Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c2
capitolo secondo Il sindacalismo dell'immagine
1. Premessa
Le osservazioni che seguono intendono utilizzare un punto di vista particolare per illuminare alcuni aspetti di un vasto processo di ricollocazione e ridefinizione del sindacalismo italiano. Certo, per valutare gli effetti della crisi sulla pratica sindacale sarebbe stato meglio procedere, secondo la logica classica, da un’analisi del quadro internazionale, degli equilibri economici e dei rapporti di classe. Chi scrive non era in grado di compiere questa operazione andando al di là delle ovvietà e del clima di «già vissuto» che normalmente impregna tali indagini, e per questo si muove in un’ottica necessariamente e volutamente parziale.
2. La tesi
La tesi che proponiamo è la seguente: il sindacalismo italiano ha cominciato recentemente – al culmine della sua ascesa istituzionale – a modificare radicalmente l’equilibrio degli anni ’60 tra obiettivi di breve e medio periodo relativi alla modifica delle condizioni dei lavoratori e l’obiettivo di diffondere tra le masse idee e opinioni relative al sistema politico ed economico. La funzione di costruzione, diffusione e consolidamento di «immagini» prevale largamente sulla funzione di elaborazione e di conseguimento di rivendicazioni (sia di fabbrica, sia sociali).¶{p. 24}
Altri hanno parlato di sindacalismo di opinione; usando la definizione «sindacalismo dell’immagine» si vuole sottolineare come questa forma sindacale si avvicini per molti aspetti a un moderno mezzo di comunicazione di massa e come tale può essere parzialmente analizzata.
3. Mutamenti di natura del sindacato?
Dire a questo punto che il sindacato italiano cambia natura è francamente eccessivo e impreciso (impelagarsi in una rischiosa definizione della natura del sindacato è d’altra parte poco concludente): infatti, il sindacato, come organizzazione di massa, ha sempre prodotto immagini ideologiche e su di esse ha costruito un consenso di natura politico-morale, sia nelle fasi di divisione sia in quelle di unità.
È di esperienza quotidiana il fatto che gli attivisti sindacali diventano tali sulla base di una scelta che supera e talvolta addirittura contraddice i loro interessi individuali immediati, così come è evidente che, senza un quadro di riferimento e di interpretazione, risulterebbe impossibile ricondurre a un minimo di unità gli interessi rivendicativi di una classe operaia differenziatissima in un sistema economico segnato da competizioni interne e da diversi gradi di sviluppo. Solo una strategia produce unità e una strategia di largo respiro non è mai quotidianamente verificabile; è in qualche misura una scommessa in cui si crede sulla base di prefigurazioni morali e politiche che solo attraverso numerosi «salti mortali logici» possono rientrare in un sistema scientifico-sperimentale.
Tuttavia, nel corso degli ultimi 15 anni, avevamo conosciuto un sindacalismo che univa la sua tradizionale tensione politica a un procedere particolar¶{p. 25}mente «induttivo» e pragmatico: allargava il suo consenso a partire dalla pratica rivendicativa e dalla conquista di spazi di potere, di libertà e di reddito, concretamente misurabili anche nell’esperienza singola di molti lavoratori. Su quest’esperienza pratica di lotta si inseriva la «promessa» politica. Era, infatti, un sindacalismo che per ricostruirsi aveva dovuto riprendere, anche per la spinta del movimento, l’analisi della fabbrica, del sistema economico, della zona sociale in cui si muove l’esistenza del lavoratore. Era diventato sindacato di una società industriale moderna rivedendo radicalmente, insieme con le forme di lotta e di organizzazione, le sue stesse linee interpretative del sistema (e su questo processo tra l’altro si era innestata la possibilità di unificazione dal basso). Non è più così. Né per «tradimenti», né solo e principalmente per interventi esterni. L’apice del potere contrattuale e della legittimazione del sindacato come istituzione cardine del sistema politico ha infatti coinciso con una crisi che riduce le compatibilità economiche delle rivendicazioni e che tende a rallentare o bloccare le opportunità di nuove conquiste salariali e normative «reali». Molti nodi vengono al pettine e si esalta necessariamente la dimensione «politica» dei problemi, il fatto cioè che solo trasformazioni profonde del sistema economico e sociale possono garantire lo sviluppo delle conquiste operaie, almeno di quelle di massa.
Il sindacato, inteso come gruppo dirigente, sembra a questo punto avvertire il rischio di un ridimensionamento (e qualcuno tende ad accettarlo come inevitabile). Risponde adattando la propria strategia: si pone degli obiettivi che naturalmente sono di lungo periodo (le riforme, il nuovo modello di sviluppo), ma nel contempo continua ad agire ai consueti ritmi legati al breve periodo (rivendica¶{p. 26}zione-lotta-eventuale conquista). Ha bisogno di una mobilitazione costante, anche per affermare la propria insostituibilità come partner politico, ma tende a orientarla su obiettivi sempre più sfumati e sempre meno interpretabili come rivendicazioni. Non sono quindi più le pratiche quotidiane il fondamento del consenso, ma l’adesione a immagini generali e strategiche non verificabili dai singoli.
E intanto tiene più di ogni altro sindacalismo europeo in tempo di crisi, e tiene il movimento, un movimento forte e ancora fiducioso anche se non più propositivo, costretto com’è a confrontarsi con problemi e strategie dominabili solo da gruppi dirigenti. D’altra parte, tra lo scoprire l’urgenza e la priorità logica dei grandi obiettivi economico-sociali e la capacità di organizzarsi per perseguirli c’è il vuoto della scarsa esperienza e dell’impreparazione. Inevitabilmente, questo modo di procedere fa emergere coincidenze e intersecazioni sempre più strette tra linee del sindacato e linee di partito: in particolare, con il Partito comunista che più di ogni altro può vantare una rappresentanza politica della classe operaia; di qui difficoltà e blocchi di altro tipo.
Così il dibattito nel sindacato si spegne per quanto riguarda i contenuti strategici nell’assorta contemplazione dell’immagine bella e generica di «nuovo modello di sviluppo»; gli scontri interni si fanno sempre più aspri ogni qualvolta nella contrattazione si è costretti a centrare obiettivi concreti e di breve periodo (salario, difesa del posto di lavoro, diritti di contrattazione, ecc.), anche perché su questo terreno il movimento volta a volta pone seri problemi di direzione o di «gestione». Il problema del collegamento e della coerenza tra i due livelli di obiettivi non trova soluzioni stabili e si aggrava progressiva¶{p. 27}mente; il messaggio generale del sindacato diventa uno stereotipo.
Il sindacalismo dell’immagine proietta un messaggio ripetitivo e costante: «Il sindacato è forte e autorevole; le lotte vanno bene; la strategia di fondo è l’unica giusta e risolutiva; su di essa siamo tutti d’accordo; i singoli obbiettivi non sono decisivi e talvolta sono corporativi».
Questo messaggio è anzitutto rivolto a una élite di delegati e di responsabili di fabbrica, gli opinion-leaders, coloro che vivono l’organizzazione come obiettivo in sé. Un’area che in questi anni si è grandemente ampliata e che rappresenta il filtro per la costruzione del consenso. Ad essi il compito di rafforzare quella delega verso l’alto che il movimento già spontaneamente offre nell’orizzonte di incertezza e anche di difficoltà di comprensione che caratterizza una crisi lunga e profonda. Il sindacato tende quindi a passare da un ciclo di formazione e di allargamento del consenso di massa a una fase di gestione del consenso. Non è qui in discussione la politicizzazione dell’azione sindacale, bensì il modo di proporla, di condurla e quindi di svuotarla. Si esaltano tutti gli aspetti che accomunano il sindacato a un mezzo di comunicazione di massa. La trasmissione di immagini e di messaggi avviene largamente al di fuori degli organismi dirigenti sindacali: la TV, i quotidiani, i settimanali, sono i canali emergenti esterni, mentre all’interno stanno le manifestazioni, le assemblee «aperte», le conferenze di produzione, i convegni di massa, le grandi kermesses che periodicamente fanno concentrare in grandi città italiane masse di lavoratori. Il linguaggio diventa omogeneo, si affacciano forme di divismo, scompaiono gradualmente i già scarsi elementi di creatività decentrata (giornali di fabbrica, cartelli redatti spontanea
¶{p. 28}mente), il fischio e l’applauso diventano gli avvenimenti da ricordare, le battaglie tra slogan ritualizzano gli spazi di dibattito.
Note