Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c3

capitolo terzo L’aggressività nel sindacato: sentimenti di morte ed eclisse della solidarietà?

1. Motivo degli appunti

La vita interna del sindacato nei mesi dell’autunno inverno ’76 è segnata da un clima di scontro e di aggressività che coinvolge sia i militanti più impegnati sia i gruppi dirigenti. L’assemblea dei delegati milanesi faceva percepire quasi fisicamente le tensioni che opponevano i gruppi e le persone. Così le riunioni di zona e dei consigli più importanti. Ma non è questione che riguarda solo gli attivisti di fabbrica, poiché un analogo tono vive nei dibattiti tra responsabili, nella vita «romana» del sindacato e nelle polemiche giornalistiche tra personaggi, correnti e componenti che ne sono un riflesso diplomatizzato.
Un dirigente della fiom, che è anche un amico, diceva dopo un acre incontro dell’esecutivo dell’Alfa Romeo quanto quella situazione gli ricordasse i tempi della divisione del ’48-’49. Forse siamo di fronte a un’esagerazione, certo è che rievocava il giorno in cui era rimasto isolato tra i suoi compagni di partito nell’inutile tentativo di impedire l’aggressione in mensa al commissario interno cattolico, con il quale fino a poco tempo prima si era lavorato a ricostruire il sindacato (e con il quale quindici anni dopo si sarebbe ripreso il lavoro unitario). La ricerca del colpevole, l’ansia per il tradimento presunto, l’irritazione crescente per i comportamenti diversi sono atteggiamenti caratterizzanti questa condi{p. 48}zione d’animo dell’insieme dell’organizzazione sindacale.
Anche quelli di noi che reagiscono, penso giustamente, di fronte al taglio centralizzatore e d’ordine o alla logica della «ragion di stato» presente nei comportamenti di molti dirigenti del pci nel sindacato, sentono montare dentro di sé, anche al di là dei fatti che potrebbero giustificarlo, un atteggiamento pregiudiziale di sfida e di contrapposizione. Più che affastellare esempi credo che basti a ciascuno ripercorrere le personali esperienze, e analizzare l’animo con il quale oggi affronta i suoi compiti nel sindacato, la passione che mobilitano le lotte interne rispetto a quelle tradizionali ed esterne. Se questo stato di spirito non è un’invenzione ma rappresenta in qualche misura una continuità di fenomeni, cambia non di poco il significato che per il militante e il dirigente ha oggi l’impegno nel sindacato: la costellazione di motivazioni e di obiettivi soggettivamente prescelti che presiede all’azione politica ha subito una modificazione che non può essere taciuta. Si tratta di un discorso un po’ strambo e difficile, anche perché rispetto ai fenomeni di aggressività da sempre presenti nelle organizzazioni di classe non si è mai sviluppata una riflessione collettiva: da un lato si è sempre tentato di contenerli e guidarli ritenendoli pericolosi, dall’altro si è sempre lavorato sull’aggressività come su di un’energia insostituibile nella lotta. Ci si è limitati nei discorsi ufficiali a una conformistica condanna della violenza, o a dimostrare a quelli che chiamavamo «benpensanti» lo squilibrio tra la modesta violenza di un picchetto o di un corteo e quella quotidiana e «legittima» che informa i rapporti sociali e di lavoro. Né i gruppi minoritari che volevano testimoniare in favore della non violenza hanno escluso l’utilizzo dell’ag{p. 49}gressività, limitandosi a negare determinati costumi violenti o violenze specifiche considerate più gravi.
Il motivo di questo capitolo è quello principalmente di richiedere ai compagni una conferma o una smentita delle impressioni da cui il discorso muove, e di chiedere a coloro che studiano questi fenomeni di riaffrontarli anche all’interno del movimento operaio e sindacale, utilizzando concetti meno equivoci e ipotesi più serie di quelle adottate qui.

2. Cosa c’è di nuovo

In tutti gli anni trascorsi c’è stata lotta politica nel sindacato, e perciò abbiamo sperimentato scontri, polemiche, momenti di aggressività. Mi sembra tuttavia di notare alcune novità: anzitutto lo scontro odierno avviene, assai più di prima, piuttosto che sulla base di obiettivi, sulla base di appartenenze consolidate, talvolta totalizzanti. Non è più lo scontro tra chi vuole l’unità e chi non la vuole, o principalmente tra il moderato e l’avanzato nella lotta, ma uno scontro tra confederazioni, componenti di partito, raggruppamenti stabili di forze, e coinvolge sia l’apparato a pieno tempo sia i delegati e i rappresentanti sindacali che contano nelle aziende. Lo scontro, fondato più su una appartenenza che sulle convinzioni e sugli scopi personalmente vissuti, centralizza la battaglia interna e non favorisce rimescolamenti alla base, anzi tende a «scatenare» la base in nome di un’appartenenza che fa perno sugli obiettivi e che impedisce in qualche misura la discussione sul merito del contendere. Ciò accresce il peso dell’aggressività, un’energia che si sviluppa nella nuova situazione più contro qualcuno che per qualcosa, e la stabilizza a un livello di scarsa consapevo{p. 50}lezza. Chi si ricorda l’acceso congresso della cisl del ’69, sa che al di là dello scontro propriamente congressuale – spiegabilissimo tra l’altro per la posta in gioco anche personale che contrapponeva due gruppi dirigenti politicamente eterogenei –, la carica polemica si è spenta molto rapidamente e le mediazioni successive sono apparse a gran parte dei quadri piuttosto ragionevoli, permettendo a ciascuno di uscire da una guerra di trincea di cui non vedeva bene lo scopo.
Assai più profonde mi sembrano invece le trincee che si sono scavate nei mesi più recenti in tutto il movimento sindacale. La novità principale pare consistere nel trasferimento radicale dell’immagine del nemico e della sua forza negativa dall’esterno all’interno del sindacato. Il sindacato ha sostanzialmente accettato analisi che individuano la colpa dell’attuale stato di cose dentro il mondo del lavoro; è passato rapidamente da una concezione «angelicata» della classe operaia a una visione della classe che deve mondarsi di errori, di limiti, di vergogne, e le tradizionali attribuzioni di colpe all’esterno (i governanti, i padroni, i parassiti) si ripetono ormai a puro titolo di continuazione di un rito.
Ciò che mi sembra più preoccupante è l’indebolirsi nel movimento, e soprattutto nell’organizzazione, dei legami «positivi», solidaristici. Basta forse fare il punto sul discorso dell’unità sindacale, che vede molti più sostenitori di ieri ma il cui sostegno è sempre più fiacco. Quasi tutti la postulano: la vogliono coloro che pure si sentono delusi per l’inattuabilità di un’unità davvero organica, la vogliono quasi tutti coloro che fino a ieri la consideravano un pericoloso meccanismo di infiltrazione dei comunisti, la vogliono coloro che la ritengono utile per la strategia della loro parte politica, la vogliono co{p. 51}loro che temono divisioni pericolose per la democrazia ecc. Tutti per delle ragioni buone, nessuno la vuole, come qualche anno fa, perché l’unità sindacale dei lavoratori per sé rappresenta la vittoria della solidarietà popolare sulle divisioni, perché esalta, dandole forma organica, la possibilità che i lavoratori esprimano un’ipotesi di cambiamento sociale. Tutti vogliono l’unità come luogo di regolamentazione e di mantenimento delle divisioni.
L’indebolirsi delle logiche di solidarietà nella parte attiva e responsabile del sindacato – sia pure dietro una facciata diplomatica rispettata anche dagli avversari dell’azione sindacale – coincide con il manifestarsi di tensioni, di violenze minute ma significative perché hanno per oggetto colui con il quale fino a ieri ci si identificava, soprattutto coincidono con la pratica impossibilità di elaborare insieme, di affrontare congiuntamente i problemi nuovi, dando luogo (ed è una fortuna) a un complesso meccanismo di negoziazione interna abbastanza solido da tenere insieme, sulla base di un comune interesse di organizzazione (ma senza principi e valori espliciti), quelle parti che la sconfitta della solidarietà ha riabilitato come diverse e irriducibili. Non mi è parso avventato richiamare nel titolo i sentimenti di morte, sulla base di un recente scritto di Lidia Menapace, nel senso di indicare in maniera un po’ esasperata alcuni elementi di delusione, di asprezza, di realismo cinico, di protesta puramente espressiva che accomunano le diverse componenti del movimento in una soggezione nuova rispetto agli avvenimenti e alle scadenze di queste settimane.

3. Spiegazioni politiche

La crisi del sindacato, di cui ho sottolineato un
{p. 52}aspetto marginale, ha già trovato molte spiegazioni politiche. C’è chi ha visto l’inevitabile ridimensionamento di un sindacalismo autosufficiente, ma non in grado di uscire dai limiti della rivendicazione pura e semplice. La classe politica nel suo insieme avrebbe ripreso le redini, utilizzando il forte consenso di massima intorno alle caratteristiche fondamentali del sistema, che anche le consultazioni elettorali hanno confermato. Altri hanno ravvisato le cause del declino di forza contrattuale nella gravità della crisi e nell’arresto dello sviluppo. Altri ancora hanno puntato il dito su ragioni interne di sfaldamento, sui limiti della democrazia sindacale, e sulla divisione tra dirigenti che credono nell’autonomia sindacale e dirigenti che comunque ritengono di subordinare l’azione agli esiti del quadro politico-istituzionale. Da qualunque parte si muova, l’analisi non può che concludersi ricordando come sia inevitabile che in una organizzazione in difficoltà si manifestino divisioni più accentuate, spinte alla successione, congiure, collegamenti esterni.