Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c6

capitolo sesto Lo spirito dell’autogestione

1. Il campo delle scelte

Nelle pagine precedenti si è cercato di descrivere un sindacalismo avviato verso una perdita di originalità e progressivamente incerto nel tutelare gli interessi dei lavoratori. Si è implicitamente sostenuto che questa tendenza è largamente non determinata dalla crisi economica, anche se l’indebolimento oggettivo dei lavoratori dipendenti nel rapporto di classe comporta per il sindacato giorni difficili e problemi nuovi rispetto ai tempi della stabilità o dell’alta congiuntura.
Anche in condizioni di crisi economica, il sindacato può scegliere tra varie strategie, senza che alcuna di esse lo garantisca da ridimensionamenti e lacerazioni. La difesa testarda delle posizioni acquisite provoca dure ritorsioni che potrebbero anche concludersi con non trascurabili ritocchi alle regole del gioco politico in direzione reazionaria. La strada della duttilità e del realismo finisce per escludere dalla partecipazione gran parte dei lavoratori, riproducendo le condizioni, anche in questo caso, di una regressione verso situazioni autoritarie.
È opinione di chi scrive che le vie della tutela rigorosa dei diritti del lavoro possa essere seguita soltanto con il ricorso a un «di più» politico. Soltanto che a questo termine va attribuito un significato molto diverso da quello dominante: non si intende cioè un’attenzione machiavellica al quadro politico, {p. 112}o il ricorso sempre più spinto a formule e messaggi ideologici di massa. Ci riferiamo invece a un allargamento della coscienza dell’insieme del sindacato, anzitutto perciò a una riforma del sindacato stesso, in grado di affermare l’autonomia e la democrazia, ma sopra ogni altra cosa la «fedeltà» ai suoi scopi dichiarati. Le note critiche e partigiane volevano appunto segnalare l’esigenza di cambiare il sindacato «dentro», di rivedere i suoi meccanismi di funzionamento, di riconsiderare il rapporto tra dirigenti e aderenti, di riformare le forme della comunicazione e il metodo di elaborazione. Abbiamo infatti notato come il nuovo sindacalismo tende a produrre dibattiti, in cui il collegamento con la realtà sociale è talmente formalistico da far pensare a una sostanziale indifferenza ai contenuti, al prevalere di uno spirito di gestione burocratica, indifferente ai compiti di trasformazione sociale.
La critica della burocratizzazione deve procedere al di là della proposta di nuovi strumenti e di nuove regole per la formazione delle decisioni. I comportamenti politici sono infatti strettamente legati ad atteggiamenti personali e collettivi, si ripetono se sono legittimati da convinzioni. Le stesse ancor labili strategie che vanno sotto il nome di nuovo modello di sviluppo, oltre a richiedere precisazioni e riflessioni di merito, vogliono fondarsi su uno spirito nuovo dentro le masse e dentro le loro organizzazioni; la semplice adesione di opinione non è impegnativa, le lascia a livello di esercitazioni verbali, o le fa decadere a messaggio propagandistico. Per questo ci sembra utile riferirci a un insieme di valori, di orientamenti e di comportamenti pratici che definiamo come spirito dell’autogestione.{p. 113}

2. Il significato tradizionale dell’autogestione

Il termine autogestione ricorre da lungo tempo nei dibattiti teorici intorno alla costruzione del socialismo; ha avuto momenti di grande fortuna anche prima di entrare nel bagaglio ideale della cfdt e dei socialisti francesi. La stessa ricca e tormentata vicenda dell’esperienza jugoslava ha finito per dare al termine autogestione un significato soprattutto polemico nei confronti del sistema sociale ed economico proprio dell’Unione Sovietica e dei paesi del blocco orientale europeo.
Anche fuori del mondo industriale la proposta dell’autogestione ha rappresentato un polo di riferimento critico contro le tendenze a una politica economica centralizzata: è noto il dibattito approfondito svoltosi in India all’indomani dell’indipendenza. In linea di massima ci si è sempre riferiti a una programmazione economica e sociale costruita sull’autodecisione dei gruppi di lavoratori e di cittadini-consumatori che avrebbe dovuto restringere l’ambito decisionale degli organi statuali e con questo ostacolare il formarsi di una burocrazia di stato, simile nei privilegi e nel potere ai circoli imprenditoriali e finanziari tipici dei paesi industriali capitalistici. Generalmente la proposta dell’autogestione è risultata perdente o puramente formale per le innumerevoli difficoltà che essa frapponeva a uno sviluppo economico armonioso e unificante. Il meccanismo dell’autogestione può facilmente incepparsi per la presenza di gruppi e situazioni in condizioni diseguali di partenza, può ovviamente rafforzare aree di lavoratori e di cittadini dotati di risorse superiori e portati a trarne vantaggio. Anche l’intero sistema dei prezzi, della destinazione degli investimenti e delle modalità di accumulazione è difficilmente governabile. E {p. 114}tuttavia i partigiani dell’autogestione possono con molte buone ragioni sottolineare come un’analoga ingovernabilità si riproponga in un quadro capitalistico o in situazioni di socialismo di stato: sempre se per governo si intende un’azione tesa all’uguaglianza.
Nel corso delle esperienze storiche si è quindi cercato di stabilire quali aspetti della gestione dell’economia fossero decentrabili ai lavoratori e quali invece andassero mantenuti al centro o ai tradizionali operatori finanziari. Senza contare la questione dei rapporti esterni di un’economia autogestita in una dimensione internazionale, con le reciproche influenze che sperimentano ormai tutti i paesi industriali.
Ma questi discorsi di ingegneria sociale non esauriscono il tema e appaiono astratti di fronte ai problemi attuali del movimento e del sindacato. Nel corso delle lotte, dalla Gran Bretagna, alla Francia, all’Italia, gli anni recenti hanno fatto emergere tensioni all’autogestione, sperimentazioni parziali ma significative di partecipazione e di solidarietà, oltre che di intervento tecnico, che la tradizione prevalente del vecchio sindacalismo giudicava estemporanee, quando non pericolose. Anche perché da tempo la grande esperienza della cooperazione ha cessato di rappresentare una seria alternativa sul piano della partecipazione di base alle decisioni imprenditoriali capitalistiche. In realtà l’ostilità presente nel movimento verso la tematica dell’autogestione dipende, più che da sensate perplessità tecniche, da ostacoli ideologici. Il sindacalista che, al di là delle dichiarazioni anticapitalistiche, ritiene ineliminabile il controllo privato sui mezzi di produzione, vede nell’autogestione una proposta inaccettabile di «sovversione». Analogamente il sindacalista che vede l’emancipazione della classe lavoratrice come una occupazione (gra{p. 115}duale o repentina) dello Stato, considera l’autogestione un sogno ribellistico e anarcoide.

3. L’ombra dello Stato

Pensare a forme di autogoverno superiori all’autogoverno delle lotte, cioè alla gestione diretta di attività economiche o sociali molto importanti per l’accumulazione, implica la tendenza a considerare diversamente lo Stato.
Lo spirito dell’autogestione è strettamente connesso con le riflessioni critiche e in qualche misura libertarie che si sono sviluppate intorno alla formazione dello stato moderno. E invece, proprio sul punto, la cultura sindacale prevalente è subalterna all’immagine statuale. Essa infatti prospetta un sistema politico che instancabilmente domina, dirige e progetta la società civile. La politica si «erge» sul disordine sociale, sull’anarchia delle relazioni economiche, sulla casualità di quelle interpersonali.
Il ritorno allo Stato che buona parte del sindacalismo sta vivendo, appare senza dubbio paradossale per un movimento che prima ha dovuto imporsi contro la macchina dello Stato, poi si è validamente difeso dai tentativi di un intervento pubblico, di regolamentazione e riconoscimento. Evidentemente risulta assai arduo sottrarsi al richiamo dello Stato, quando esso, nelle sue forme moderne, interviene nei rapporti economici, anzi produce relazioni economiche specifiche. Soprattutto la possibilità o meno di maturare una concezione alternativa dello Stato è intimamente legata alla concezione pratica dell’uomo e dell’agire collettivo che un movimento possiede.
Lo storicismo banale ha indotto parte rilevante delle «sinistre» (il «centro», avendo compiti di «ge
{p. 116}stione», coltiva una visione realistico-cinica dell’uomo) a rifiutare una esplicita riflessione su questo terreno. Ma si sa che nelle scelte varie antropologie finiscono per trasparire: quando il sindacato vive una situazione di movimento collettivo egualitario si sviluppa la convinzione profonda che ciascuno può contare, che l’uomo è mosso prevalentemente da stimoli solidaristici e di autorealizzazione morale. Quando il movimento collettivo esaurisce la carica primaverile e il sindacato rasenta l’istituzionalizzazione, prevale una concezione che potremmo superficialmente definire «hobbesiana», rassegnata cioè alla coazione, favorevole alla prevalenza degli incentivi materiali. Allora la proiezione di queste esigenze trova soddisfazione nello stato moderno, e rispetto a esso l’opposizione sociale si riduce a mettere in discussione la pulizia dell’amministrazione, non la logica del dominio sul sociale.