come i portavoce delle aspirazioni autonomistiche del ceto medio. Non
meno ambivalente era il loro atteggiamento rispetto alla questione se nella Germania del
tempo fosse o meno veramente possibile vivere una esistenza libera. Quel che è certo, in
ogni caso, è che anche la stampa tedesco-nazionale rivolgeva ai suoi lettori offerte
concrete, ad esempio tramite annunci relativi a villette in vendita fuori dalla grande
città. Accanto alle tradizionali posizioni conservatrici, la stampa tedesco-nazionale
diede comunque spazio all’opinione che la donna «aveva conquistato, lentamente ma
gradualmente, il diritto a diverse libertà»
[11]
.
Nello stesso tempo, tuttavia,
veniva suggerito che la vera autonomia non poteva realizzarsi nel privato, ma era
eroicamente collegata alla battaglia per la sopravvivenza che la nazione tedesca era
chiamata a combattere. Così ad esempio la «Berliner illustrierte Nachtausgabe» raccontò
ai suoi lettori il modo in cui un pescatore si era opposto sulla Vistola, il
¶{p. 185}fiume che segnava il confine tra i due Paesi, alle angherie dei
soldati di frontiera polacchi: «Erich sta in piedi sulla barca e guarda dritto in faccia
i suoi persecutori»
[12]
. Più o meno dello stesso tenore erano i nostalgici ricordi del colonialismo
tedesco in Africa, molto diffusi negli ambienti tedesco-nazionali. Aver dissodato la
terra ed aver anche provveduto a se stessi in condizioni climatiche così difficili, era
stato espressione e motivo insieme di un orgoglio ad un tempo individuale e patriottico.
Senza contare che nell’Africa sud-occidentale tedesca, a differenza di quanto avveniva
nel Reich «il negozio più vicino non era certo dietro l’angolo». L’inevitabile
conclusione era che per tornare alla precedente autonomia bisognava recuperare dalla
Gran Bretagna i territori perduti in forza del Trattato di Versailles. Attualmente, così
i tedesco-nazionali, «ci si sente come degli estranei» che «devono chiedere il permesso
per poter passeggiare sul suolo che appartiene alla Germania – il permesso dai nemici»
[13]
.
In parte coincidente con quello dei
tedesco-nazionali, l’approccio nazista alla tematica dell’autonomia era tuttavia più
ampio e più persuasivo. Ne discende, credo, una importante considerazione. Se infatti
noi indichiamo Adolf Hitler e i suoi seguaci come nemici fin dall’inizio di ogni
aspirazione all’autonomia, potremmo certo prendere normativamente le distanze da essi,
ma in tal caso risulterebbe assai difficile capire perché questo movimento di estrema
destra ha potuto esercitare una simile forza di attrazione su milioni di contemporanei.
I nazionalsocialisti si presentavano come i difensori del principio dell’indipendenza
economica, che promettevano di difendere sia contro il marxismo che contro il
capitalismo. Di più: si rivolgevano ai tedeschi collegando la loro personale aspirazione
alla libertà alla liberazione della Germania non solo dalla «schiavitù» delle
riparazioni di guerra ma anche ¶{p. 186}da un «sistema» repubblicano
presentato come corrotto ed oppressivo: «Vogliamo essere liberi, vogliamo avere il
nostro pane e il necessario per vivere, il nostro pergolato, il nostro modesto svago.
Per questo dobbiamo lottare». Agli antipodi rispetto a questa legittima aspirazione
all’autonomia c’era l’«apatia dell’uomo-massa». Per i nazisti, questo tipo irrazionale
leggeva di preferenza i giornali dominati dagli ebrei invece di farsi una propria
opinione e quindi di comprendere appieno l’intrinseca validità della visione del mondo nazionalsocialista
[14]
.
Il motivo della scelta autonoma per
il nazionalsocialismo emerge, insieme a diverse altre motivazioni, tra gli stessi membri
della NSDAP. Lo si può ricavare dalle (auto)riflessioni sul loro passato recente che nel
1934 il sociologo americano Theodore Abel incoraggiò tramite un concorso a premi per
farne poi oggetto di uno studio scientifico. Da questi testi fortemente stilizzati
emergono soprattutto il cameratismo tra compagni di partito e membri delle SA, le
convinzioni improntate ad un nazionalismo radicale e il fascino esercitato dal «Führer»
Adolf Hitler. Ma vi vengono descritte anche situazioni nelle quali il futuro
nazionalsocialista si era ritrovato da solo e da solo era pervenuto ad una nuova visione
del mondo. Racconti di rappresaglie, pressioni di gruppo e violenti attacchi lasciano
comunque emergere l’autonomia di ciascuno. «Nonostante tutte le umiliazioni subite, ho
stretto i denti e mi sono opposto a chi ha cercato di derubarmi della speranza in un
futuro migliore». A volte i nazionalsocialisti sottolineano l’importanza del loro
personale conflitto interiore, come nel caso dell’antisemitismo, da loro giudicato
valido e fondato solo dopo un attento esame della realtà e «uno studio approfondito
della letteratura di riferimento». La rivendicata autonomia decisionale torna a
collocarsi a un livello emotivo: «Nessuna pressione esterna fu esercitata su di me, né
fu la ragione a dettare questa necessità. È stato il mio cuore che me l’ha imposta»
[15]
. Come Felix Römer ¶{p. 187}ha dimostrato nel caso di Theodor
Habicht, Ortsgruppenleiter (leader del gruppo locale) di Wiesbaden,
proprio l’aspirazione all’autonomia dei leader nazisti condusse a non pochi conflitti
all’interno del partito già prima del 1933: conflitti di cui tuttavia la pubblica
opinione non venne quasi mai a conoscenza. Di fronte ad essa i protagonisti del
«movimento» si comportavano con grande sicurezza di sé, come uomini che si ritenevano e
si muovevano liberi da costrizioni sociali, convenzioni culturali e vincoli oggettivi.
Con questa immagine essi prendevano radicalmente le distanze dai politici di lungo corso
degli ultimi anni della Repubblica di Weimar, politici che a loro giudizio avevano un
modo di pensare ormai appartenente al passato, davano l’impressione, in quei tempi di
crisi, di essere solo capaci di tirare a campare e richiamavano sempre alla memoria
fatti spiacevoli (ciò che valeva innanzi tutto per lo sfortunato cancelliere Heinrich
Brüning). Non a caso, in un discorso pronunciato davanti ai membri del partito il 2
novembre del 1932 lo stesso Hitler affermò:
«Non c’è minaccia che mi possa intimorire, che mi possa far vacillare anche per un solo secondo. Nella mia vita non sono certamente mai stato uno bisognoso di protezione e non ho certo bisogno di diventarlo in futuro. Ciò che sono, lo sono diventato da solo!» [16] .
Nello stesso tempo i
nazionalsocialisti dicevano di voler contrastare gli effetti potenzialmente distruttivi
dell’aspirazione all’autonomia individuale. Da un lato identificavano questi effetti con
gli ebrei, da loro bollati come superficiali e materialisti, e dall’altro si sforzarono
di integrare le aspirazioni all’autonomia individuale in un progetto collettivo, la cui
realizzazione avrebbe creato i presupposti per la «libera possibilità di ascesa» di ciascuno
[17]
. Nella futura «comunità di popolo» l’autonomia individuale non avrebbe
potuto deviare verso
¶{p. 188}l’isolamento personale e proprio per
questo avrebbe avuto modo di dispiegarsi come mai in precedenza. Come Hitler aveva avuto
modo di affermare già nel Mein Kampf, infatti, la comunità che egli
aveva in mente sarebbe dipesa dalle «azioni di singoli soggetti particolarmente capaci»
[18]
.
Note
[10] «Berlin am Morgen», 3 marzo 1931; «Welt am Abend», 11 luglio 1931.
[11] «Berliner illustrierte Nachtausgabe», 15 marzo 1930.
[12] Ibidem, 1° marzo 1932.
[13] Si veda Hans Aschenborn, citato in T. Jonker, ‘Das verlorene Paradies’. Herinneringen van Duitse mannen en vrouwen aan hun autonomie in de voormalige Duitse koloniën in Afrika, Masterarbeit, Universität Amsterdam, 2020, pp. 15 e 17.
[14] «Der Angriff», 13 marzo 1930 e 23 gennaio 1930.
[15] T. Abel, Why Hitler Came Into Power. An Answer Based on the Original Life Stories of Six Hundred of His Followers, New York, Prentice-Hall, 1938, pp. 98, 161 e 244.
[16] A. Hitler, Reden Schriften Anordnungen. Februar 1925 bis Januar 1933, V: Von der Reichspräsidentenwahl bis zur Machtergreifung April 1932 - Januar 1933; parte seconda: Oktober 1932 - Januar 1933, a cura di C. Hartmann - K.A. Lankheit, München, Saur, 1998, pp. 149-166, qui p. 157.
[17] «Der Angriff», 10 luglio 1930.